Il dramma della disoccupazione giovanile

Nel marzo 2013, sono 5.690 milioni i giovani disoccupati nell’UE. E’ necessario che qualsiasi programma politico non svenda e strumentalizzi il futuro delle nuove generazioni

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Gli ultimi dati Eurostat sulla disoccupazione giovanile in Europa ci dicono che stiamo vivendo una svolta epocale. Nei PIIGSF  (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia,  Spagna,  e, in tono sempre maggiore, Francia), il 2013 segna l’ennesimo anno in recessione.

Sono di qualche giorno fa i dati che segnalano che l’Italia è in recessione da 21 mesi. Dal 2008, il nostro Paese ha perso oltre sette punti di Prodotto interno lordo (Pil), gli ammortizzatori sociali sono riusciti ad avere solo un effetto placebo, ma non hanno potuto far nulla dinanzi alla mancata creazione di nuovo lavoro in genere e in particolare per i giovani.

Nel mese di marzo 2013, 5.690 milioni di giovani (meno di 25) sono disoccupati nell’UE a 27, di cui quasi 3,6 milioni (3,599 milioni per l’esattezza) nella zona euro. Rispetto a marzo 2012, la disoccupazione giovanile aumenta di 177mila unità nell’UE a 27 e di 184mila unità nella zona euro. Lo scorso marzo, il picco è stato raggiunto dalla Grecia con il 59,1%, la Spagna 55,9%, l’Italia 38,4% e il Portogallo 38,3%, la Francia 26.5%. In tutto, 3.6 milioni di ragazzi europei sono senza lavoro.

Anche il presidente della BCE Mario Draghi ha lanciato l’allarme sui rischi sociali e politici a cui siamo esposti. Che l’Europa sia fondata sulla diseguaglianza viene confermata da una lettura sinottica con i dati dei Paesi forti come Austria 4,7%, Germania 5,4% e Lussemburgo 5,7%.

La Germania, che pure ha le sue difficoltà, in questi anni ha visto crescere il proprio Pil, ma soprattutto è vicina alla piena occupazione, soprattutto giovanile. Il progetto di un’Unione Europa fondata sui principi di democrazia e solidarietà rischia così di affondare tra le accuse reciproche. I Paesi del Centro-Nord, con i conti in ordine, possono a ragione “accusare” i Paesi del Sud fortemente indebitati e inefficienti, i quali hanno tutto il diritto per accusare di pagare caro l’egoismo dei Paesi più forti.

È difficile che questo progetto di Europa comune con la sua zoppicante democrazia possa, nelle sue forme attuali, sopravvivere al proprio declino senza rinnovare le istituzioni e rimuovere le strutture che promuovono tutte le diseguaglianze. O si pi ripone al centro del dibattito politico Europeo il bene comune (principio ispiratore dei padri politici e delle radici cristiane) o le società europee finiranno per soccombere a qualche tentazione demagogica o autoritaria.

La globalizzazione dell’economia e della finanza ha avuto l’effetto di rendere le sovranità nazionali ancora più fragili e precarie. Nell’Unione Europea, 27 Paesi sono legati da un patto comune ma cercano instancabilmente qualche falla del sistema per riappropriarsi del diritto di fare ciò che maggiormente conviene ai loro interessi. Il grande rischio è dietro l’angolo.

Che la diseguaglianza e l’egoismo si sia impadronita dell’Europa, è confermato in maniera empirica anche dal calcio. Due squadre tedesche arrivano in finale di Champions League eliminando le squadre spagnole (il mitico Barcellona di Messi), dopo aver eliminato quelle italiane, sono lo specchio dell’Europa di oggi. L’Europa un mondo dove impazza la diseguaglianza.

Dal punto di vista strutturale, la diagnosi è chiara: i dumping strutturali determinati dalla globalizzazione, affrontati con le armi spuntate delle politiche di austerità europea nel quadro della crisi finanziaria-economica, hanno messo in evidenza sia i ritardi strutturali del Sud Europa, sia gli egoismi dei Paesi forti, che l’iniquità dell’architettura europea.

Negli ultimi anni la situazione si è andata aggravando: allo stato in cui siamo, non si può pensare di andare avanti così, né si può immaginare che i Paesi più deboli escano da soli dalla spirale in cui sono intrappolati. Ad aiutarci dovrebbe sostenerci la consapevolezza che il costo di un abbandono del progetto europeo sarebbe insostenibile per tutti.

Ma non è possibile stare insieme senza una visione politica positiva, capace, cioè, di far tesoro dell’insegnamento di Aristotele per il quale l’amicizia politica, che è condizione per la fondazione di una qualunque comunità, nasce solo dal comune riconoscimento e perseguimento di un bene comune irriducibile alla mera somma degli interessi di parte.

Con la nascita dell’euro, l’ideologia liberista ci aveva illuso che la moneta unica avrebbe dato vita all’unità politica. Dopo tredici anni abbiamo visto in tutte le sue dimensioni la fallacità di questa ideologia. Se non si dà vita urgentemente ad una politica comune condivisa, sarà l’euro a far deragliare il percorso di unificazione.

Per realizzare questo progetto dobbiamo recuperare i principi di solidarietà tra Nord e Sud del Continente alla base del sogno europeo. Senza individuare il bene comune capace di rifondare un’amicizia europea — l’Europa che vogliamo essere, il percorso per arrivarci e le condizioni per poterci stare — non sarà possibile uscire dalla crisi nella quale ci ritroviamo.

Il mondo della politica e delle istituzioni europee è ancora in grado di avere parole capaci di “aprire mondi”, di dare prospettive legate al bene comune? I suoi proclami, “sembrano spesso solamente storte sillabe e secche come un ramo” diceva Montale.

La prima preoccupazione di qualunque programma di carattere politico deve essere quella di non svendere e strumentalizzare il futuro dei giovani. E’ fondamentale non contrapporre i problemi a breve termine e le visioni a lungo termine, ma comprendere che l’una e l’altra cosa vanno affrontate con metodi innovativi e proposte concrete. Il realismo deve parlare di futuro e la politica deve saper generare fiducia e dare speranza.

Per questo è necessario fare analisi serie, proposte programmatiche, progetti di ampio respiro e fondate su valori sui quali confrontarsi in vista del futuro. Queste sono le uniche parole con le quali la politica sarà capace di parlare di futuro ad una generazione che lo cerca.

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Antonio Tabarro

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