Il magistero sociale di Benedetto XVI lungo l'anno 2010

Il capitolo sul magistero sociale di Benedetto XVI del 3° Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel Mondo

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ROMA, giovedì, 9 febbraio 2012 (ZENIT.org).- Pubblichiamo per gentile concessione dell’Editore il capitolo sul magistero sociale di Benedetto XVI del Terzo Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel Mondo, Cantagalli, Siena 2012. Il Rapporto, redatto dall’Osservatorio internazionale Cardinale Van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa e curato da G. Crepaldi e Stefano Fontana, è appena stato pubblicato anche in Francia nel fascicolo n. 55, dicembre 2011, della rivista Liberté Politique.

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IL MAGISTERO SOCIALE DI BENEDETTO XVI

LUNGO L’ANNO 2010

S. E. Mons. Giampaolo Crepaldi

Problemi di impostazione e di metodo

Il magistero di Benedetto XVI sulla Dottrina sociale della Chiesa, come abbiamo già avuto modo di far notare nei Rapporti degli anni precedenti, non riguarda solo, né soprattutto, singole tematiche sociali, ma piuttosto l’orientamento da dare ad essa, il quadro teorico e vitale in cui inserire la riflessione e l’azione sociale del cattolico. Li potremmo chiamare problemi di impostazione e di metodo.

Anche nel 2010 il Papa ha tenuto diversi di questi discorsi a carattere epistemologico. I principali sono stati i seguenti: il discorso alla XIV seduta pubblica delle Pontificie accademie del 28 gennaio 2010, l’omelia alla concelebrazione eucaristica con i membri della Pontificia commissione biblica del 15 aprile 2010, il discorso al Convegno su Romano Guardini del 29 ottobre 2010, il discorso al Pontificio consiglio per la cultura del 13 novembre 2010, il discorso alla Commissione teologica internazionale del 3 dicembre 2010. Dall’esame di questi discorsi si possono ricavare importanti insegnamenti sul contesto dottrinale e metodologico della Dottrina sociale della Chiesa.

Il discorso del 3 dicembre 2010 era indirizzato alla Commissione teologica internazionale convocata in riunione plenaria per discutere, tra l’altro, dell’integrazione della Dottrina sociale della Chiesa nel contesto più ampio della Dottrina cristiana. Il tema è di notevole importanza in quanto la Dottrina sociale è un vero e proprio sapere che, come tale, va inserito in modo organico dentro il contesto più generale della Dottrina cristiana, prima ancora che nel rapporto con i saperi, diciamo così, profani. Il suo carattere interdisciplinare, di cui parla il n. 59 della Centesimus annus, vale nel contesto del sapere in generale ma ancor di più dentro la Dottrina cristiana.

Nel discorso suddetto Benedetto XVI ha impostato questa problematica. Egli ha detto che «Conoscenza e amore si sostengono a vicenda». Chi ama desidera conoscere sempre di più l’amato, la cui conoscenza non è mai solo un fatto di conoscenza ma anche di amore. Del resto non si ama se non nella verità dell’amore e nella verità dell’amato. Ora: «Chi ha scoperto in Cristo l’amore di Dio, infuso dallo Spirito Santo nei nostri cuori, desidera conoscere meglio Colui da cui è amato e che ama». Si desidera conoscere Dio perché lo si ama avendo scoperto di essere amati da Lui. Ma questo non vuol dire solo che si conosce per amare, ma anche che si conosce amando. L’amore stesso è conoscenza; esso non solo richiede la conoscenza e la provoca, ma è esso stesso conoscenza. Ecco perché, dice il Papa, l’opera del teologo non è mai solo di tipo intellettuale, ma si fonda sull’amore per Dio vissuto nella Chiesa.

Se, quindi, si ama conoscendo e si conosce amando, la ragione è indispensabile all’amore, come l’amore è indispensabile alla ragione. Ecco perché «possiamo pensare a Dio e comunicare ciò che abbiamo pensato, perché Egli ci ha dotato di una ragione in armonia con la sua natura». Egli, infatti, è Amore ma anche Verità. Egli è il Logos (Gv 1,1). Conoscendolo tramite la ragione, però lo scopriamo anche come «fonte di perdono, di giustizia e di amore», con il che si ritorna al tema dell’amore, inseparabile da quello della verità.

Benedetto XVI aggiunge anche che, siccome l’uomo tende a collegare le sue conoscenze, anche la conoscenza di Dio va organizzata in modo sistematico, appunto nella teologia. Ma tale sistema teologico non si tiene insieme solo per i suoi legami logici, senza l’amore per il suo Oggetto. La teologia va esercitata quindi dentro l’amore vissuto dalla Chiesa credente, alla quale appartengono anche «i credenti e i teologi venuti prima di noi». La teologia si inserisce nella Tradizione cristiana non solo in senso speculativo, ma anche come espressione dell’amore per Dio vissuto nella Chiesa. La Tradizione non è solo un sistema teorico che continua, essa è una vita che continua.

Tutto questo è di fondamentale importanza per la Dottrina sociale della Chiesa. Essa infatti nasce dall’amore di Dio e diventa amore per il prossimo nella verità. Dice Benedetto XVI che «Contemplazione di Dio rivelato e carità per il prossimo non si possono separare» e i «frutti muoiono se si taglia la radice dell’albero. Infatti non c’è giustizia senza verità e la giustizia non si sviluppa pienamente se il suo orizzonte è limitato al mondo materiale». In questo modo il Papa ci dice che la Dsc non può essere se stessa se non radicata nella Dottrina cristiana, che è sempre verità e amore nello stesso tempo.

