Il fallimento, la misericordia e la speranza, il senso di colpa dell'educatore

Relazione di don Claudio Burgio al Simposio “Educazione e la nuova evangelizzazione” (Parte iniziale)

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Riprendiamo la parte iniziale della relazione tenuta sabato 1 febbraio 2014 da don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile “C. Beccaria” di Milano e fondatore delle comunità Kayròs, al Simposio “Educazione e nuova evangelizzazione”, che si è concluso ieri, domenica 2 febbraio, a Roma.

***

«Educare non è mai stato facile e oggi sembra diventare più difficile. Lo sanno bene i genitori, gli insegnanti, i sacerdoti e tutti coloro che hanno dirette responsabilità educative. Si parla perciò di una grande “emergenza educativa”, confermata dagli insuccessi a cui troppo spesso vanno incontro i nostri sforzi per formare persone solide, capaci di collaborare con gli altri e di dare un senso alla propria vita”.

Così si apre la Lettera di Benedetto XVI alla Diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione. E’ esperienza consolidata mia e di ogni adulto impegnato in un rapporto educativo quella di confrontarsi con il peso della propria inconsistenza, della propria fragilità e impotenza educativa. Tanto più chi si trova a operare in situazioni di frontiera, come può essere un carcere minorile o una comunità di accoglienza penale per adolescenti. 
Per quanto tu possa contare sulla competenza, sull’esperienza maturata negli anni, sulla conoscenza approfondita del mondo giovanile e di questi ragazzi in particolare, ti ritrovi comunque, prima o poi, a fare i conti con la tua povertà di educatore, con le aspettative fallite o apparentemente fallite e ti rendi conto realmente di quanto sia complesso potere  incidere almeno un poco nella  storia delle persone e di quanto sia difficile far ritrovare loro modi nuovi e più autentici di vita.
Molti genitori e formatori si sentono sviliti, contestati, bocciati.
Chiudere gli occhi di fronte a questa “selva oscura” che è il peso del fallimento educativo non serve che a fomentare tutte le forme paralizzanti del pessimismo pedagogico. 
Chi non ha il coraggio di prendere coscienza dei propri limiti, si troverà smarrito nell’educare. Chi, invece, sa guardare in faccia la propria ombra, saprà esorcizzarla. Scrive S. Fausti: 

“La cultura attuale non è deprecabile; è, invece, il kairòs, il momento opportuno per raggiungere ciò che più ci sta a cuore (….). Le situazioni nuove sono come strettoie, che aprono a paesaggi più ampi e belli… Ciò che consideriamo difficoltà da risolvere e inciampo da levare, in realtà sono una chiave: apre il baule che teniamo sulle spalle, dove sta il tesoro che da sempre abbiamo con noi. La nostra epoca ci interpella con la sua novità. Dobbiamo accoglierla, per scoprire il dono che ci fu elargito fin dal principio. (….) 
Il nuovo sempre ci atterrisce e attrae insieme; ma, alla fine, prevale il fascino del conoscere. Conoscere, come amare, è sempre “trasgredire”, andare oltre il proprio limite. Solo una cosa so: più vado avanti, più si apre l’orizzonte; più cresco, più grande diventa il mio limite.
Vedere da dove si viene è almeno capire la direzione in cui ci si muove”.

Accompagnare l’esperienza dolorosa di molti ragazzi incontrati in questi anni nel carcere minorile e nelle comunità significa entrare con loro in uno straordinario desiderio di vita, vuol dire mettersi sempre nella logica di un inedito superamento del dolore attraverso la continua scoperta di risorse interiori che non si erano mai immaginate prima.
Soprattutto, significa scoprire come nel dolore ci si raccoglie, ci si prende cura di sé e si impara ad instaurare con gli altri un rapporto molto più vero e più profondo.
La sofferenza ti obbliga a guardarti dentro, a entrare in intimità con te stesso, ti spinge a una nuova e inedita costruzione di sé, ti fa entrare in contatto con la tua finitezza, intesa non come limite ma come possibilità.
Questo vale per l’adolescente in difficoltà, ma ancor più per l’educatore che sperimenta il senso del proprio limite e la frustrazione di interventi pedagogici apparentemente infecondi. 
Lo scoraggiamento e il senso di colpa possono prendere il sopravvento generando vissuti demotivanti e processi stressogeni, con conseguente scelta di resa e di abbandono (burnout).

Anche Gesù è andato incontro a un iniziale fallimento della sua azione educativa: il tradimento di Giuda, il rinnegamento di Pietro, l’abbandono degli altri apostoli, l’insulto della folla che lo aveva osannato e della quale era stato catechista instancabile e competente sono segni non riconducibili certo alla negligenza, alla sconsideratezza e faciloneria nell’educare di Gesù.
Eppure, anche il Figlio dell’uomo non si è potuto sottrarre alle delusioni che attendono ogni educatore. Il realismo di Dio arriva persino a prendere coscienza anticipatamente e, dunque, a prevedere i fallimenti dei suoi sforzi educativi: il tradimento di Giuda (Mt 26, 21; Mc 14, 18; Lc 22, 21-22; Gv 13, 21), il rinnegamento di Pietro (Mc 14, 30; Lc 22, 34; Gv 13, 38), e la fuga di tutti gli altri (Mt 26, 31; Mc 14, 27).
Ogni storia educativa interrotta ci rattrista, ci scuote e ci spinge a interrogarci sui nostri itinerari, sui nostri interventi e programmi pedagogici.
L’albero da cui Giuda pende impiccato resta pur sempre un esito possibile e un’immagine infinitamente dolorosa e amara da metabolizzare.

(…)

Per leggere il testo completo della relazione di don Claudio Burgio si può cliccare qui.

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ZENIT Staff

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