Il cattolicesimo in Unione Sovietica e il martirio nel sacerdozio

La rinascita dei valori cristiani nei Paesi ex sovietici, dopo settantanni di ateismo di Stato, può essere letta anche come un frutto dell’eroismo dei martiri durante le persecuzioni

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Nel corso di una recente intervista rilasciata ad un portale di lingua spagnola, il sacerdote russo cattolico Aleksej Jandušev-Rumjancev ha raccontato della propria conversione religiosa, avvenuta nell’Unione Sovietica degli anni Ottanta, e che poi è maturata in una vocazione alla vita consacrata. Per una curiosa eterogenesi dei fini, l’avvicinamento al cristianesimo avvenne attraverso la rivista sovietica Nauka i Religija, uno degli organi dell’ateismo di Stato specializzati nella denigrazione della fede e del fervore religioso (1). L’esperienza personale di padre Jandušev-Rumjancev e, più generale, quella del cristianesimo nell’URSS, confermano una costante storica trasversale che concerne tutti i tentativi rivoluzionari di sradicare la religione. Nell’Europa occidentale secolarizzata, una realtà che ha conservato un inaspettato attaccamento alla fede è ad esempio la Francia, cioè proprio il Paese in cui negli ultimi due secoli ha avuto luogo il più sistematico e aggressivo processo politico-ideologico di scristianizzazione.

In URSS, soprattutto tra anni Trenta e Sessanta, la politica dell’ateismo di Stato si concretizzò in un’autentica persecuzione fisica, che toccò la maggioranza di cristiani ortodossi ma ovviamente non risparmiò la popolazione greco-cattolica (di rito bizantino ma in comunione con il Papa), stanziata soprattutto nella Repubblica Socialista Sovietica Ucraina. Nel giugno 2001 Giovanni Paolo II beatificò 26 martiri ucraini fra vescovi, sacerdoti e suore (2). Presenti soprattutto nella regione della Galizia, in quell’Ucraina occidentale che ha il suo epicentro nella città di L’viv (Leopoli), i cattolici di rito greco-bizantino hanno storicamente accompagnato la professione di fede con un accentuato patriottismo, a causa del quale lo stesso martirio religioso è stato spesso recepito anche come una forma di resistenza nazionale (3). Di per sé, la commistione fra appartenenza confessionale e identità etnica, tipica di tutto l’Oriente cristiano, è un aspetto indubbiamente problematico nella misura in cui si presta a strumentalizzazioni politiche. Nondimeno, la storia dei martiri cattolici in URSS, provenienti soprattutto dall’Ucraina, merita senza dubbio di essere conosciuta nella molteplicità dei suoi casi concreti (4).

Tra i sacerdoti ucraini beatificati da Giovanni Paolo II, una delle figure molto ricordate ancor oggi è Oleksa Zaryckyj (1912-1963), martirizzato ex aerumnis carceris («per le torture del carcere»). Nato nel villaggio di Bil’če, nella provincia di Leopoli, padre Zaryckyj condusse un’intensa attività missionaria presso i fedeli sia di rito bizantino che di rito latino, che egli conosceva con la stessa accuratezza. Arrestato nel 1948, trascorse dieci anni in un lager del Kazakhstan; dopo la liberazione continuò la sua opera pastorale nella città di Karaganda, dove in pochi anni fu però nuovamente incarcerato e trovò poi la morte nel campo di Dolinka. Affettuosamente soprannominato dai fedeli “il vagabondo di Dio”, padre Zaryckyj basava la sua attività di evangelizzazione, in modo particolare, sulla centralità del sacramento eucaristico.