Nel discorso al Convegno su Romano Guardini del 29 ottobre 2010, Benedetto XVI ha potuto trarre ispirazione dal grande teologo per dire che la Verità e l’Amore ci precedono e ci costituiscono. «Lo specifico cristiano – ha detto – consiste nel fatto che l’uomo sia in una relazione con Dio che lo precede e alla quale non può sottrarsi. Non è il nostro pensare il principio che stabilisce il metro di misura, ma Dio che supera il nostro metro di misura e non può essere ridotto ad alcuna entità creata da noi. Dio rivela sé stesso come la verità, ma essa non è astratta, bensì si trova nel concreto-vivente, infine, nella forma di Gesù Cristo». Ecco perché «Chi vuole vedere Gesù, la verità, deve “invertire la rotta”, deve uscire dall’autonomia del pensiero arbitrario verso la disposizione all’ascolto, che accoglie ciò che è». Si tratta di invertire il soggettivismo epistemologico, o costruttivismo che dir si voglia.

Prendendo spunto sempre da Romano Guardini, il Papa dice anche che ciò vale sul piano teoretico ed anche su quello pratico e morale: «Dall’apertura dell’uomo per il vero segue, per Guardini, un ethos, una base per il nostro comportamento morale verso il nostro prossimo, come esigenza della nostra esistenza. Poiché l’uomo può incontrare Dio, può anche agire bene. Per lui vale questo primato dell’ontologia sull’ethos, dall’essere, dall’essere stesso di Dio rettamente compreso e ascoltato segue dunque il retto agire. Egli diceva: “Una prassi autentica, cioè un agire corretto, sorge dalla verità, e per questa si deve lottare”».

Il dissidio con la concezione moderna della libertà ritorna qui in tutta la sua forza: «Sì, ma libero è solo – ci diceva – colui che “è completamente ciò che deve essere secondo la sua natura. […] Libertà è verità”. La verità dell’uomo è per Guardini essenzialità e conformità all’essere».

Nell’omelia alla concelebrazione eucaristica con i membri della Pontificia commissione biblica del 15 aprile 2010 Benedetto XVI ha riformulato tutto ciò trattando dell’obbedienza, e in particolare della frase di San Pietro “Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini” (At 5,29). «San Pietro – egli dice – sta davanti alla suprema istituzione religiosa, alla quale normalmente si dovrebbe obbedire, ma Dio sta al di sopra di questa istituzione e Dio gli ha dato un altro “ordinamento”: deve obbedire a Dio.  L’obbedienza a Dio è la libertà, l’obbedienza a Dio gli dà la libertà di opporsi all’istituzione».

Lo stesso aveva fatto Socrate: «Il tribunale gli offre la libertà, la liberazion
e, a condizione però che non continui a ricercare Dio. Ma cercare Dio, la ricerca di Dio è per lui un mandato superiore, viene da Dio stesso.  E una libertà comprata con la rinuncia al cammino verso Dio non sarebbe più libertà. Quindi deve obbedire non a questi giudici – non deve comprare la sua vita perdendo se stesso – ma deve obbedire a Dio. L’obbedienza a Dio ha il primato».

«Il tempo moderno. osserva Benedetto XVI – ha parlato della liberazione dell’uomo, della sua piena autonomia, quindi anche della liberazione dall’obbedienza a Dio. L’obbedienza non dovrebbe più esserci, l’uomo è libero, è autonomo: nient’altro. Ma questa autonomia  è una menzogna: è una menzogna ontologica, perché l’uomo non esiste da se stesso e per se stesso, ed è anche una menzogna politica e pratica,  perché la collaborazione, la condivisione della libertà è necessaria. E se Dio non esiste, se Dio non è un’istanza accessibile all’uomo, rimane come suprema istanza solo il consenso della maggioranza. Di conseguenza, il consenso della maggioranza diventa l’ultima parola alla quale dobbiamo obbedire. E questo consenso — lo sappiamo dalla storia del secolo scorso — può essere anche un “consenso nel male”». La conclusione è che «è proprio l’obbedienza che dà libertà».

Si comprende, con tutto ciò, l’omaggio reso da Benedetto XVI a San Tommaso d’Aquino nel discorso alla XIV seduta pubblica delle Pontificie accademie del 28 gennaio 2010. «L’odierna cultura – ha detto – risente fortemente sia di una visione dominata dal relativismo e dal soggettivismo, sia di metodi e atteggiamenti talora superficiali e perfino banali, che danneggiano la serietà della ricerca e della riflessione e, di conseguenza, anche del dialogo, del confronto e della comunicazione interpersonale». «Il pensiero e la testimonianza di San Tommaso d’Aquino – invece, ndr – ci suggeriscono di studiare con grande attenzione i problemi emergenti per offrire risposte adeguate e creative. Fiduciosi nella possibilità della “ragione umana”, nella piena fedeltà all’immutabile depositum fidei, occorre – come fece il “Doctor Communis” – attingere sempre alle ricchezze della Tradizione, nella costante ricerca della “verità delle cose”».

