Il contemplativo e la discarica


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di Paolo Pegoraro*

ROMA, martedì, 9 novembre 2010 (ZENIT.org).- C’erano una volta i cataclismi naturali… spiegati ora come collera delle divinità, ora come forza cieca e spietata, ora come mistero di una Vita che ci supera. Negli ultimi civilissimi decenni, invece, abbiamo familiarizzato sempre più spesso con i cataclismi artificiali: maree nere, avvelenamento delle falde acquifere, alluvioni causate dallo spostamento dei letti dei fiumi, disboscamenti, incendi dolosi, inquinamento dell’atmosfera, nubi tossiche. E discariche ovunque: in terra, sul fondo del mare e nel più alto dei cieli (quanti detriti spaziali ci volteggiano sulla testa?). La corruzione dei luoghi avanza. Le chiamiamo “catastrofi ambientali”, ma l’autore è noto da tempo alle autorità: il moderno consumista tecnocratico, l’Agente della Consunzione.

Sempre più spesso la narrativa si interroga sul vincolo intimo che lega l’uomo al paesaggio, come nel bellissimo Undici decimi di Alessio Torino (Italic 2010), in Scavare una buca di Cristiano Cavina (Marcos y Marcos 2010), nei tanti reportage paesaggistici di Franco Arminio, come pure nei romanzi di Emilia Bersabea Cirillo: L’ordine dell’addio (Diabasis 2005) e soprattutto il recente Una terra spaccata (San Paolo 2010, pp. 227, € 14,50). Ed è di quest’ultimo che vogliamo parlare. La storia si ispira ai fatti che hanno interessato la località di Pero Spaccone nel 2008. Mentre a Napoli le montagne d’immondizia si elevano «come un gigantesco monumento postmoderno», la geologa Gregoriana de Felice viene inviata in Alta Irpinia per stabilire se la zona è idonea a ospitare la più grande discarica della Campania. Ma l’incontro con quei luoghi e la sua gente permette a Gregoriana un altro genere di “scavo”: quello interiore, eseguendo una stratigrafia della propria anima carotaggio dopo carotaggio, fino a estrarre una cristallina «voglia di verità».

Ai dissesti geologici corrispondo infatti i dissesti sentimentali dei due protagonisti, Gregoriana e il misterioso Filippo. Gregoriana, afflitta da un perenne senso di inadeguatezza che attribuisce alla separazione dei suoi genitori, si è rassegnata a «grattare spezzoni d’affetto» innamorandosi di uomini che hanno già una relazione. Filippo – ossessionato dal fantasma della madre e incapace di gettarsi a fondo in una relazione – ha dato addirittura forma fisica al suo precariato sentimentale: vive in una stanza d’albergo alla ricerca di un luogo che gli appartenga davvero. Ma sull’altopiano del Formicoso – il sito destinato a diventare discarica – Gregoriana e Filippo ammirano un panorama di «terra, vento, e case sparse» che riluce della bellezza propria delle cose «un attimo prima della fine, integre, così come sono». Si tratta di un vero e proprio atto di contemplazione, una tensione verso la realtà che unifica la persona: «è mettersi in contatto con le cose, l’ascolto. È toccarle con la volontà». I luoghi non sono semplici sfondi al passaggio dell’uomo. Con essi può scoccare una relazione differente: «Sentire il silenzio, respirare un panorama, digerire un paese. Incontrarsi con lo sguardo. Salutarsi senza conoscersi. Diventare alleati senza dirselo». Attraverso un silenzio ben più profondo della semplice assenza di rumori si può «sedimentare. Prendere consistenza. Diventare una permanenza». Scavare e mettere ordine. Farsi trovare dalla verità che si cerca. I paesaggi esteriori finiscono con l’azionare un cortocircuito nei luoghi interiori dei due protagonisti, stimolandoli a riprendere in mano la propria vita. Gregoriana riuscirà a rifiutare i compromessi con la propria impresa, a spezzare una relazione malata e a riconciliarsi con il proprio passato tornando a prendersi cura della madre anziana. Filippo giungerà a una decisione più radicale e dalle conseguenze tragiche.

