I Vescovi difendono quattro cristiani discriminati nel Regno Unito

LONDRA, lunedì, 12 settembre 2011 (ZENIT.org).- I Vescovi di Inghilterra e Galles hanno messo in guardia contro la discriminazione religiosa indiretta che può avvenire sul luogo di lavoro quando si applicano misura sproporzionate come il licenziamento perché si porta un crocifisso al collo.

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Lo hanno fatto attraverso un dettagliato documento pubblicato lunedì scorso dal Dipartimento per la Responsabilità Cristiana e la Cittadinanza della Conferenza Episcopale di Inghilterra e Galles.

Tra gli altri casi, hanno analizzato e valutato le decisioni giudiziarie che hanno interessato due cristiane che hanno perso il lavoro perché portavano una piccola croce, una funzionaria municipale che ha rifiutato di partecipare a “nozze gay” e un terapeuta che non ha voluto offrire terapia sessuale a coppie omosessuali.

Per i Vescovi, nel caso di questi quattro cittadini britannici cristiani che hanno subito discriminazioni sul lavoro perché hanno voluto manifestare la propria fede pubblicamente i tribunali del Regno Unito non hanno applicato correttamente i principi della legge sui diritti umani e la parità.

I Vescovi hanno anche esortato a cercare di risolvere questo tipo di casi “senza litigi, attraverso il senso comune e un reciproco dare e ricevere, in un modo che rispetti sia i diritti dei datori di lavoro che la sincera coscienza degli impiegati e la necessità reciproca di lavorare insieme per il bene comune”.

I quattro presunti casi di violazione della libertà religiosa sono giunti davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Il testo dell’episcopato risponde a una consultazione pubblica sulla discriminazione religiosa che sta realizzando la Commissione per l’Uguaglianza e i Diritti Umani, che dovrà intervenire di fronte a questo tribunale europeo per questi casi.

Proporzionalità

Il documento dei Vescovi sottolinea che “un problema importante nell’ambito della legge di Discriminazione Religiosa è la questione della discriminazione indiretta attraverso l’applicazione di pratiche di lavoro apparentemente neutrali, e se siano proporzionali al raggiungimento di un obiettivo legittimo”.

“La questione della proporzionalità è stata un punto cruciale nei quattro casi”, hanno affermato i presuli, prendendo come riferimento l’articolo 9 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali, per il quale ogni persona ha il diritto di “manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti”.

Allo stesso modo, si riconosce che “la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e costituiscono misure necessarie, in una società democratica, per la pubblica sicurezza, la protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o per la protezione dei diritti e della libertà altrui”.

Per i Vescovi, la libertà può essere oggetto solo di quelle restrizioni che, stabilite per legge, rappresentano misure necessarie per la difesa dell’ordine pubblico. Ogni restrizione che non sia necessaria non è lecita, e necessaria significa molto più che semplicemente auspicabile.

In questi quattro casi, sostengono, i tribunali britannici hanno confuso limitazioni “auspicabili” con restrizioni “necessarie in una società democratica”.

Crocifisso

I Vescovi si sono riferiti congiuntamente ai casi di Nadia Eweida, hostess della compagnia aerea British Airways, e Shirley Chaplin, infermiera, entrambe sospese dal lavoro perché portavano una croce.

In questi due casi, “i tribunali del Regno Unito hanno studiato se portare la croce fosse un requisito della religione cristiana, e hanno respinto la domanda delle parti perché non lo era”.

Per i presuli, “non c’è nulla nell’articolo 9 o nella giurisprudenza della Corte Europea che giustifichi il fatto di compiere una distinzione simile”.

“L’uso di un elemento religioso nell’abbigliamento, come una croce, un turbante sikh o un bracciale kara, una kippah ebraica o un hijab musulmano, è una manifestazione religiosa e come tale è protetto dall’articolo 9”, come hanno riconosciuto i tribunali britannici in altri casi riferiti al bracciale kara e al turbante sikh.

A loro avviso, “il fatto che applicando l’articolo 9 i tribunali del Regno Unito abbiano cercato di distinguere tra le religioni che hanno mandati sull’abbigliamento e quelle che non li hanno è in sé una violazione” della legge.

“Il vero esame dovrebbe riguardare il fatto che le persone considerino o meno il portare l’elemento religioso una manifestazione importante del proprio credo, e così era nel caso delle due donne”.

Obiezione di coscienza negata

Il terzo caso è quello di Lilian Ladele, che ha perso il lavoro nell’amministrazione municipale per la quale lavorava per essersi rifiutata di officiare “matrimoni omosessuali”.

I Vescovi hanno sottolineato che con il suo rifiuto a partecipare a queste cerimonie la donna stava manifestando la propria religione e il suo credo in “pratica e osservanza”, e hanno invitato a considerare che partecipare al registro di coppie omosessuali era per lei “complicità morale” e che la sua obiezione non inficiava il servizio di registro delle unioni civili.

Il quarto è il caso di Gary McFarlane, terapeuta espulso dal suo lavoro perché non voleva offrire terapia sessuale a coppie omosessuali.

La risposta completa dei Vescovi alla consultazione della Commissione per l’Uguaglianza e i Diritti Umani è disponibile in inglese sulla pagina web della Conferenza Episcopale di Inghilterra e Galles (http://www.catholic-ew.org.uk/Catholic-Church/Media-Centre/Press-Releases/Press-Releases-2011/Submission-to-Equality-and-Human-Rights-Commission-consultation).

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ZENIT Staff

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