Spesso si fa il grande errore di intendere la Dottrina sociale della Chiesa come qualcosa “da cui partire” per scendere a valle della stessa. Non si riflette sempre sul fatto che essa ha qualcosa di fondamentale “a monte” di se stessa, si colloca nel contesto della Dottrina e della Vita cristiana. Senza quei presupposti essa si inaridisce con il conseguente rischio di essere considerata un serbatoio di riflessioni su singoli problemi pratici. Invece, ogni problema pratico viene illuminato dall’intera Dottrina sociale della Chiesa e non solo da un suo frammento, e l’intero corpus della Dottrina sociale della Chiesa a sua volta richiama il contesto più ampio della Dottrina e della Vita cristiana.

Il viaggio apostolico nel Regno Unito

Non temo di dire che il viaggio apostolico che Benedetto XVI ha compiuto nel Regno Unito dal 16 al 19 settembre 2010 ha rappresentato un culmine nel suo insegnamento sociale nell’anno che stiamo considerando. Egli ha fatto visita – per la prima volta – ad un Paese di antica tradizione cristiana ma che oggi è segnato in modo particolare dall’espulsione del cristianesimo dalla sfera pubblica e da forme acute di secolarizzazione non solo religiosa ma anche etica. Il Regno Unito è inoltre caratterizzato da un accentuato multiculturalismo e dal riconoscimento di fatto del diritto islamico con le tensioni che questo comporta. Il viaggio del Papa avveniva inoltre dopo che fette importanti della Chiesa anglicana erano state accolte nella Chiesa cattolica romana mediante l’istituzione di un Ordinariato specifico. Il tema del dialogo ecumenico si caricava quindi di particolari sfumature. Prima del viaggio erano esplose sui media molte polemiche riguardanti la visita del Papa.

Proprio le suddette difficoltà hanno conferito al viaggio un’importanza particolare, in quanto Benedetto XVI è riuscito a dare agli Inglesi un messaggio di altissimo profilo, chiarendo l’identità cattolica senza nessuno sconto e nello stesso tempo, anzi proprio per questo, mostrando come l’apertura, il dialogo e la collaborazione siano possibili a tutti i livelli. Per assolvere a questo ardito compito, il Papa si è servito soprattutto della figura del cardinale Newman, da lui beatificato proprio durante il viaggio.

Gli interventi di Benedetto XVI di maggiore densità sono stati ad Hyde Park a Londra, durante la veglia di preghiera per la beatificazione del Cardinale Newman e alla Westminster Hall, venerdì 17 settembre 2010, davanti alle autorità politiche, senza dimenticare l’omelia durante la messa di beatificazione di Newman al Cofton Park di Rednal a Birmingham.

Nel primo di questi discorsi il Papa ha ricordato come la conversione di Newman sia avvenuta con la scoperta dell’«oggettiva realtà della rivelazione cristiana», ossia come «una lotta contro la tendenza crescente a considerare la religione come un fatto puramente privato e soggettivo, una questione di opinione personale». L’Osservazione non è di poco conto, dato che proprio il cardinale Newman è invece spesso adoperato a sostegno della tesi della priorità assoluta della coscienza personale nel giudizio storico, come un campione non di realismo ma di soggettivismo. Secondo Benedetto XVI, invece, «Vediamo qui il preciso realismo cristiano di Newman, il punto nel quale la fede e la vita inevitabilmente si incrociano».

Da Newman il Papa passa all’analisi della situazione dell’Inghilterra di oggi, e non solo dell’Inghilterra: «ai nostri giorni, quando un relativismo intellettuale e morale minaccia di fiaccare i fondamenti stessi della nostra società, Newman ci rammenta che, quali uomini e donne creati ad immagine e somiglianza di Dio, siamo stati creati per conoscere la verità, per trovare in essa la nostra definitiva libertà e l’adempimento delle più profonde aspirazioni umane. In una parola, siamo stati pensati per conoscere Cristo, che è Lui stesso “la via, la verità e la vita” (Gv 14,6)». La fede cristiana chiede di non essere separata dalla vita: «non vi può essere separazione tra ciò che crediamo ed il modo in cui viviamo la nostra esistenza. Ogni nostro pensiero, parola e azione devono essere rivolti alla gloria di Dio e alla diffusione del suo Regno». Il vero motivo dell’impegno del cristiano nel mondo è la gloria di Dio e la diffusione del suo Regno, anche se «Nella nostra epoca, il prezzo da pagare per la fedeltà al Vangelo non è tanto quello di essere impiccati, affogati e squartati, ma spesso implica l’essere additati come irrilevanti, ridicolizzati o fatti segno di parodia. E tuttavia la Chiesa non si può esimere dal dovere di proclamare Cristo e il suo Vangelo quale verità salvifica, la sorgente della nostra felicità ultima come individui, e quale fondamento di una società giusta e umana».

Alla società ipersecolarizzata inglese Benedetto XVI ha indicato la signoria di Cristo per la edificazione di una società giusta ed umana e ai cattolici, che rischiano essi stessi di essere assorbiti in questo clima secolarizzante, ha detto che «ciascuno di noi, secondo il proprio stato di vita, è chiamato ad operare per la diffusione del Regno di Dio impregnando la vita temporale dei valori del Vangelo».