Una terra spaccata è un romanzo che va ben oltre la denuncia contro gli stupri ambientali. Si interroga a fondo sul concetto di verità. Proprio perché i luoghi esteriori riflettono il paesaggio interiore. «La spazzatura non c’è solo in diverse strade del mondo. C’è spazzatura anche nelle nostre coscienze e nelle nostre anime», ha ricordato papa Benedetto XVI nella catechesi del 3 novembre, una settimana dopo aver manifestato «vicinanza spirituale» alla popolazione di Terzigno allarmata per l’apertura di una nuova discarica. L’immondizia che l’autrice addita trabocca ormai da ogni tombino della nostra società: “Non cercare la verità, tanto tutti mentono; non essere giusto, tanto tutti rubano; non prenderti a cuore le cose, tanto a nessuno importa di niente”. Insomma, «limitati a fare il tuo lavoro» – come raccomanda Enzo a Gregoriana – cercando di trarre il massimo vantaggio soffrendo il meno possibile. È la logica dell’accattonaggio: accontentarsi delle mezze verità, dei compromessi di comodo, di relazioni sentimentali occasionali e inconsistenti, cedendo giorno per giorno un brandello di responsabilità. Fino a perdere la libertà per intero. Perché così fan tutti. Tonnellate di questa mentalità-spazzatura ci vengono riversate addosso ogni giorno nel tentativo di soffocare ogni passione e trasformarci in «professionisti di fiducia dell’azienda». Ma limitarsi a essere un mero «esecutore di ordini», significa diventare – presto o tardi – un piccolo Adolf Eichmann tra tanti altri. Uno di quelli che nascondono dietro la schiena le mani insanguinate e si giustificano domandando: «Sono forse il custode di mio fratello?».

È a questa discarica interiore che bisogna opporsi con fermezza. Anche noi siamo terra buona per far crescere grano nutriente e non per nascondere la velenosa inutilità del pattume. Siamo plasmati con l’argilla della Creazione: la stessa dell’altipiano del Formicoso.

Un assaggio dell’opera

Chiesi a Filippo di accompagnarmi a Bisaccia. Non fece domande. Ci avviammo verso la Mercedes. Nuvole basse e veloci si posavano sulle montagne. Un vento continuo arricciava i capelli.

Volevo allontanarmi dal rumore delle sonde e dalla baracca. Soprattutto desideravo vedere gli scialli della figlia di Esterina Miele.

Filippo guidava e parlava. Della discarica, dello scavo, delle sonde che andavano troppo veloci e trituravano la terra. Io guardavo il paesaggio e non volevo sentire.

Bisaccia era un paese spaccato in due. Un pezzo nuovo e uno antico, divisi da una strada a scorrimento veloce. Quello nuovo sembrava più vecchio di quello antico, nonostante una frana gli scollasse l’argilla da sotto. Sfiorammo case umide, di un cemento armato d’accatto, grigie e sottili, come trecce di una vecchia.

– Il paese scuro di fronte sembra il manto di un mulo, ma almeno respira e vive, per quello che può. Corrado Comune mi ha detto che tutte le mattine i bisaccesi della parte nuova vanno nel paese vecchio e restano fino al tramonto.

Bisaccia aveva la grazia e il colore di coperte preziose, ingiallite dal tempo e lasciate all’aria. Le murature delle case abbandonate erano lacerate da lesioni bizzarre. E il vuoto, l’assenza di voci, diventava a starci dentro, pesante.

Una strada nel paese non aveva più case, solo una quinta ricostruita con le finestre e i portoni che facevano intravedere terra rotante, marrone, bruciata.

– Una beffa scenica – dissi.

