Il cardinale elogia "il comunista"?

Il cardinale Ravasi firma la prefazione del libro di Fausto Bertinotti “Sempre daccapo”, in cui l’ex Presidente della Camera racconta della sua ‘conversione’

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“Ho terminato la corsa, ho conservato la fede”. Pone la celebre frase di San Paolo, il cardinale Gianfranco Ravasi a suggello della sua prefazione al libro “Sempre daccapo” (ed. Marcianum Press), che non è altro che una lunga conversazione con l’ex politico italiano Fausto Bertinotti.

Se una prefazione serve per sollecitare alla consultazione del testo, Ravasi ha svolto molto bene il suo compito, dato che i lettori si domanderanno, a questo punto, quale mai possa essere la fede di Bertinotti.

E’ escluso che sia la fede nella Trascendenza, dato che l’ex Presidente della Camera è un agnostico dichiarato; né si tratta della fede in una ideologia, perché Bertinotti, pur essendo per formazione un marxista, non è mai stato tale in senso dogmatico: egli non è certamente da annoverare tra quanti hanno fatto del pensiero del filosofo di Treviri una sorta di religione.

Ed allora possiamo iniziare il nostro discorso da un presupposto: Bertinotti ha fede nell’uomo, e questo lo avvicina oggettivamente, come dimostra quanto afferma nel libro, tanto alla antropologia quanto alla teologia cristiana.

Il cristianesimo è l’unica religione che crede in un Dio fatto uomo, ma è precisamente il mistero dell’incarnazione a farci sentire la vicinanza di Dio alla nostra condizione.

L’uomo, però, vive una vicenda che supera la breve durata della sua vita fisica, terminata la quale lo attende l’incontro con Dio nella Trascendenza. Lo attende cioè il disvelamento delle Verità ultime.

Prima di questo incontro, si ha però il tempo per considerare ancora una volta quelle che Ravasi definisce le “questioni “penultime”, storiche la cui decifrazione è più agevole anche se non mai esaustiva e univoca”; e lo si fa mentre si traccia un bilancio della propria vita.

Quella di Bertinotti, quale viene riassunta in questo testamento spirituale – la definizione è proprio del Cardinale Ravasi – si riassume in quattro momenti: prima la “libagione sacrificale che esala verso il cielo e Dio”; quindi la “analysis”, che è “lo scioglimento delle vele della nave che salpa verso il mare aperto”, poi ancora il combattimento, ed infine la corsa, cui si riferisce la famosa immagine di San Paolo.

La corsa presuppone però l’esistenza di una meta. Poco importa, a questo punto, se la meta sarà raggiunta dal singolo individuo, o se egli passerà il testimone ad altri: ai traguardi della storia si perviene infatti attraverso lo sforzo di successive generazioni.

E’ singolare, a questo punto, il diverso bilancio della vita di Bertinotti che viene dichiarato da lui stesso e da Ravasi. Mentre il politico si domanda se ha fallito e perché ha fallito, il Sacerdote sembra confortarlo dicendogli che invece non ha fallito.

Certamente questa più benevola valutazione può essere intesa come l’assoluzione che giunge a conclusione della Confessione generale: se chi si confessa ha vissuto bene, il Premio lo attende comunque.

L’assoluzione impartita da Ravasi riguarda però anche la parte della vicenda di Bertinotti che appartiene alla storia, e cioè all’immanenza.

Che cosa si salva dell’eredità del politico, che cosa gli permette – in fondo – di scrivere un suo testamento, tale essendo l’atto con cui si dispongono dei lasciti? Chi non lascia nulla, può fare a meno di redigere il suo testamento. La risposta arriva quasi subito, in quanto Bertinotti confida a don Donadoni nella sua Confessione generale.

Prima di citare testualmente le parole del Presidente, vale la pena di ricordare che la loro ermeneutica sta nell’epitaffio scritto sulla tomba di Marx ad Highgate: “Fino adesso i filosofi hanno cercato di capire il mondo, ora noi cerchiamo di cambiarlo”.

E’ chiaro però che non si può cambiare il mondo se prima non lo si è capito. Ed allora il fallimento dei tentativi rivoluzionari rivela in primo luogo il fallimento delle ideologie con cui il mondo e la storia venivano analizzate. Tutto vero, ed è inutile ripetersi ancora una volta che cosa ha significato la caduta del Muro.

Quell’evento, però, mentre rivelava un errore, ne originava un altro, di cui oggi si comincia a prendere coscienza. Ed è questo l’errore che Bertinotti, Ravasi e Donadoni denunziano, tutti e tre d’accordo e con piena ragione.

E’ il Presidente ad esporlo: c’è chi dice “che con la morte delle ideologie è morta la ricerca della verità, è morta la capacità di leggere e decifrare la realtà”.

Se però questa realtà è fatta di diseguaglianza, di ingiustizia, di impoverimento materiale e spirituale, di decadenza morale, il rifiuto di analizzarla comporta a maggior ragione la rinunzia non soltanto a rivoluzionarla, ma anche a correggerla.

Ci domandiamo perché la fine dei progetti rivoluzionari ha travolto con sé anche la fine dei progetti riformisti? Eppure – a rigor di logica – avrebbe dovuto succedere il contrario.

Predomina invece l’accettazione della realtà “telle quelle” che parte dal presupposto del suo carattere immodificabile. Ed allora tutti gli uomini di buona volontà, tutti gli uomini che pensano – quelli che credono come quelli che non credono – ricominciano a studiare insieme la realtà, per cambiarla o per correggerla.

Potranno, in questo lavoro, consentire o dissentire, ma già si sentono accomunati dal dovere di compierlo. La caduta delle ideologie è d’altronde intervenuta a facilitarlo: se siamo sulla stessa barca, dobbiamo remare insieme, e per nostra fortuna non ci sono più – quanto meno – le contrapposizioni nominalistiche che prima ci dividevano tra fautori dell’uno o dell’altro regime, dell’uno o dell’altro partito.

A questo sforzo comune, il lavoro di Bertinotti, Ravasi e Donadoni offre un contributo importante, forse più per il metodo che per il merito. Si tratta comunque di un esempio da seguire.

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Alfonso Maria Bruno

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