E di cosa ha bisogno Cristo per esercitare la sua signoria sulla società? «Cristo ha bisogno di famiglie che ricordano al mondo la dignità dell’amore umano e la bellezza della vita familiare. Egli ha bisogno di uomini e donne che dedichino la loro vita al nobile compito dell’educazione, prendendosi cura dei giovani e formandoli secondo le vie del Vangelo. Ha bisogno di quanti consacreranno la propria vita al perseguimento della carità perfetta, seguendolo in castità, povertà e obbedienza, e servendolo nel più piccolo dei nostri fratelli
e sorelle. Ha bisogno dell’amore potente dei religiosi contemplativi che sorreggono la testimonianza e l’attività della Chiesa mediante la loro continua orazione. Ed ha bisogno di sacerdoti, buoni e santi sacerdoti, uomini disposti a perdere la propria vita per il proprio gregge».

Il tema del primato di Dio per la costruzione della società, espresso in modo così accorato alla veglia di preghiera per la beatificazione del Cardinale Newman, è stato ripreso alla Westminster Hall ed applicato al potere politico nelle democrazie. Il Papa ha ricordato che molte scelte politiche sono anche scelte morali, come testimoniano l’abolizione della schiavitù, avvenuta proprio in Inghilterra, e la scelta coraggiosa di Tommaso Moro. Da qui la domanda: «Ogni generazione, mentre cerca di promuovere il bene comune, deve chiedersi sempre di nuovo: quali sono le esigenze che i governi possono ragionevolmente imporre ai propri cittadini, e fin dove esse possono estendersi? A quale autorità ci si può appellare per risolvere i dilemmi morali? Se i principi morali che sostengono il processo democratico non si fondano, a loro volta, su nient’altro di più solido che sul consenso sociale, allora la fragilità del processo si mostra in tutta la sua evidenza. Qui si trova la reale sfida per la democrazia». La densa risposta che il Papa stesso ha dato a questa domanda costituisce un minuscolo trattato sui fondamenti della Dottrina sociale della Chiesa: «La tradizione cattolica sostiene che le norme obiettive che governano il retto agire sono accessibili alla ragione, prescindendo dal contenuto della rivelazione. Secondo questa comprensione, il ruolo della religione nel dibattito politico non è tanto quello di fornire tali norme, come se esse non potessero esser conosciute dai non credenti – ancora meno è quello di proporre soluzioni politiche concrete, cosa che è del tutto al di fuori della competenza della religione – bensì piuttosto di aiutare nel purificare e gettare luce sull’applicazione della ragione nella scoperta dei principi morali oggettivi».

Il passo è di fondamentale importanza perché spiega che la fede rivelata non contraddice la ragione e non coarta l’umano ma permette di vederlo più in profondità. Questo è il rapporto corretto tra la fede e la ragione, tra la Chiesa e il Mondo, tra la giustizia e la carità. Rapporto che non mortifica nessuno dei piani, che conferisce alla fede un suo primato, ma senza che questo sia lesivo della dignità della ragione. Tanto è vero che, nel proseguo del discorso, Benedetto XVI afferma che la fede ha un «ruolo “correttivo” della religione nei confronti della ragione», ma anche che «è un processo che funziona nel doppio senso. Per questo vorrei suggerire che il mondo della ragione ed il mondo della fede – il mondo della secolarità razionale e il mondo del credo religioso – hanno bisogno l’uno dell’altro e non dovrebbero avere timore di entrare in un profondo e continuo dialogo, per il bene della nostra civiltà».

Benedetto XVI ha potuto così condannare, con diretto riferimento al Regno Unito, la «crescente marginalizzazione della religione, in particolare del Cristianesimo, che sta prendendo piede in alcuni ambienti, anche in nazioni che attribuiscono alla tolleranza un grande valore» partendo però da una proposta positiva. Egli ha così ricordato che non esistono «solo i diritti dei credenti alla libertà di coscienza e di religione, ma anche il ruolo legittimo della religione nella sfera pubblica».

Nel Discorso alla Curia romana per la presentazione degli auguri natalizi del 20 dicembre 2010, Benedetto XVI ha dedicato gran parte delle sue parole a ripercorrere alcuni momenti fondamentali del viaggio nel Regno Unito. Si è soffermato molto sul Cardinale Newman, affermando cose molto interessanti sul suo “realismo” e sulla sua visione della coscienza”.

Sul realismo il Papa ha detto: «Veramente reale appariva a lui, come agli uomini del suo e del nostro tempo, l’empirico, ciò che è materialmente afferrabile. È questa la “realtà” secondo cui ci si orienta. Il “reale” è ciò che è afferrabile, sono le cose che si possono calcolare e prendere in mano. Nella sua conversione Newman riconosce che le cose stanno proprio al contrario: che Dio e l’anima, l’essere se stesso dell’uomo a livello spirituale, costituiscono ciò che è veramente reale, ciò che conta. Sono molto più reali degli oggetti afferrabili. Questa conversione significa una svolta copernicana. Ciò che fino ad allora era apparso irreale e secondario si rivela come la cosa veramente decisiva. Dove avviene una tale conversione, non cambia semplicemente una teoria, cambia la forma fondamentale della vita. Di tale conversione noi tutti abbiamo sempre di nuovo bisogno: allora siamo sulla via retta».

