I seguaci di Lefebvre e la paura della Tradizione

Di prossima uscita un libro con una intervista a monsignor Bernard Fellay

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di Mirko Testa

ROMA, venerdì, 20 febbraio 2009 (ZENIT.org).- La recente bufera sollevata dal caso del Vescovo negazionista Richard Williamson, uno dei quattro presuli cui Benedetto XVI ha revocato la scomunica risalente al 1988, ha portato molti a porsi la stessa domanda: chi sono e cosa pensano veramente gli eredi di monsignor Marcel Lefebvre?

Un libro di prossima uscita intitolato “Tradizione. Il vero volto” (Sugarco edizioni, 2009, pp. 246, Euro 14,50) riporta un colloquio a tutto campo con monsignor Bernard Fellay, dal 1994 Superiore della Fraternità Sacerdotale San Pio X, fondata da monsignor Lefebvre e che oggi conta all’incirca 600.000 fedeli, 500 sacerdoti diffusi in tutto il mondo in più di 60 Paesi e oltre 250 giovani che si preparano al sacerdozio.

A condurre l’intervista sono Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro che insieme avevano già firmato un altro volume dedicato alla Fraternità di San Pio X dal titolo “Rapporto sulla Tradizione” (Cantagalli, 2007).

Nel libro vengono toccate le tematiche più svariate: dalla crisi della Chiesa di fronte alle sfide della modernità, al compito del Vescovo, alle riforme del Concilio Vaticano II, fino al senso del peccato e all’inferno.

Fondamentale il tema dell’obbedienza alla Chiesa e di come conciliare questa esigenza, sempre rivendicata dai tradizionalisti della Fraternità fondata da mons. Lefebvre, con la critica serrata ai documenti conciliari del Vaticano II e con lo stesso atto delle ordinazioni episcopali senza mandato pontificio.

Infatti, in ballo c’è il riconoscimento canonico della Fraternità di San Pio X nella Chiesa Cattolica, poiché, come ha spiegato la Segreteria di Stato vaticana in una nota, la revoca della scomunica ai quattro Vescovi lefebvriani non equivale a una loro riammissione automatica, per la quale è “condizione indispensabile” il “pieno riconoscimento del Concilio Vaticano II e del Magistero dei Papi Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II e dello stesso Benedetto XVI”.

In merito al caso Williamson, i due parlano di una “indignazione a orologeria” orchestrata dal media system per seppellire un avvenimento cruciale nella storia della Chiesa ed “evitare che il Papa cementi il legame con la Tradizione”.

E proprio la paura per la Tradizione è la questione che percorre sottotraccia tutto il libro, anche se mons. Fellay tiene a precisare che l’opposizione che si avverte perlomeno all’interno della Chiesa riguarda maggiormente i livelli più bassi della gerarchia che non la Curia romana.

Chi è fedele al Papa e chi no

Nell’intervista monsignor Bernard Fellay dà voce al sentimento di sincera fedeltà al successore di Pietro che anima la Fraternità San Pio X: “Noi siamo veri cattolici e siamo e vogliamo continuare a essere i più grandi sostenitori del Vicario di Cristo”.

“Coloro che ci descrivono come ribelli non rendono servizio alla verità”, aggiunge.

Mons. Fellay passa poi a parlare del “vero e proprio golpe” sferrato dalla teologia prevalente degli ultimi decenni contro l’autorità del Papa, criticando il Vaticano di non essere più uno “strumento al servizio del potere papale” quanto “un agglomerato burocratico che in parte neutralizza l’autorità papale e in parte esercita un potere in proprio”.

Rispondendo all’osservazione secondo cui la Fraternità San Pio X, che oggi lamenta un attacco all’autorità del Papa e all’esercizio del suo potere, nacque in realtà da un atto di disobbedienza al Pontefice, mons. Fellay afferma che “la nostra vicenda superficialmente si coglie solo un atto che va contro un ordine del Papa. Ma questo ha una ragione, un perché”.

“Noi – spiega – non abbiamo voluto affermare la nostra volontà o una nostra opinione. Noi abbiamo solo messo in evidenza un problema: che ciò che la Chiesa ha detto e insegnato per duemila anni, a un certo punto, è stato contraddetto”.

“La Chiesa è Tradizione e il Papa nell’esercizio della sua autorità è vincolato a ciò che è stato insegnato da Nostro Signore, non può insegnare altro che quello – ha affermato –. Chiunque nella Chiesa, compreso il Santo Padre, dica qualche cosa che contraddica la dottrina commette un errore, e nessuno può essere obbligato a seguire l’errore. Anzi, quando l’errore è evidente, bisogna dirlo”.

“Se a vari livelli, dentro la Chiesa, vengono imposti insegnamenti che vanno contro ciò che la Chiesa stessa ha sempre insegnato o che mettono in circolazione idee che la Chiesa aveva già condannato, siamo in presenza di un fatto molto, molto grave”, sottolinea.

Vescovi in crisi e Conferenze episcopali autoritarie

Il successore di mons. Lefebvre tocca quindi il tema della missione dei Vescovi e delle Conferenze episcopali osservando che spesso al giorno d’oggi “si occupano di tutto, dall’emergenza rifiuti alla crisi economica, ma non dell’insegnamento della dottrina e della trasmissione della fede. Hanno acquisito una visione puramente orizzontale e hanno dimenticato quella verticale”.

