Mai dire mai, di Andrea Salvadore

Mai dire mai, di Andrea Salvadore

Il carcere, laddove "l'uomo caduto torna a rialzarsi"

In prossimità del Giubileo dei Carcerati don Marco Pozza, cappellano in carcere, parla del docufilm “Mai dire mai” che andrà in onda in due puntate su Tv2000

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Volge al termine l’Anno Santo voluto da Papa Francesco e dedicato alla Misericordia. Concetto, quest’ultimo, di cui se n’è fatto un gran parlare. “La misericordia è diventata il ‘trend-topic’ assoluto di un’infinità di discussioni, ecclesiali e non, correndo il forte rischio di mandarla in soffitta fra qualche giorno”.
Con linguaggio moderno e schietto, don Marco Pozza, giovane cappellano del carcere “Due Palazzi” di Padova, ravvede che l’abuso di questa parola possa depotenziarla del suo senso concreto.
Ecco allora che si rende necessario mettere in pratica il messaggio giubilare compiendo azioni e non speculando filosoficamente. Azioni come quelle che ogni giorno svolgono tanti volontari nelle case circondariali. Essi hanno la possibilità di confrontarsi con il mondo carcerario sviscerando nel profondo l’umanità ferita che lo popola.
Ogni detenuto ha una storia, un volto, un percorso. Che come immagini vengono alla luce nel docufilm di Andrea Salvadore Mai dire mai, produzione Rete Blu realizzata nel carcere maschile “Due Palazzi” di Padova e in quello femminile de “La Giudecca” di Venezia. Andrà in onda in due puntate su Tv2000: la prima il 6 novembre 2016 (ore 22.55), in occasione del Giubileo dei Carcerati, la seconda il 13 novembre 2016 (ore 22.55). Ne parla a ZENIT don Marco Pozza.
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Don Marco, c’era bisogno di un nuovo docufilm sulla realtà carceraria? Non è il primo lavoro cinematografico che affronta questo tema: cosa lo caratterizza?
Non è il primo, non sarà certamente l’ultimo. Ciò che lo caratterizza – almeno nel nostro intuito originario – è il doppio senso del titolo: Mai dire mai. Se a leggerlo è un detenuto, assomiglia ad un augurio: mai-dire-mai della tua vita passata. Nessuno sarà mai perduto, se trova una stella a cui agganciare la sua speranza. Se a leggerlo è una persona libera, somiglia a un mezzo ammonimento: mai-dire-mai quando si pensa “tanto il carcere è una cosa che non mi sfiora minimamente”. Si vive molto più vicini al carcere di quanto noi possiamo immaginare. Questo docufilm si caratterizza per questo duplice sguardo che porta il carcere ad entrare nell’immaginario della società e che porta la società ad entrare, ricambiando il medesimo sguardo, dietro le sbarre e il cemento di una patria galera. In questo senso era necessario un affondo simile: è solo incontrando la vera presenza di una realtà che si può iniziare un confronto con essa. Anche una riconciliazione, laddove è possibile.
Quando ci siamo sentiti per organizzare questa intervista, ha definito il Giubileo dei Carcerati “il gesto più impopolare” durante questo Anno Santo. Perché?
Perché di pensa che la persona che sbaglia vada bandita per sempre dalla società. Impopolare e, di conseguenza, provvidenziale: mettere al centro della misericordia trame di storie che hanno deragliato (e stanno cercando di rimettersi nei binari) è ricordare che nessun uomo è mai il suo errore. Consegnare, poi, la Basilica di San Pietro a questo mondo così difficile da amare e comprendere, è dare forma a quell’annuncio tanto caro al Nazareno: essere venuto per portare la libertà ai prigionieri. Una libertà che cammina di pari passo con la responsabilità nei confronti della propria storia, ch’è prima di tutto una responsabilità nei confronti della storia delle vittime. Ecco, potessi fare un appunto a tutto il parlare del carcere che c’è stato in quest’Anno della Misericordia, mi rincresce che forse abbiamo parlato troppo poco dell’altra faccia del carcere: quella che versa lacrime di dolore per gesta efferate compiute dall’uomo nei confronti dell’uomo. Giustizia non è amnesia, nemmeno amnistia: giustizia è ricordarsi di dare a ciascuno ciò che gli spetta. Oneri, onori.
Il Giubileo è occasione propizia per praticare le opere di misericordia. Tra quelle corporali c’è “visitare i carcerati”…
Non so come sia possibile praticarla, sopratutto in quest’anno nel quale la parola “misericordia” è diventata il “trend-topic” assoluto di un’infinità di discussioni, ecclesiali e non, correndo il forte rischio di mandarla in soffitta fra qualche giorno. Non so nemmeno, a dire il vero, come abbia potuto praticarla un prete che, com’è nel mio caso, vive a stretto contatto con questa frangia di uomini perduti, perdutisi. L’unica cosa che posso raccontare, senza rischiare di mentire, è l’immagine di misericordia che mi si è annunciata quest’anno: la misericordia verso me stesso. Questo lo considero a tutt’oggi il vero guadagno di questi mesi: tentando di usare misericordia con gli altri (e non riuscendoci), mi sono allenato ad usare misericordia verso me stesso, ad amarmi quando meno sentivo di meritarmelo. Ad accettare la mia fragilità, il mio essere peccatore. Usando misericordia con me, poi, sento d’aver imparato a gustare i miei piccoli tentativi d’essere misericordioso con gli altri. Insomma, aveva ragione Cristo: cambiamo noi stessi, per poi cambiare il mondo. Il contrario – cambiare il mondo per poi cambiare noi stessi – ho scoperto essere il modo elegante per sedersi lungo la strada. E aspettare che altri facciano le cose al posto mio.
C’è chi organizza marce per i diritti dei detenuti, chi chiede l’edificazione di strutture moderne e più accoglienti, chi invoca l’amnistia… Concretamente, cosa è necessario fare per migliorare la condizione delle carceri italiane?
Innanzitutto conoscere la vera realtà del carcere: ragionare con dei pregiudizi aiuta solo a riempirsi il cervello di qualche idea da portare a spasso senza la fatica della conoscenza. Per conoscere, però, è anche necessario che il carcere si lasci incontrare: aprendo le sue porte alla città, mettendo faccia a faccia chi ha tradito la società con la società tradita. Il docufilm Mai dire mai ha poggiato qui le sue fondamenta: dalle domande che la gente – che entra in carcere attraverso il progetto Scuola-carcere Una domenica in periferia – pone ai detenuti, dalle risposte che i detenuti danno alle domande. Non è facile per nessuno raccontare il peggio di sé: se dentro quel peggio, però, si è scoperta anche solo una piccolissima percentuale di bellezza, allora il racconto diventa un’occasione per fare spazio a quella bellezza. A farla sbocciare.
L’incontro “con chi sta fuori” contribuisce alla rieducazione del detenuto?
Esattamente. La vera rieducazione è accettare d’incrociare gli sguardi della gente che vive fuori dalle sbarre. Per un cittadino libero, dall’altra parte, rieducazione potrebbe essere accettare la sfida d’andare “a stanare il lupo” laddove egli vive. Magari usando un anticipo di simpatia, senza la quale nessuna comprensione è mai possibile. La sfida è ardua, prima di tutto per me. Chi ci riesce, però, racconta di uno spettacolo unico a vedersi: l’uomo che, caduto, torna a rialzarsi, a camminare con le proprie gambe. Dicono, chi ci riesce, che ne valga la pena.

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Federico Cenci

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