Sulla coscienza, tema decisivo per il rapporto tra fede cattolica e modernità, egli ha affermato: «Nel pensiero moderno, la parola “coscienza” significa che in materia di morale e di religione, la dimensione soggettiva, l’individuo, costituisce l’ultima istanza della decisione. Il mondo viene diviso negli ambiti dell’oggettivo e del soggettivo. All’oggettivo appartengono le cose che si possono calcolare e verificare mediante l’esperimento. La religione e la morale sono sottratte a questi metodi e perciò sono considerate come ambito del soggettivo. Qui non esisterebbero, in ultima analisi, dei criteri oggettivi. L’ultima istanza che qui può decidere sarebbe pertanto solo il soggetto, e con la parola “coscienza” si esprime, appunto, questo: in questo ambito può decidere solo il singolo, l’individuo con le sue intuizioni ed esperienze. La concezione che Newman ha della coscienza è diametralmente opposta. Per lui “coscienza” significa la capacità di verità dell’uomo: la capacità di riconoscere proprio negli ambiti decisivi della sua esistenza – religione e morale – una verità, la verità. La coscienza, la capacità dell’uomo di riconoscere la verità, gli impone con ciò, al tempo stesso, il dovere di incamminarsi verso la verità, di cercarla e di sottomettersi ad essa laddove la incontra. Coscienza è capacità di verità e obbedienza nei confronti della verità, che si mostra all’uomo che cerca col cuore aperto».

Il viaggio apostolico in Portogallo

I temi della testimonianza, della santità e del martirio erano già stati ampiamente toccati da Benedetto XVI nei discorsi ed omelie nel Regno Unito. E’ però soprattutto nel viaggio in Portogallo (11-14 maggio 2010) che egli insiste su questo aspetto, veramente centrale anche per la Dottrina sociale della Chiesa. La testimonianza, la santità e il martirio, se applicati, come deve essere, anche alla Dottrina sociale della Chiesa, esprimono l’esigenza di collocare quest’ultima dentro la vita cristiana, correggendone la distorsione sempre presente di ridurla ad una teoria sociale.

Ma per comprendere fino in fondo questo tipo di richiamo fatto dal Papa in Portogallo, bisogna prima di tutto ricordare che durante il viaggio nel 10mo anniversario della beatificazione di Giacinta e Francesco, pastorelli di Fatima, egli ha pronunciato alcune delle più drammatiche frasi sulla situazione della fede nel Vecchio continente.

Martedì 11 maggio, all’omelia della santa messa al Terreiro do Paço di Lisboa, il Papa ha detto: «Spesso ci preoccupiamo affannosamente delle conseguenze sociali, culturali e politiche della fede, dando per scontato che questa fede ci sia, ciò che purtroppo è sempre meno realista. Si è messa una fiducia forse eccessiva nelle strutture e nei programmi ecclesiali, nella distribuzione di poteri e funzioni; ma cosa accadrà se il sale diventa insipido?». Come non applicare questo duro monito anche all’attività svolta nel campo della Dottrina sociale della Chiesa?

Giovedì 13 maggio, a Fátima,rivolto ai Vescovi del Portogallo, Benedetto XVI ha parlato di «quegli ambienti umani«dove il silenzio della fede è più ampio e profondo: i politici, gli intellet
tuali, i professionisti della comunicazione che professano e promuovono una proposta monoculturale, con disdegno per la dimensione religiosa e contemplativa della vita. In tali ambiti non mancano credenti che si vergognano e che danno una mano al secolarismo, costruttore di barriere all’ispirazione cristiana». Anche questo ammonimento desta particolare apprensione: vi si legge il deserto spirituale della società secolarizzata e contemporaneamente la condiscendenza di tanti cristiani. Non si può rimanere indifferenti davanti a queste parole: «la fede cattolica non è più patrimonio comune della società e, spesso, si vede come un seme insidiato e offuscato da “divinità” e signori di questo mondo».

Non si tratta di vere e proprie novità. Benedetto XVI ci ha abituato a questo realismo sulle concrete situazioni della presenza della fede nell’Occidente secolarizzato. In Portogallo egli ha comunque pronunciato la diagnosi più spietata di tutto questo anno 2010.

La risposta che Benedetto XVI ha dato a questo problema è di grande interesse per la Dottrina sociale della Chiesa. Nel discorso ai Vescovi, egli ha parlato prima di tutto di «un nuovo vigore missionario dei cristiani, chiamati a formare un laicato maturo, identificato con la Chiesa, solidale con la complessa trasformazione del mondo», auspicando che «quanti difendono in tali ambienti, con coraggio, un vigoroso pensiero cattolico, fedele al Magistero, continuino a ricevere il vostro stimolo e la vostra parola illuminante, per vivere, da fedeli laici, la libertà cristiana». Ha invitato a mantenere viva «la dimensione profetica, senza bavagli, nello scenario del mondo attuale, perché “la parola di Dio non è incatenata!” 2Tm 2,9)». Ha evidenziato il bisogno di un «vero ardore di santità, consapevoli che il risultato deriva soprattutto dall’unione con Cristo e dall’azione del suo Spirito». Ha anche parlato di «ricupero del fervore delle origini, della gioia dell’inizio dell’esperienza cristiana, facendosi accompagnare da Cristo come i discepoli di Emmaus nel giorno di Pasqua».

