Il dolore e la sofferenza nella relazione medico-paziente

di Maria Grazia Marciani*

 
ROMA, domenica, 11 settembre 2011 (ZENIT.org).- La persona umana è un essere fragile. Isidoro di Siviglia, dottore della Chiesa del IV sec.[1] , definisce la fragilità in questi termini: «Fragile, così chiamato in quanto può essere facilmente infranto». Parlare di fragilità umana significa concentrare l’attenzione su qualcosa che può essere frantumato, danneggiato e che richiede pertanto particolare protezione e cura. Tale attributo per l’uomo non assume un significato negativo, di minus, ma qualifica la preziosità, la ricchezza, e la delicatezza della natura umana che reclama un’attenzione tutta particolare. La fragilità dell’uomo è iscritta nella sua costituzione. Una delle manifestazioni della fragilità è quella del dolore e della sofferenza e proprio su questa desidero soffermarmi per alcune riflessioni. Anche se da neurologo dovrei soffermarmi a parlare della distinzione tra il concetto di dolore e sofferenza sul piano scientifico ovvero da un punto di vista neurobiologico, psicologico e clinico, utilizzerò in questo contesto tali concetti come sinonimi.

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Il concetto di dolore è definito come “angoscia fisica o mentale” associata a qualche disturbo o malattia. La sofferenza viene vissuta dalla persona come minaccia per la propria serenità, integrità o per la realizzazione delle proprie aspettative, dando origine ad una situazione di angoscia. Il dolore, qualunque sia la sua origine – corpo, psiche, relazioni, anima – è sempre sofferenza della persona. La sofferenza può pertanto essere considerata come l’espressione di una reciproca influenza tra ciò che succede nel corpo, il danno, e l’elaborazione che la mente ne fa, il senso. L’esperienza della sofferenza cambia in maniera sostanziale il significato diverso che viene attribuito al danno. Il dolore può essere uguale come danno, ma non lo è come senso. Ogni persona, considerata nella sua interezza, attribuisce al dolore un senso che dipende da molteplici variabili (momento della vita -invecchiamento-, contesto culturale, ruolo sociale, essere credente o non credente).

Il medico, come ogni operatore sanitario, vive la propria professionalità, intesa non solo come conoscenza specifica – scienza – ma come insieme di umanità, vicinanza, empatia, confrontandosi costantemente con la fragilità della persona umana, cioè con il suo dolore e la sua sofferenza, che vengono, da ogni individuo, conosciuti con modalità esperienziale e pertanto difficili da cogliere e interpretare. Se la medicina ha sempre più mezzi a disposizione per controllare il dolore, corre il rischio di aumentarlo se non tiene in considerazione costantemente la persona umana nella sua interezza, nella sua relazionalità, cercando di comprendere ciò che il dolore vuole comunicare.

Vari sono i modelli di relazione medico-paziente[2] enfatizzati dalla riflessione etica degli ultimi decenni; cito ad esempio quello «paternalistico», chiamato anche genitoriale o sacerdotale in cui il medico decide ciò che é il bene del paziente con la minima partecipazione dello stesso; quello «informativo» chiamato anche scientifico o contrattuale in cui non vi é spazio per i valori del medico, né per ciò che il medico pensa dei valori del paziente: é l’autonomia del paziente ad esercitare un forte controllo sul potere decisionale del medico. L’alleanza terapeutica, propria del modello «personalistico», é un rapporto di libertà-responsabilità tra il paziente e il medico: quest’ultimo non si sostituisce alla responsabilità del paziente (paternalismo medico), ma non diviene neppure mero esecutore della volontà del paziente (contrattualismo); è pertanto l’incontro di una fiducia (quella del paziente) con una coscienza (quella del medico).

