Il Concilio di Trento e l'istituzione dei seminari (Prima Parte)

Il 15 luglio 1563, i vescovi riuniti a Trento approvarono all’unanimità il decreto “Cum adolescentium aetas” che raccomandava l’erezione del seminario in ogni diocesi

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«…sopra tutto fu comprovata l’istituzione dei Seminari; arrivando molti a dire, che ove altro bene non si fosse tratto dal presente Concilio, questo solo ricompensava tutte le fatiche e tutti i disturbi…» (card. Pietro Sforza Pallavicino, 1607-1667, Istoria del Concilio di Trento, XXI, 8, 3).

Il 4 dicembre 2013 ricorreranno i 450 anni dalla chiusura del Concilio di Trento (1545-1563). Nella cornice di questa importante ricorrenza, un’altra data merita d’essere inclusa con merito ed un particolare ricordo: quella del 15 luglio 1563, giorno in cui i vescovi riuniti a Trento approvarono all’unanimità il decreto Cum adolescentium aetas che raccomandava l’erezione del seminario in ogni diocesi. Un provvedimento di rilevanza epocale, che dotava la Chiesa di uno strumento per la cura delle vocazioni al sacerdozio ordinato, ancora oggi fondamentale e imprescindibile. Sembra utile pertanto rinverdire gli eventi ed i personaggi che determinarono la nascita dei seminari, nella certezza che la riflessione sul nostro passato possa offrire importanti stimoli al nostro presente ecclesiale. 

Senza esagerare, si può tranquillamente affermare che il Concilio di Trento abbia rappresentato uno degli snodi più significativi della storia della Chiesa moderna. Questo perché, raccogliendo e canalizzando gli impulsi positivi provenienti da vari ambienti del mondo cattolico, dette concretezza e sistematicità – pur tra numerose difficoltà e inconvenienti vari – a un anelito alla riforma della Chiesa largamente condiviso e, peraltro, sollecitato anche dall’enfasi riformata sul rinnovamento generale, attivando la successiva e graduale formazione di un modello ecclesiale destinato a durare nei secoli.

Ma a nessun soggetto ecclesiale più che al clero si rivolse la premura riformatrice dei padri tridentini. Tale peculiare attenzione rispondeva ad una convinzione – che era anche un’attesa – particolarmente diffusa: la svolta spirituale e morale per la Chiesa intera sarebbe stata realmente possibile a patto che un cambiamento radicale investisse innanzitutto i pastori, cioè i vescovi e sacerdoti. Le emergenze su questo fronte erano numerose, relative alla residenza, all’assegnazione dei benefici ecclesiastici, alla cultura, al celibato e, più in generale, alla moralità e alla spiritualità dei chierici e, per quanto riguarda i vescovi, all’obbligo della cura pastorale e spirituale (anche catechetico e omiletico) del gregge ad essi affidato.

A Trento ci si sforzò di affrontarle mediante decreti dottrinali – che precisavano, segnatamente sia in risposta alle affermazioni di Lutero e degli altri “riformatori”, sia nel rilancio delle tante istanze di riforma presenti nell’episcopato europeo, la sostanza teologica di alcuni elementi cardine della fede cattolica – e di riforma – per fornire soluzioni il più possibile concrete alle varie urgenze della vita ecclesiale, attraverso esortazioni e prescrizioni canoniche.

Come ha osservato il grande storico del Concilio di Trento circa la rivoluzione protestante, Hubert Jedin, «la crisi dello scisma è stata in ultima analisi la crisi della formazione sacerdotale» [1]. Di questo dato i padri conciliari dovevano avere contezza. La consapevolezza che la riforma, a questo livello, sarebbe dovuta essere insieme spirituale e strutturale si fece tuttavia strada lentamente nella loro mente e nel loro cuore.