Questo recupero delle motivazioni originarie il Papa lo ha proposto anche alle organizzazioni cattoliche di carità sociale incontrate il 13 maggio: «La pressione esercitata dalla cultura dominante, che presenta con insistenza uno stile di vita fondato sulla legge del più forte, sul guadagno facile e allettante, finisce per influire sul nostro modo di pensare, sui nostri progetti e sulle prospettive del nostro servizio, con il rischio di svuotarli di quella motivazione della fede e della speranza cristiana che li aveva suscitati. Le numerose e pressanti richieste di aiuto e sostegno che ci rivolgono i poveri e i marginalizzati della società ci spingono a cercare soluzioni che rispondano alla logica dell’efficienza, dell’effetto visibile e della pubblicità».

Nell’0melia dell’11 maggio, dopo aver constatato il paesaggio desolante che ho riferito sopra, il Papa da detto che «bisogna annunziare di nuovo con vigore e gioia l’evento della morte e risurrezione di Cristo, cuore del cristianesimo, fulcro e sostegno della nostra fede, leva potente delle nostre certezze, vento impetuoso che spazza via qualsiasi paura e indecisione, qualsiasi dubbio e calcolo umano».

Ma la frase più incisiva l’aveva pronunciata già al suo arrivo in Portogallo: «Il vivere nella pluralità di sistemi di valori e di quadri etici richiede un viaggio al centro del proprio io e al nucleo del cristianesimo per rinforzare la qualità della testimonianza fino alla santità, trovare sentieri di missione fino alla radicalità del martirio».

Santità e martirio sono quindi la risposta cristiana all’uscita dalla fede dei Paesi occidentali. Ciò è un grande insegnamento anche per tutti coloro che si occupano di Dottrina sociale della Chiesa, perché la riconduce al suo stesso cuore, all’annuncio e alla missione, da cui invece è spesso distolta e isolata dentro piani pastorali di carattere piuttosto efficientista.

In Portogallo Benedetto XVI ha anche incontrato il mondo della cultura, mercoledì 12 maggio a Lisbona. E’ d’obbligo riflettere su due punti di grande importanza di questo discorso.

Egli ha parlato inizialmente della necessità di rimanere in qualche modo legati alla propria tradizione, come avevano fatto i navigatori e missionari che dal Portogallo partirono per ogni angolo del mondo. Ma oggi sembra che la cultura rifiuti la tradizione e soprattutto la tradizione cristiana e la Chiesa come «la grande paladina di una sana ed alta tradizione, il cui ricco contributo colloca al servizio della società». La risposta di Benedetto XVI indica un sacrificio da attraversare: «Per una società formata in maggioranza da cattolici e la cui cultura è stata profondamente segnata dal cristianesimo, si rivela drammatico il tentativo di trovare la verità al di fuori di Gesù Cristo. Per noi, cristiani, la Verità è divina; è il «Logos» eterno, che ha acquisito espressione umana in Gesù Cristo, il quale ha potuto affermare con oggettività: “Io sono la verità” (Gv 14,6). La convivenza della Chiesa, nella sua ferma adesione al carattere perenne della verità, con il rispetto per altre “verità”, o con la verità degli altri, è un apprendistato che la Chiesa stessa sta facendo. In questo rispetto dialogante si possono aprire nuove porte alla trasmissione della verità».

Il secondo punto riguarda una interpretazione del Vaticano II, «nel quale la Chiesa, partendo da una rinnovata consapevolezza della tradizione cattolica, prende sul serio e discerne, trasfigura e supera le critiche che sono alla base delle forze che hanno caratterizzato la modernità, ossia la Riforma e l’Illuminismo. Così da sé stessa la Chiesa accoglieva e ricreava il meglio delle istanze della modernità, da un lato superandole e, dall’altro evitando i suoi errori e vicoli senza uscita. L’evento conciliare ha messo i presupposti per un autentico rinnovamento cattolico e per una nuova civiltà – la «civiltà dell’amore» – come servizio evangelico all’uomo e alla società».

Un filo sottile collega il bisogno di santità e di martirio espresso dal Papa in molte occasioni di questo viaggio in Portogallo con queste due affermazioni di tipo culturale. L’amore e la carità dei testimoni, dei santi e dei martiri è ciò che eleva l’esperienza cristiana nel mondo e la rende capace di testimoniare la Verità pur in presenza di un pluralismo esasperato e confuso e di trasfigurare gli errori della modernità che tanto hanno nuociuto alla fede cristiane e che sono all’origine del deserto realisticamente illustrato nei passi che sopra abbiamo riportato.

Dentro questo grandioso quadro che il Papa ha delineato in Portogallo c’è lo spazio proprio della Dottrina sociale della Chiesa, la quale non potrà esprimersi se non trovando testimoni, santi e martiri.

Gli insegnamenti sulla legge naturale e la loro applicazione all’ambito politico

Come abbiamo fatto presente nei due Rapporti precedenti, Benedetto XVI non cessa di dare i propri insegnamenti sulla legge morale naturale. L’insegnamento forse più corposo e articolato sulla legge naturale è stato dato nel discorso alla Congregazione per la dottrina della fede del 15 gennaio 2010. Il Papa affronta qui il tema del rapporto tra la fede rivelata e le verità nell’ambito etico-filosofico, sostenendo che la fede ha un “ruolo veritativo”, ossia è in grado di fornire delle conoscenze e di stimolare la ragione etico-filosofica a trovare ulteriori vie di soluzione per i problemi. Ciò avviene non «fornendo soluzioni precostituite a problemi concreti» ma «proponendo prospettive morali affidabili all’interno delle quali la ragione umana può ricercare e trovare valide soluzioni».