Nei suoi recenti studi sull’Eucarestia, l’attuale Vescovo Ausiliare di Astana in Kazakhstan Mons. Athanasius Schneider ha più volte ricordato la figura di padre Zaryckyj, alla cui memoria è particolarmente legato essendo stato il sacerdote ucraino molto vicino alla sua famiglia. Come afferma Schneider, in URSS tutti i simboli religiosi venivano oltraggiati e rimossi ma vi era una realtà che forse più di altre ricordava agli uomini la centralità della questione di Dio: la figura del sacerdote. “La vera ragione era questa: soltanto il sacerdote poteva dare Dio agli uomini, dare Cristo in maniera più concreta e diretta possibile, cioè attraverso l’Eucaristia e la Sacra Comunione. Perciò era proibita la santa Messa” (5). Queste considerazioni spiegano molto bene come il cristianesimo abbia potuto esistere e resistere nell’epoca delle persecuzioni sovietiche: attraverso l’integralità della sua dottrina, garantita dai segni visibili dei sacramenti e dall’elevazione spirituale della liturgia. La religione si è cioè fortificata ed è sopravvissuta primariamente grazie alla capacità di essere un ponte verso la trascendenza, presupposto ineludibile per la stessa vita del cristiano nel mondo.

Poco più di un anno fa, nel corso della prima omelia del suo pontificato, Papa Francesco aveva invitato a vivere “con quella irreprensibilità che Dio richiedeva ad Abramo nella sua promessa”, incentrando il suo discorso sull’idea che, senza professare Gesù Cristo, la Chiesa diventerebbe “una ONG pietosa” (6). Con questa immagine il Romano Pontefice richiamava l’attenzione sul senso autentico della fede, di cui in Unione Sovietica diedero prova esemplare proprio i sacerdoti martirizzati: se la Chiesa cattolica vive ininterrottamente da duemila anni, ciò si deve al fatto che dalla sua fondazione essa apre agli uomini una dimensione metafisica e sovrannaturale, non perché si occupa di assistenza e beneficenza come una qualsiasi associazione filantropica.

I doveri di carità verso il prossimo, che il Magistero pontificio compendia nella formula “opere di misericordia corporale”, hanno perciò un senso solo in quanto sono preceduti dall’accettazione, insieme razionale e intuitiva, del depositum fidei contenuto nella Rivelazione ed esplicitato dalla Tradizione della Chiesa. Come nel Decalogo, che parte da Dio per arrivare all’uomo, anche la dottrina evangelica che ne è sintesi e compimento ha il suo principio in una prospettiva teocentrica. Anche per questo i sacerdoti come il Beato Oleksa Zaryckyj sono un esempio perenne per il clero e i laici: non solo per il coraggio del martirio in quanto tale, ma anche per aver testimoniato l’essenza della fede cattolica attraverso la dedizione al sacro, contro le tentazioni mondane di un umanesimo areligioso che elude le grandi questioni sul senso ultimo dell’esistenza.

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Dario Citati è Direttore del Programma di ricerca «Eurasia» dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG)  [www.istituto-geopolitica.eu] e redattore della rivista Geopolitica [www.geopolitica-rivista.org].

NOTE:

1)      Conoció a Jesucristo gracias a las revistas de la Asociación Atea de l’URSS…y hoy es cura, http://www.religionenlibertad.com/articulo.asp?idarticulo=35341.

2)      Béatifications pendant la Visite Pastorale de Sa Sainteté le Pape Jean Paul II en Ukraine (23-27 juin 2001), http://www.vatican.va/news_services/liturgy/saints/20010626_beatif_ucraina_fr.html

3)    A. Savickij, R. Scalfi, Martiri della Chiesa greco-cattolica ucraina, http://culturacattolica.it/default.asp?id=206&id_n=5699

4)    P. Vyshkovskyy, Il martirio della Chiesa Cattolica in Ucraina, Roma 2007.

5)    A. Schneider, Dominus Est. Riflessioni di un vescovo dell’Asia centrale sulla sacra Comunione, Roma 2008, p. 12. Sul tema si veda anche A. Schneider, Corpus Christi. La Santa Comunione e il rinnovamento della Chiesa, Roma 2013.

6)    Papa: camminare in Cristo, edificare la Chiesa, confessare Gesù con la sua croce, http://www.asianews.it/notizie-it/Papa:-camminare-in-Cristo,-edificare-la-Chiesa,-confessare-Ges%C3%B9-con-la-sua-croce-27399.html.

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Dario Citati

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