Il caso Eluana Englaro, un caso di eutanasia

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di padre Fernando Pascual, L.C.*

ROMA, venerdì, 14 novembre 2008 (ZENIT.org).- Una delle tattiche per promuovere l’eutanasia consiste nel creare “casi” di cui tutti parlano.

Nel luglio 2008 la stampa ha rilanciato a livello mondiale il caso di Eluana Englaro, una donna di 37 anni in coma dal 1992.

I giudici hanno stabilito all’epoca che i tutori di Eluana potessero interrompere l’idratazione e l’alimentazione della donna provocando in questo modo la morte per fame e sete. La sentenza è stata confermata in modo “definitivo” il 13 novembre.

Il caso serve per alimentare il dibattito sull’eutanasia. Si succedono, come in altri casi, le opinioni, gli editoriali, le inchieste. Tutto serve per suscitare emozioni e, a volte, per nascondere la realtà sulla cosiddetta “dolce morte”.

Dato che il dibattito è ormai avviato, cerchiamo di dare risposta ad alcune domande che non possiamo mettere da parte. Ne analizzeremo tre.

La prima: “è lecito provocare la morte di un malato?”. La risposta è semplicemente una: no, perché provocare la morte, compiere atti destinati a uccidere è sempre un crimine. Anche se un giorno esistessero leggi che permettessero l’eutanasia, anche se la società, ben diretta da alcuni ideologi, arrivasse a pensare che fosse lecito. Il crimine è sempre crimine, e l’omicidio trasformato in qualcosa di “legale” è uno dei maggiori disordini nella vita dei popoli.

La seconda: “come affrontare le richieste di una famiglia o del malato stesso per ottenere una ‘morte degna’?”. Nel miglior modo possibile, vale a dire con cure palliative e un affetto sincero e costante. Così, semplicemente, perché il trattamento palliativo si può realizzare anche in casa, e perché porterebbe non solo a “risparmiare” (non sarà il denaro la vera causa di tanti sforzi a favore dell’eutanasia?), ma a curare il malato in modo più umano. E perché dove il malato si sente amato e viene curato adeguatamente le richieste di eutanasia sono praticamente nulle.

Arriviamo alla terza domanda: “come muore una persona se si smette di idratarla e alimentarla?”. Lo spiega un medico in un’intervista in cui tratta il caso di Eluana Englaro (ZENIT, 10 luglio 2008):

“fino ad ora Eluana non ha sofferto, almeno così ci dicono le conoscenze scientifiche disponibili, ma se verrà interrotta l’alimentazione e l’idratazione prepariamoci ad un nuovo caso Terry Schiavo”.

“Le ulcere che si formeranno nella pelle, le labbra riarse, le emorragie, le convulsioni, la necessità di morfina, così come è avvenuto per Terry, tutto questo, sarà per il bene di Eluana?”.

Casi come quelli di Eluana Englaro, Piergiorgio Welby, Terri (o Terry) Schiavo, Ramón Sampedro, Nancy Cruzan… dovrebbero essere trattati con il rispetto che merita qualsiasi vita umana nei suoi ultimi momenti.

Nello stesso tempo, dovrebbero rimanere in piedi i criteri fondamentali della medicina e della giustizia.

La medicina saprà aiutare e alleviare il malato in tutto ciò che è proporzionato e utile per la sua situazione e saprà rinunciare all’“eccessivo” quando questo porterà soltanto a prolungare l’agonia e ad aumentare il dolore, mentre offrirà sempre il minimo necessario (trattamento del dolore, alimentazione, idratazione, pulizia). Non è un atto medico uccidere un malato in coma per fame e sete, ma un omicidio lento, anche se protetto dalle sentenze dei giudici.

La giustizia, da parte sua, veglierà perché non ci siano mai esseri umani che possano decretare la morte dei malati e promuoverà sistemi sanitari in cui le cure palliative non siano un lusso di alcuni privilegiati, ma lo sforzo sincero della società per curare e assistere nel miglior modo possibile quanti si trovano nell’ultima fase della loro esistenza terrena.

[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]

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*Docente di Filosofia e Bioetica presso l’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” di Roma

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ZENIT Staff

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