– Si fa per la memoria. Lo hanno fatto anche in Sicilia – rispose.

– Memoria di chi?

– Anche di gente come noi, che passa da qui.

La signora del bar disse che Esterina Miele abitava in una strada ampia, regolare, aperta dopo il terremoto del ‘30, la sua casa era bassa, di mattoni e pietra. Le costruzioni avevano la stessa misura e si ripetevano simili per tutta la lunghezza della strada, come una greca su un quaderno di scuola.

Trovammo Esterina sulla soglia, seduta, le spalle alla strada, il capo scoperto, malgrado il tempo nuvoloso. Ricamava, bianco su bianco. Filippo suonò il clacso
n.

– Ti aspettavo. Me lo sentivo che saresti venuta! – esclamò, alzandosi per salutare.

Le strinsi la mano. Ritrovai quel tocco ruvido. Filippo accennò a un inchino.

– Che dici? La fanno la discarica?

– Contro il mio parere, la faranno.

Lei imprecò in dialetto.

– E Corrado lo sa?

– Dovrebbe consegnargli questa busta. Da parte mia.

– E che dice questa busta?

– Che il terreno, secondo me, non è buono.

– Corrado li saprà mettere a posto!

– Posso avere un bicchiere d’acqua?

– Vieni, vieni.

– Posso vedere gli scialli?

– Entrate, Maria Teresa sta dentro.

Non mi aspettavo tanta familiarità.

La casa odorava di mele. Una zuppiera sul tavolo quadrato ne era piena. Ma c’era anche un altro odore che percepivo a tratti, come di cannella e noce moscata. La legna nel camino era pronta per la sera. Su una poltrona a dondolo era acciambellata una gatta grigia. Si sentiva il rumore secco, ritmico, di una porta sbattuta provenire dal fondo.

– E la gatta? – chiese Filippo.

– Si chiama Fifina. Attenta che ti può tirare la giacca.

Mi piaceva quella voce dall’inflessione levantina. La seguii come seguivo da bambina Giuseppina in cantina. Filippo aveva preso la gatta in braccio e la carezzava sotto il collo.

La stanza era occupata da un telaio largo e alto, di legno chiaro, al quale lavorava una ragazza minuta. La madre si accostò. Lei sollevò lo sguardo.

Maria Teresa assomigliava alla madre. Stesso naso adunco su un volto quadrato. I capelli, tinti di rosso vinaccia, le arrivavano sotto le orecchie. Gli occhi erano due pezzi di vetro azzurro.

Fermò il telaio. In casa fu quiete.

– Terè, questa è la signora del cantiere! – disse Esterina.

– Mi chiamo Gregoriana – dissi, facendo un cenno col capo.

– Sei venuta per gli scialli?

Non lo so se ero in quella casa per gli scialli. O per curiosità. Non risposi.

– Hai visto che aria, figlia mia? – disse Esterina. – E ce la vogliono levare. Tutto per la discarica, che devono sprofondare nell’inferno più nero.

Spalancò la finestra. Poi andò a prendermi 1’acqua. Si muoveva a piccoli passi. La figlia ascoltò senza intervenire. Richiuse la finestra. Aprì 1’armadio, a due ante, di legno. Tirò fuori scialli di vari colori, di lino, di lana intrecciati a fili doppi, azzurro bianco celeste rosa beige rosso marrone verde turchese, morbidi e leggeri, al pari di nuvole colorate.

– Scegli – disse Maria Teresa. La gatta scappò via da Filippo e le corse in braccio. Avevano gli stessi occhi scintillanti.

———–

*Paolo Pegoraro (Vicenza, 1977) si è laureato in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana e in Letterature comparate presso l’Università “La Sapienza” di Roma. Collabora da anni alle pagine culturali di numerose riviste, tra cui L’Osservatore Romano, La Civiltà Cattolica e Famiglia Cristiana.

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ZENIT Staff

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