Facendo l’esempio della bioetica, Benedetto XVI dice che «Vi sono, infatti, determinati contenuti della rivelazione cristiana che gettano luce sulle problematiche bioetiche: il valore della vita umana, la dimensione relazionale
e sociale della persona, la connessione tra l’aspetto unitivo e quello procreativo della sessualità, la centralità della famiglia fondata sul matrimonio di un uomo e di una donna. Questi contenuti, iscritti nel cuore dell’uomo, sono comprensibili anche razionalmente come elementi della legge morale naturale e possono riscuotere accoglienza anche da coloro che non si riconoscono nella fede cristiana».

L’espressione “gettare luce” trasmette bene il concetto di permettere alla sfera etico-filosofica di vedere meglio, di adoperare meglio le proprie risorse, di svolgere meglio il proprio compito. In questo modo Benedetto XVI ripropone lo schema del rapporto tra fede e ragione non come una forzatura della ragione da parte della fede, ma come una luce che libera le ragioni stesse della ragione. Per questo egli può contestare la «mentalità diffusa, secondo cui la fede è presentata come ostacolo alla libertà e alla ricerca scientifica, perché sarebbe costituita da un insieme di pregiudizi che vizierebbero la comprensione oggettiva della realtà».

Da un lato, quindi, c’è la legge morale naturale, come luce della coscienza posta da Dio in ogni uomo, la quale «non è esclusivamente o prevalentemente confessionale», dall’altro però «la Rivelazione cristiana e il compimento dell’uomo nel mistero di Cristo ne illumina e sviluppa in pienezza la dottrina. Fondata nella stessa natura umana e accessibile ad ogni creatura razionale, la legge morale naturale costituisce così la base per entrare in dialogo con tutti gli uomini che cercano la verità e, più in generale, con la società civile e secolare. Questa legge, iscritta nel cuore di ogni uomo, tocca uno dei nodi essenziali della stessa riflessione sul diritto e interpella ugualmente la coscienza e la responsabilità dei legislatori».

Nel 2010 Benedetto XVI è ritornato più volte sulla legge morale naturale, per esempio sviluppando un ampio discorso sulla coscienza morale nel discorso alla Pontificia Accademia per la Vita del 26 febbraio. Qui egli afferma che le interpretazioni delle questioni etiche abbisognano di un richiamo normativo, dato appunto dalla legge morale naturale: «Il riconoscimento della dignità umana, infatti, in quanto diritto inalienabile trova il suo fondamento primo in quella legge non scritta da mano d’uomo, ma iscritta da Dio Creatore nel cuore dell’uomo, che ogni ordinamento giuridico è chiamato a riconoscere come inviolabile e ogni singola persona è tenuta a rispettare e promuovere. Senza il principio fondativo della dignità umana sarebbe arduo trovare una fonte per i diritti della persona e impossibile giungere a un giudizio etico nei confronti delle conquiste della scienza che intervengono direttamente nella vita umana».

Se vede qui l’aggancio tra la legge morale naturale, i comportamenti personali e l’ordinamento giuridico della società. Questo ha bisogno non solo di principi condivisi, ma di principi universali espressione di un «denominatore comune per l’intera umanità». Senza tali principi «il rischio di una deriva relativistica a livello legislativo non è affatto da sottovalutare. La legge morale naturale, forte del proprio carattere universale, permette di scongiurare tale pericolo e soprattutto offre al legislatore la garanzia per un autentico rispetto sia della persona, sia dell’intero ordine creaturale. Essa si pone come fonte catalizzatrice di consenso tra persone di culture e religioni diverse e permette di andare oltre le differenze, perché afferma l’esistenza di un ordine impresso nella natura dal Creatore e riconosciuto come istanza di vero giudizio etico razionale per perseguire il bene ed evitare il male».

Lo stesso concetto è stato espresso a Cipro, il 5 giugno 2010, in occasione dell’incontro con le Autorità: «promuovere la verità morale nella vita pubblica esige uno sforzo costante per fondare la legge positiva sui principi etici della legge naturale. Richiamarsi ad essa, un tempo, era considerato evidente da sé, ma l’onda del positivismo nella dottrina giuridica contemporanea richiede la riaffermazione di questo importante assioma. Individui, comunità e Stati senza la guida di verità morali oggettive, diverrebbero egoisti e senza scrupoli, ed il mondo sarebbe un luogo pericoloso per viverci. D’altra parte, rispettando i diritti delle persone e dei popoli, proteggiamo e promuoviamo la dignità umana. Quando le politiche che sosteniamo sono poste in atto in armonia con la legge naturale propria della nostra comune umanità, allora le nostre azioni diventano più fondate e portano ad un’atmosfera di intesa, di giustizia e di pace».

