Il Canada e il piano scivoloso dell'aborto

La sentenza di una Corte superiore conferma l'”aborto al quarto trimestre”

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di Paul De Maeyer

ROMA, venerdì, 16 settembre 2011 (ZENIT.org).- Ad Edmonton, in Canada, la giudice Joanne Veit, della Court of Queens’ Bench della provincia dell’Alberta, ha pronunciato venerdì 9 settembre un verdetto che conferma tutti i peggiori timori dei movimenti per la vita, ovvero che la legalizzazione dell’aborto e l’assuefazione alla pratica portano inevitabilmente all’accettazione dell’infanticidio. La giudice Veit ha condannato una giovane infanticida di Wetaskiwin (una cittadina a sud del capoluogo Edmonton), la venticinquenne Katrina Effert, a tre anni con la sospensione della pena. La Effert dovrà seguire però una consulenza psicologica, scontare inoltre 100 ore di lavoro socialmente utili ed infine informare le autorità giudiziarie se rimarrà nuovamente incinta.

All’età di 19 anni, la Effert aveva strangolato con un pezzo della sua biancheria intima il 13 aprile del 2005 il maschietto che aveva appena partorito in segreto nel bagno della casa dei suoi genitori e poi – dopo alcune ore – scaraventato il corpicino nel giardino di un vicino. Anche se è ancora in corso un processo per lo smaltimento illecito di resti umani, il cui verdetto verrà emesso proprio in questi giorni, tutto indica che dopo un lungo iter giudiziario, composto da vari processi ed appelli, e dopo quasi otto mesi di custodia preventiva, la giovane non dovrà più scontare alcun giorno dietro le sbarre per aver ucciso il suo bambino. Come motivazione per il suo gesto, la Effert ha spiegato di aver ucciso il piccolo per evitare che i suoi genitori, i quali ignoravano che la loro figlia fosse incinta, sentissero i suoi vagiti o pianti.

Come ricordano le fonti, la Effert era stata condannata una prima volta da una giuria per omicidio nel 2006, ma la sentenza fu annullata in appello per errori. Nel 2009, un’altra giuria l’aveva condannata all’ergastolo per omicidio di secondo grado, ma nel maggio scorso anche questo verdetto è stato rovesciato in appello perché ritenuto “irragionevole” (The Edmonton Sun, 4 maggio). In quest’ultima occasione, la Corte d’appello dell’Alberta aveva sostituito l’accusa di omicidio con quella di infanticidio e criticato il pubblico ministero di essere stato “troppo zelante”.

A preoccupare e sconvolgere i difensori della vita è proprio l’argomentazione della giudice Veit, la quale ha ritenuto che l’assenza di una legge sull’aborto in Canada indicherebbe che la popolazione “simpatizzasse” con la madre. “Mentre molti canadesi indubbiamente considerano l’aborto come una soluzione certo non ideale al sesso non protetto e alla gravidanza indesiderata, in generale comprendono, accettano e simpatizzano con le gravose fatiche che una gravidanza e un parto esigono dalle madri, soprattutto dalle madri prive di sostegno”, ha scritto la Veit nella sentenza (CBC News, 9 settembre). “Naturalmente, i canadesi sono addolorati per la morte di un neonato, specialmente se avviene per mano della madre del neonato, ma i canadesi piangono anche per la madre”, ha continuato.

Nel prendere la sua decisione, la Veit non ha avuto dubbi. Al momento dei fatti, l’infanticida aveva la “mente turbata”. “Io sono del parere che queste azioni (…) sono la prova dolorosa di un comportamento irrazionale da parte della signora Effert come conseguenza della sua mente turbata”, ha ribadito (The Edmonton Sun, 9 settembre). “In sintesi, questo è un caso classico di infanticidio – l’uccisione di un bambino neonato o appena nato dopo una gravidanza nascosta da una madre che era sola e senza sostegno”, ha concluso la giudice.

Con la sua sentenza, il tribunale ha seguito dunque la linea di difesa tracciata dall’avvocato della giovane, Peter Royal. “Ciò di cui ha bisogno questa donna è sostegno e comprensione, non di essere gettata in carcere”, ha spiegato in aula (The Edmonton Sun, 8 settembre). Già nel 2009, Royal aveva sostenuto la tesi che quello della Effert era un “classico caso da manuale” di infanticidio, che stando al Codice penale consiste nel provocare la morte di un “neonato” in un momento in cui la mente della madre è “turbata”, perché “non completamente recuperata dagli effetti del parto” o “dall’effetto dell’allattamento” (The National Post, 23 giugno 2009).

La domanda è però se al momento dei fatti la giovane donna fosse veramente presa dal panico, come ha affermato durante il processo. Se era infatti preparata al parto e durante la sua gravidanza avrebbe anche cercato di provocare un aborto spontaneo fumando e bevendo. Ad aggravare la sua posizione era anche il fatto che durante i primi interrogatori ha mentito alla polizia, dicendo che era ancora vergine, e che ha cercato di coinvolgere il padre del bambino.

