Il Cardinale Bagnasco non "ha aperto" al testamento biologico

Intervista al prof. Alberto Gambino, Ordinario di Diritto privato

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ROMA, mercoledì, 24 settembre 2008 (ZENIT.org).- La prolusione del Cardinale Angelo Bagnasco al Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana (Cei) è stata letta da qualcuno come un’apertura all’ammissibilità di una legge sul testamento biologico.

Abbiamo chiesto al prof. Alberto Gambino, Ordinario di Diritto privato all’Università Europea di Roma, di commentare la percorribilità giuridica delle riflessioni del Presidente della Cei su questo punto.

Quali sono, secondo lei, in chiave giuridica, i richiami più rilevanti della prolusione a proposito di una legge sul fine vita?

Prof. Alberto Gambino: Riscontro su questo tema quattro indicazioni principali. Prima: riconoscimento legale a “dichiarazioni inequivocabili, rese in forma certa ed esplicita”. Seconda: garanzie di presa in carico del malato e di rapporto fiduciario con il medico. Terza: inefficacia di dichiarazioni che si riferiscano a trattamenti di sostegno vitale (come alimentazione e idratazione). Quarta: finalità di evitare, da un lato, inutili forme di accanimento terapeutico e, dall’altro, forme di eutanasia mascherata e di abbandono terapeutico.

La prima indicazione, sull’ammissibilità di “dichiarazioni inequivocabili” è stata da taluni interpretata come apertura al testamento biologico?

Prof. Alberto Gambino: E’ un’interpretazione forzata. Come è noto il testamento biologico è un documento nel quale una persona in piena capacità esprime il suo assenso o dissenso circa trattamenti che potrebbe subire nell’eventualità del verificarsi di un evento traumatico con perdita di coscienza. Tale strumento è del tutto in contraddizione con tutte e quattro le indicazioni prima riportate. Si tratta infatti di dichiarazioni strutturalmente “equivocabili” in quanto riferibili ad un evento non ancora avvenuto, e dunque senza alcuna certezza che le stesse dichiarazioni si riproporrebbero identiche nell’attualità del verificarsi del trauma e delle relative informazioni sulle terapie da attivare, che, peraltro, mutano nel tempo.

Inoltre il testamento biologico può, tecnicamente, contenere indicazioni relative a forme di abbandono terapeutico. Come ho avuto modo di sottolineare, utilizzare l’espressione “testamento” equivale a dire che – come avviene per il patrimonio nell’eredità – si può liberamente disporre del bene oggetto della dichiarazione. Ciò va nella direzione opposta al principio che della vita umana, secondo il diritto, non se ne può disporre come se fosse una cosa. E va decisamente contro il contenuto delle riflessioni del cardinale Bagnasco su questo punto.

Questi richiami possono leggersi piuttosto come un’apertura alle cosiddette Dichiarazioni Anticipate di Trattamento?

Prof. Alberto Gambino: Attenzione, non trovo nella prolusione alcun riferimento all’espressione “anticipate”. Il Presidente della Cei parla di “dichiarazioni inequivocabili, rese in forma certa ed esplicita”, non invece di “dichiarazioni anticipate”. Qui si annida l’errore in cui molti commentatori sono incorsi. Il problema giuridico dell’ammissibilità o meno di tali dichiarazioni è tutto qui: quanto possono essere retrodatate rispetto al trattamento? E’ pacifico che il paziente, una volta informato sull’intervento, sui rischi e le conseguenze, possa rifiutarlo (si tratta di una libertà costituzionale, che non implica che la decisione sia anche moralmente accettabile). Con l’eccezione della decisione minoritaria e solitaria del caso Englaro, l’orientamento della giurisprudenza di legittimità è chiaro: il dissenso ad un trattamento sanitario (e non di sostegno vitale) è ammissibile nella misura in cui il paziente sia in grado di effettuare un “giudizio” informato in ordine alla propria situazione sanitaria. Non lo è invece in assenza della doverosa, completa, analitica informazione sul trattamento stesso. Dunque, ove il paziente, in stato di incoscienza, non sia in condizioni di manifestarlo pienamente, un dissenso ‘ex ante’, espresso ancor prima del verificarsi della patologia, è inefficace, in quanto privo di qualsiasi informazione medico terapeutica che non può che ricollegarsi alla vicenda concreta.

Può fare degli esempi, per chiarire meglio?

Prof. Alberto Gambino: Significa che mentre nelle patologie a lenta evoluzione, una dichiarazione di trattamento potrebbe essere ammissibile nell’attualità delle prime fasi della malattia, risulta, invece, giuridicamente inaccettabile che, nella diversa situazione di un evento traumatico imprevedibile, la dichiarazione sia retrodatata ad un momento antecedente al verificarsi del trauma improvviso. Se così fosse, posta l’impossibilità di affermare che quella valutazione sia ancora attuale davanti al concreto accadimento e alle relative specifiche indicazioni terapeutiche, si finirebbe per ribaltare il principio secondo il quale nelle situazioni di incertezza non può che prevalere la scelta collegata al diritto di rango costituzionale più importante, che è il diritto alla vita.

Le “dichiarazioni” possono comunque essere utili per “interpretare” casi di accanimento terapeutico?

Prof. Alberto Gambino: E’ il medico a sapere in scienza e coscienza se ci si trova davanti a situazioni di accanimento terapeutico, ma le dichiarazioni del paziente possono rafforzare il dialogo e chiarire un diverso grado di sopportabilità di una terapia.

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ZENIT Staff

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