Un importante insegnamento di Benedetto XVI ad estensione di questa teoria della legge naturale si trova nel discorso ai Vescovi brasiliani della regione Nordeste V del 28 ottobre 2010 e riguarda il comportamento del Vescovo dato che la Chiesa «nella sua missione di fecondare e di fermentare la società umana con il Vangelo, insegna all’uomo la sua dignità di figlio di Dio e la sua vocazione all’unione con tutti gli uomini, dalle quali derivano le esigenze della giustizia e della pace sociale, conformemente alla sapienza divina». Benedetto XVI spiega che «Il vostro dovere come Vescovi, insieme al vostro clero, è mediato, in quanto vi compete contribuire alla purificazione della ragione e al risveglio delle forze morali necessarie per la costruzione di una società giusta e fraterna». Qui viene ripetuto il rapporto di illuminazione della fede rivelata nei confronti della legge morale naturale. Egli dice però anche che «Quando però i diritti fondamentali della persona o la salvezza delle anime lo esigono, i pastori hanno il grave dovere di emettere un giudizio morale, persino in materia politica», in via immediata, quindi. «Nel formulare tali giudizi, i pastori devono tener conto del valore assoluto di quei precetti morali negativi che dichiarano moralmente inaccettabile la scelta di una determinata azione intrinsecamente cattiva e incompatibile con la dignità della persona; tale scelta non può essere riscattata dalla bontà di nessun fine, intenzione, conseguenza o circostanza». Il motivo per cui questi interventi sono doverosi dipende dal fatto che «sarebbe totalmente falsa e illusoria qualsiasi difesa dei diritti umani politici, economici e sociali che non comprendesse l’energica difesa del diritto alla vita dal concepimento fino alla morte naturale» e dal fatto che «l’ideale democratico – che è solo veramente tale quando riconosce e tutela la dignità di ogni persona umana – è tradito nei suoi fondamenti». Da qui l’invito di Benedetto XVI: «Pertanto, cari Fratelli nell’episcopato, nel difendere la vita “non dobbiamo temere l’ostilità e l’impopolarità, rifiutando ogni compromesso ed ambiguità, che ci conformerebbero alla mentalità di questo mondo”».

Il riferimento alla legge morale naturale non è mai completo, tuttavia, se non riferito a Dio. Qui si apre un grande tema che Benedetto XVI ha più volte affrontato e a cui nel 2010 ha fatto fare un ulteriore passo in avanti. La legge morale naturale rimanda a Dio creatore e lo richiede come suo ultimo fondamento. Ne consegue che, pur avendo essa anche una dimensione naturale, è solo nel riferimento a Dio creatore che ottiene tutta la sua luce e senza quel riferimento le sue norme si indeboliscono e le sue direttive si fanno più confuse perché appesantite ed offuscate dalla malizia umana. La voce della stessa coscienza si fa più labile.

Il riferimento a Dio creatore a sua volta implica un’altra precisazione: deve essere riferimento ad un Dio personale. Questa importantissima precisazione è stata fatta da Benedetto XVI nel discorso al nuovo Ambasciatore di Germania del 13 settembre 2010.Il Papa ha detto che il fatto che il cristianesimo creda in un Dio “Personale” è di grande importanza.Oggi molti si concedono una fede in un Dio piuttosto permissivo: «Al posto del Dio personale del cristianesimo, che si rivela nella Bibbia, subentra un essere supremo, misterioso e indeterminato, che ha solo una vaga relazione co
n la vita personale dell’essere umano». Con un Dio impersonale e vago, con un Dio senza volto, non si può stabilire nessuna vera relazione. Ma soprattutto un Dio che non sia Personale non vuole, non parla, non sente. Cosa ne consegue? «Se Dio non ha una propria volontà, il bene e il male alla fine non sono più distinguibili. L’uomo perde così la sua forza morale e spirituale, necessaria per uno sviluppo complessivo della persona». Un Dio vago e impersonale lascia la società senza un ordine da rispettare e non suscita una feconda disposizione di fede negli uomini. «Se invece Dio è una Persona ne consegue che un ordine di valori è legittimato». L’importanza anche sociale dei martiri, come i sacerdoti tedeschi uccisi dai nazisti, consiste in questo: essi sono un indizio che Dio è una Persona e che la società deve rispettare un ordine. Per questo motivo c’è una «fondamentale e permanente importanza del cristianesimo nel gettare le basi e formare le strutture della nostra cultura».

Di questo principio Benedetto XVI ha fatto due applicazioni. La prima ha riguardato la famiglia: «La Chiesa vede con preoccupazione il crescente tentativo di eliminare il concetto cristiano di matrimonio e famiglia dalla coscienza della società. Il matrimonio si manifesta come unione duratura d’amore tra un uomo e una donna, che è sempre tesa anche alla trasmissione della vita umana. Una sua condizione è la disposizione dei partner a rapportarsi l’uno con l’altro per sempre». Per questo «la Chiesa non può approvare delle iniziative legislative che implichino una rivalutazione di modelli alternativi della vita di coppia e della famiglia. Esse contribuiscono all’indebolimento dei principi del diritto naturale e così alla relativizzazione di tutta la legislazione e anche alla confusione circa i valori nella società».

La seconda applicazione è stata sulla bioetica: «Le nuove possibilità della biotecnologia e della medicina ci mettono spesso in situazioni difficili che rassomigliano a un camminare sulla punta della cresta. Noi abbiamo il dovere di studiare diligentemente fin dove questi metodi possono fungere d’aiuto per l’uomo e dove invece si tratta di manipolazione dell’uomo, di violazione della sua integrità e dignità. Non possiamo rifiutare questi sviluppi, ma dobbiamo essere molto vigilanti. Quando una volta si incomincia a distinguere – e spesso ciò accade già nel seno materno – tra vita degna e indegna di vivere, non sarà risparmiata nessun’altra fase della vita, ancor meno l’anzianità e l’infermità».

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ZENIT Staff

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