Si può dire che il tema abbia tagliato trasversalmente il Concilio. La questione era subito emersa, nella IV sessione, allorché i padri tridentini avevano discusso dell’obbligo per i parroci di predicare almeno nelle domeniche e nei giorni di festa, stante la pressoché totale disattenzione per la predicazione (spesso delegata agli Ordini religiosi) e per la catechesi (con casi di analfabetismo religioso). Ci si chiedeva, infatti, quale effetto benefico fosse lecito attendersi da una tale ingiunzione, se poi i parroci non si fossero dimostrati all’altezza del compito a causa di carenze formative. Diversi vescovi, comunque, erano del parere che il problema si sarebbe potuto risolvere senza l’introduzione di nuove leggi, ma con la fedele applicazione di quelle già esistenti.

La Chiesa aveva avvertito anche prima di Trento lo scrupolo di provvedere alla formazione presbiterale, elaborando, di volta in volta, soluzioni idonee a far fronte ai bisogni dei tempi [2]. Non a caso, diversi Pontefici avevano indetto concili in materia. Accanto alle indicazioni magisteriali – concernenti specialmente la necessità d’impartire ai candidati al presbiterato le basi culturali e cultuali – si erano sviluppate anche forme strutturate di formazione dei chierici, più o meno organiche e stabili, a seconda dei tempi e dei luoghi. Erano così nate le varie scuole connesse ai monasteri, alle parrocchie e alle cattedrali. Successivamente, con il sorgere delle Università, si sarebbero costituiti i collegi teologici., giuridici e delle arti, «un’altra tappa verso l’istituzione dei seminari: ad essi infatti avrebbero fatto riferimento molti padri conciliari, nel corso delle discussioni che prepararono il decreto sui seminari» [3].

In tal modo i padri tridentini poterono avvalersi del confronto con alcuni modelli istituzionali già esistenti, dei quali ricalcare la fisionomia per il nuovo istituto che stava per nascere. Un primo, importante precedente rimontava all’incirca ad un secolo prima: il Collegio Capranica, inaugurato a Roma tra il 1475 e il 1476 dal cardinale Angelo Capranica, fratello del fondatore, il cardinale Domenico. L’istituto accoglieva i giovani poveri, di età compresa tra i 15 e i 35 anni, che intendevano accedere alla vita ecclesiastica, provvedendo alla loro istruzione nel diritto canonico e nella teologia e alla loro formazione spirituale e disciplinare, sotto la guida di un rettore – scelto tra gli alunni, dagli alunni stessi – coadiuvato da quattro consiglieri.

Più immediate e significative fonti d’ispirazione per i vescovi impegnati nel concilio furono i due collegi fondati a Roma da Sant’Ignazio di Loyola, rispettivamente nel 1551 e 1552: il Collegio Romano, che si presentava come «Scuola di Grammatica, di Humanità e di Doctrina Christiana» e impartiva gratuitamente ai suoi alunni la formazione culturale e spirituale, conservando sostanzialmente l’impianto tipologico dei collegi universitari; il Collegio Germanico, che nasceva invece con la specifica finalità di formare il clero tedesco (maggiormente colpito dalla ventata protestante) secondo la più rigida ortodossia cattolica e contemplava nei suoi regolamenti l’introduzione della figura decisiva del padre spirituale che avrebbe coadiuvato il rettore e i confessori nell’opera formativa.

Se queste istituzioni costituirono per i padri tridentini un’importante e concreta pietra di paragone, le più interessanti indicazioni dal punto di vista teorico giunsero però dal sinodo nazionale pro reformatione Angliae, convocato nel 1555 a Londra dal cardinale Reginald Pole. Tra i decreti di questa assise non solo compariva il termine “seminario” nell’accezione che Trento avrebbe conservato, ma veniva imposto ad ogni diocesi di costituirlo.

[La seconda parte verrà pubblicata domani 15 luglio 2013]

*

NOTE

[1] H. Jedin, «L’importanza del decreto tridentino sui seminari nella vita della Chiesa», inSeminarium, XV (1963) 3, 401.

[2] Per uno sguardo sulla formazione sacerdotale fino al Concilio di Trento, cf M. Guasco, La formazione del clero, Jaca Book, Milano 2002, 11-28.

[3] M. Guasco, «La formazione del clero: i seminari», in G. Chittolini – G. Miccoli (edd.), La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea (= 
Storia d’Italia. Annali, IX), Einaudi, Torino 1986, 637.

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Vincenzo Bertolone

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