Il caso ha richiamato in Canada l’attenzione sulla legge sull’infanticidio risalente al lontano 1948 e che “si fonda sul discutibile presupposto che l’esperienza del parto riduca contemporaneamente la capacità morale e la responsabilità di una donna”, come ha scritto nel 1991 in un rapporto l’attuale giudice capo della Corte suprema canadese, Beverley McLachlin (The National Post, idem). Infatti, secondo uno studio del 2006 condotto dall’Università di Toronto e basato su più di 100 casi di infanticidio, nella maggioranza dei casi le donne coinvolte avevano agito in modo “freddo” e “calcolato”, coprendo ad esempio consapevolmente le loro azioni ed ostacolando inoltre con astuzia le indagini.

Per la Abortion Rights Coalition of Canada (ARCC), guidata da Joyce Arthur, la sentenza pronunciata dalla giudice Veit è soddisfacente. Nella sua pagina su Facebook, l’organismo pro aborto ha inserito infatti il link ad un articolo sul caso, accompagnando la notizia con un commento più che eloquente. “Una situazione tragica, ma certo ci sono ragioni inoppugnabili per ritenere l’infanticidio un crimine inferiore all’omicidio”, si legge.

A segnalare il commento è l’attivista pro vita Jonathon Van Maren sul sito del Canadian Centre for Bio-Ethical Reform, UnmaskingChoice.ca (12 settembre). Per Van Maren, il caso dimostra che per alcuni l’infanticidio non è altro che “un aborto molto, molto tardivo”. “La depressione post-partum (…) serve come scusa per strangolare il neonato. Se riesci a dimostrare che eri depressa, uccidere tuo figlio è qualcosa di comprensibile e se ascolti questa giudice, accettabile”. Per questo motivo – conclude l’autore -, la sentenza del 9 settembre dovrebbe servire da avvertimento per i canadesi.

Come ricorda il sito LifeSiteNews.com (12 settembre), da anni ormai i movimenti pro vita avvertono infatti che il diffondersi della mentalità abortista sta spalancando la porta ad una maggiore accettazione sociale dell’infanticidio, cominciando dall’eutanasia di neonati con difetti genetici o con mali incurabili, come d’altronde avviene già in Olanda. Del resto, per filosofi come l’australiano Peter Singer, che insegna alla prestigiosa Princeton University (USA), “non c’è una netta distinzione tra il feto e il bambino neonato”.

Pungente e allo stesso tempo amara è la reazione di Wesley J. Smith nel suo blog sul sito della rivista First Things, Secondhand Smoke (13 settembre). “Così l’aborto genera simpatia per l’infanticidio in Canada”, deve constatare l’autore, noto soprattutto come oppositore all’eutanasia e al suicidio assistito. “Eppure, se lei (Katrina Effert, ndr) avesse strangolato un cucciolo, sappiamo benissimo che non avrebbe suscitato alcuna simpatia”, osserva in modo provocatorio.

A criticare la sentenza è stato anche il noto commentatore Mark Steyn in uno dei suoi ultimi post sul sito della National Review Online (13 settembre), intitolato “Aborto al quarto trimestre”. “Così un giudice di una Corte superiore in una giurisdizione relativamente civilizzata è felice di estendere i principi sottostanti all’aborto legalizzato per mitigare l’uccisione di una persona giuridica – vale a dire qualcuno che è riuscito a raggiungere lo status postfetale”. Per Steyn, autore di libri come “America Alone: The End of the World as We Know It”, la Effert non era ad esempio una person
a “senza sostegno”: viveva tranquillamente a casa dei suoi genitori, “che le fornivano vitto ed alloggio”. “Quanto agevolmente gli abili eufemismi ‘accettano, simpatizzano … gravose fatiche’ rendono scivoloso il piano inclinato”, conclude il critico di origini canadesi.

Altrettanto eloquenti sono le osservazioni di Susan Martinuk sul Calgary Herald del 15 settembre. “La società è ancora inorridita dalle azioni di Katrina Effert e l’accettazione legale di questi eventi contribuisce solo ad un ulteriore abbrutimento della nostra cultura”, scrive l’opinionista, la quale non risparmia la giudice Veit. Come ribadisce, “l’ipotesi che i canadesi accettino e simpatizzino con l’aborto solo perché accettano lo status quo di non avere una legge federale sull’aborto è palesemente falsa”.

Infatti un sondaggio del 2009, realizzato dalla società demoscopica Angus Reid Strategies, rivela che meno della metà della popolazione canadese – il 46% – ritiene che l’aborto dovrebbe essere autorizzato in tutte le situazioni o casi. Inoltre, ben il 92% dei canadesi non sa che nel suo Paese l’aborto è permesso per tutta la durata della gravidanza, fino al momento del parto. Per la Martinuk, sembra dunque che la Veit appartenga alla maggioranza “non informata” della popolazione canadese…

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ZENIT Staff

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