I Seminari grandi sono grandi Seminari

Le dimensioni degli Istituti per la formazione del clero: la qualità dipende anche dalla quantità

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Papa Francesco non perde occasione per mantenere un rapporto con l’ambiente di cui è originario. Dal 16 al 19 novembre si è svolto un pellegrinaggio-incontro, organizzato dalla Pontificia Commissione per l’America Latina, che ha visitato a Città del Messico il Santuario della Madonna di Guadalupe, Patrona di tutto il Continente, e Bergoglio si è rivolto ai partecipanti con un video messaggio.

Non a caso, nel suo discorso, il Papa ha dedicato particolare attenzione al tema dei Seminari, dicendo: “La cultura di oggi esige una formazione seria, bene organizzata. Ed io mi chiedo se abbiamo la capacità autocritica sufficiente per valutare i risultati dei seminari molto piccoli, con carenza di personale formativo sufficiente”.

Prima di considerare il significato di queste parole, è opportuno domandarsi per quale motivo il Papa, tra tanti problemi che deve affrontare la Chiesa, abbia scelto questo in particolare. La risposta consiste nel fatto che il problema della formazione dei Sacerdoti, e di come si intende la loro funzione nella comunità dei credenti, è ormai divenuto una “quaestio stantis vel cadentis Ecclesiae“.

La Chiesa comprende, sia pure con funzioni diverse, chi è insignito del Sacramento dell’Ordine come chi non lo ha ricevuto. Tra Ordinati e laici esiste naturalmente una diversità di funzioni, ma non si giustifica una diversità di importanza. Un famoso Cardinale dell’Italia Settentrionale, quando si recava in visita pastorale, era solito domandare: “Chi è il più importante qui?” Al che i fedeli, rispondevano con deferenza: “E’ lei, Eminenza!” E il Porporato diceva di rimando: “No, il più importante è Gesù Cristo!” Con questo, egli voleva intendere che una delle peggiori tentazioni, nella Chiesa, è il clericalismo.

Con tale termine si intende la tendenza ad attribuire al clero una funzione di comando nelle questioni che non sono di indole religiosa. Fino ad ora, tuttavia, nell’ambito ecclesiastico, il clericalismo non era stato mai criticato, e tanto meno combattuto: quando alcuni laici protestavano per una ingerenza indebita dei Sacerdoti nelle questioni temporali – ed era questo un fenomeno particolarmente frequente in Italia, per via di una lunga egemonia cattolica sulla vita civile – la Gerarchia respingeva le loro lamentele, o quanto meno assumeva un atteggiamento pilatesco, come se non fosse stata riguardata dalla questione.

Ora, per la prima volta, un Papa afferma solennemente che il clericalismo rappresenta una “tentazione” – Bergoglio usa precisamente questo termine, abitualmente riferito al peccato – “che tanto danno fa alla Chiesa (…), un ostacolo per lo sviluppo della maturità e della responsabilità cristiana di buona parte del laicato. Il clericalismo implica un atteggiamento autoreferenziale, un atteggiamento di gruppo, che impoverisce la proiezione verso l’incontro con il Signore, che ci fa discepoli, e verso gli uomini che aspettano l’annuncio”.

Queste ultime parole del Santo Padre prevengono l’obiezione scontata che molti sono tentatati di opporre al suo discorso: il Sacerdote è addetto alle cose sacre, ed entrambe queste parole – appunto sacro e Sacerdote – hanno la stessa radice di “secernere”, cioè di separare, di distinguere cioè le cose della trascendenza dalle cose dell’immanenza. Quanto deve restare separato dalla sfera profana – ammonisce però il Papa – non è la persona, per quanto rispettabile, del Sacerdote, bensì la sua funzione.

Questa funzione comunque né attribuisce agli Ordinati un ruolo preponderante al di fuori della sfera religiosa, né allo stesso interno di essa può coartare quello che Bergoglio chiama la “maturità” e la “responsabilità” del laicato. Sacerdoti e laici condividono la condizione di “discepoli” nei riguardi del Signore, ed insieme devono dedicarsi a quello che il Papa chiama “l’annuncio”: l’annuncio, cioè, del Vangelo.

Se esiste una tale comunanza di condizione, ed una tale condivisione di compiti tra Sacerdoti e laici, dove sta il difetto proprio dei “seminari molto piccoli”? Questo difetto consiste certamente nella insufficienza del personale formativo, ma ancora di più nel favorire quella che il Papa denunzia come l’autoreferenzialità della Chiesa.

Tale atteggiamento può avere una valenza culturale, essendo proprio di un gruppo ristretto di pochi preti o aspiranti preti che parlano a sé stessi, ma può anche avere una valenza sociale, comportandosi costoro come una ristretta “élite” di privilegiati”. Ciò li rende inadatti ad andare verso quelle “periferie esistenziali” dove il Papa – come riafferma anche questa volta  – intende collocare la Chiesa.

E poi c’è ancora un motivo per cui un Seminario grande ha più facilità di divenire un grande Seminario: questo motivo lo troviamo in un aspetto particolare del pellegrinaggio – incontro di Città del Messico, cui il Papa si è rivolto: in esso, come già avviene da tempo, il Continente americano si presenta unito nel suo lavoro e nella sua riflessione pastorale; non soltanto perché la Madonna di Guadalupe è patrona tanto dell’America anglosassone come dell’America Latina, ma soprattutto perché le migrazioni interne dal Sud al Nord del mondo – che in quelle terre sono ancora più imponenti di quanto siano in Europa – hanno portato ad un nuovo incontro tra culture, in particolare tra culture religiose.

L’elemento ispanico non si assimila, vuoi per la sua entità, vuoi perché portatore di una identità più forte rispetto alle anteriori migrazioni – nel famoso “melting pot” dell’America Settentrionale. Si può dire anzi che esso stia cambiando la natura di un cattolicesimo su cui fino ad ora aveva prevalso l’impronta tradizionalista propria dell’Irlanda: oggi la Chiesa Cattolica degli Stati Uniti deve fare i conti – più delle altre confessioni – con una realtà sociale e culturale completamente mutata, e destinata ancor più a cambiare nel futuro.

Sintetizzando, possiamo dire che una cultura di origine non europea – i Latinoamericani che vanno “para el Norte” sono prevalentemente di radice indigena – non si limita ad installarsi nella realtà preesistente, ma ne cambia in modo profondo e irreversibile natura.

C’è dunque bisogno di un clero che conosca tale realtà, che sia in grado di capirla e di operare in essa. Non è dunque più possibile una formazione di Sacerdoti che conoscano una sola cultura: essi devono assimilare sia quella anglosassone, sia quella latinoamericana: un motivo in più perché il Seminario non sia piccolo, non sia chiuso in sé stesso, non sia autoreferenziale. Dai tempi apostolici non era mai accaduto nulla di simile, per cui oggi più che mai si può dire che il Seminario è il futuro della Chiesa.

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Alfonso Maria Bruno

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