Proprio in questo tipo di relazione va ricercata la risposta alla sofferenza e la risposta è la com-passione cioè l’esperienza di prossimità all’altro, ma vissuta nel rispetto della sua alterità e della sua dignità. «La sofferenza, come afferma Russo[3], è una questione umana e interumana poiché chiama in causa anche colui che intende rispondere al suo appello, come esigenza posta a se stesso». Ma per vivere la compassione come “capacità di entrare” nella sofferenza è necessario vivere alcune esperienze. La prima, fondamentale, è quella che Marcel[4] descrive come «io non posso affrontare la sua sofferenza se non partendo dalla mia, ed a condizione che ciò che non era che suo divenga anche mio o, più esattamente nostro». Non si tratta solo di comprendere ma di condividere. La metafora del Guaritore ferito, come afferma Nouwen[5], esplicita chiaramente quale sia il compito del ministro (ma valido per l’operatore sanitario). Egli è chiamato a riconoscere nel proprio cuore le sofferenze dei suoi tempi e a fare di questo riconoscimento il punto di partenza del proprio servizio. Tale servizio, pertanto, non sarà percepito come autentico se non proverrà da un cuore ferito dalle stesse sofferenze di cui egli parla. Scoprire e vivere la propria sofferenza è la condizione per comprendere la sofferenza altrui e per com-patire.

L’esperienza della propria sofferenza renderà più facile al medico la comprensione delle differenti modalità di richiesta di aiuto da parte del paziente, di colui che soffre. Si tratta di messaggi che il paziente invia, il più delle volte difficili da decodificare; l’operatore più che parlare deve mettersi in ascolto e osservare con amore: talvolta è un linguaggio difficile sia sul piano medico (per le condizioni cliniche come ad esempio nei disturbi della coscienza o nei disturbi cerebrali), in altre occasioni è l’espressione diametralmente opposta a quella che il paziente vorrebbe comunicare (ad esempio un’aggressività), in altre occasioni è la ricerca di un semplice contatto fisico o di uno sguardo eloquente attraverso i quali si riesce a trasmettere nel silenzio, delle certezze che a parole forse non si riuscirebbe a trasmettere.
All’esperienza del soffrire non esiste una risposta uguale sia nei pazienti che nell’operatore. Esistono reazioni diversificate sia sul piano comportamentale che esistenziale. Riguardo al comportamento si può rilevare una “dissociazione” tra stati d’animo che oscillano tra una “sensibilità acuta” e una “tendenza alla rimozione”. Proprio il tentativo di rimozione genera nel paziente un’esperienza di solitudine e di isolamento, la perdita della comunicazione, il silenzio, il blocco del pensiero e dell’azione (in particolare negli anziani e nei pazienti oncologici nella fase terminale di vita) e nell’operatore una reazione di fuga o un atteggiamento cinico spiegabili entrambi dalla necessità di difendersi di fronte alla possibile sconfitta medica, dal senso di frustrazione e di impotenza professionale e umana.

Queste diverse modalità di percepire la sofferenza possono nella stessa persona presentarsi anche in una successione temporale. Ad esempio, la risposta della persona a una prima diagnosi di malattia, all’iniziale smarrimento, segue una reattività particolare finalizzata a fare tutto il possibile sia sul piano diagnostico che terapeutico. In una fase successiva, per svariati motivi, sia di ordine fisico che psichico, la persona inizia un processo interiore di rimozione. Questa trasformazione del vissuto della sofferenza nella persona stessa, è molto spesso un campanello di allarme: il medico e l’operatore sanitario devono essere attenti a cogliere tale cambiamento e a cercare di comprenderne le motivazioni per intervenire in modo adeguato.
 
 
*Maria Grazia Marciani è Ordinaria di Neurofisiopatologia presso la Facoltà di Medicina dell’Università, Tor Vergata.
 

[1] Isidoro di Siviglia, Etimologie o origini, Utet, Torino 2004, pg. 819.[2] E. SGRECCIA, Manuale di Bioetica, V&P, 2007, pg. 286-289.[3] M. T. RUSSO, Corpo, salute e cura. Linee di antropologia, Biomedica, Rubbettino, 2004.[4] G. MARCEL, Lettre à Elisabeth, N. Paris, 1968.[5] H.J.M NEUWEN, Il guaritore ferito. Il ministero nella società contemporanea. Queriniana Editore, 2007.

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ZENIT Staff

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