La Chiesa, a suo avviso, “dovrebbe rimettere al loro posto le Conferenze episcopali e ridurne il potere. Bisogna cambiare rotta. Nella Chiesa è entrata una visione democratica che non le appartiene”.

“Le Conferenze – spiega – sono diventate anche fonte di burocrazia, e questo non fa che allontanare ulteriormente i Vescovi dai fedeli”, mentre quelli “di buona volontà si trovano ingabbiati in una serie di vincoli che ne ostacolano l’azione. In molte diocesi è praticamente impossibile incontrare personalmente il proprio Vescovo”.

La Chiesa tra Tradizione e modernità

Per mons. Fellay, la Tradizione della Chiesa consiste non nel ricalcare il passato, ma nel tramandare lo spirito che lo ha animato: “la Tradizione è ciò che la Chiesa ha fatto nel passato, considerando che noi non dobbiamo perpetuare alla lettera i singoli atti, ma mantenere e tramandare lo spirito, i princìpi che li informavano”.

Nel confrontarsi con la modernità, la Chiesa deve continuare a ripetere quanto “ha sempre detto all’uomo di tutti i tempi”, perché “quando esce dal suo binario e cerca di dire altro per essere bene accetta, non trova più gli interlocutori, che preferiscono ascoltare altre voci”.

La formula vincente, secondo mons. Fellay, è “tornare a ricordare agli uomini la Croce. Bisogna tornare a insegnare i comandamenti e spiegare che servono a santificarsi”, perché “la Chiesa […] termina in Cielo”.

Al contrario, la Chiesa perde rilevanza nella società e snatura il messaggio cristiano quando prova a “scendere a patti con il mondo” o ricorre al “quieto vivere”, perché “fra la luce e le tenebre non può esserci compromesso”.

Riflettendo poi sul concetto di “sana laicità”, Bernard Fellay sottolinea la necessità di ripensare la relazione fra Chiesa e società, fra Chiesa e Stato, perché “la loro distinzione non implica né indipendenza, né uguaglianza: la società spirituale è superiore a quella temporale”.

In particolare, mons. Fellay si rifà agli insegnamenti della Chiesa riassunti da Papa Pio XI nel 1925 nell’enciclica Quas Primas, e parla della necessità di recuperare la nozione di “Regalità sociale di Nostro Signore”, che indica la signoria di Gesù sulla vita sociale, civile e politica.

“La società è un ente morale e, come tale, deve trarre le ragioni del suo agire dalla sorgente della morale, cioè da Dio”, sostiene.

Da questo punto di vista, le questioni legate per esempio all’aborto e all’eutanasia riflettono la libertà dell’ “uomo che ha perso il senso del sacro e invade un terreno non suo”, comportandosi come “un apprendista stregone”.

Occorre quindi che “gli uomini di C
hiesa tornino a dire forte che c’è un dominio, quello di Dio, dove la diplomazia non ha posto, dove non si può negoziare”, sottolinea.

La crisi d’identità del sacerdote

Secondo mons. Fellay il Concilio Vaticano II ha messo in secondo piano il ruolo del sacerdote a favore di quello del laico, scivolando sul “piano della visione protestante, in cui il sacerdote è un fedele come tutti gli altri a cui sono affidate dalla comunità delle funzioni particolari”.

Nella “Lumen gentium” (1964), la costituzione conciliare sulla Chiesa, “dei presbiteri si parla pochissimo ma il messaggio è chiarissimo perché si dice testualmente che ‘sono consacrati per predicare il Vangelo, pascere i fedeli e celebrare il culto divino’”.

“In questo testo, prima viene la predicazione e solo dopo il sacrificio”, una interpretazione che stride con la concezione del Concilio di Trento che faceva del sacerdote innanzitutto “l’uomo del sacrificio”.

“È vero che poi si dice che ‘esercitano la loro sacra funzione soprattutto nel culto eucaristico’, ma anche questa affermazione viene solo dopo che si è ribadita un’altra volta la funzione di annuncio della Parola”.

“Il sacerdote ha perso la sua identità e non sa più chi sia – commenta –. Lo si vede sotto tutti gli aspetti, dalla vita di pietà e alla pratica liturgica, dalla cura delle anime alla vita privata”.

Inoltre, spiega, la riforma liturgica avviata da Paolo VI con la promulgazione nel 1970 del nuovo Messale Romano, “ha messo in secondo piano l’aspetto sacrificale della Messa a favore di quello assembleare, ha dato un colpo tremendo. Il sacerdote viene trasformato nel presidente di un’assemblea, una sorta di primus inter pares che ha ragione di essere solo nella funzione momentanea”.

Tutto ciò, a suo avviso, è “frutto dell’introduzione del concetto di ‘Popolo di Dio’, un concetto assolutamente inedito nella storia della Chiesa che troviamo nella ‘Lumen gentium’” e che “ha agito come mito anti-istituzionale generando l’idea che il vero problema della Chiesa fosse quello di liberarsi delle sue figure istituzionali, cominciando dal Papato”.

“Ecco perché il ruolo del sacerdote è stato sminuito: perché è sempre stato il cardine dell’istituzione sul territorio, tra i fedeli”, sottolinea.

Ciò ha prodotto dapprima “il vuoto in un punto fondamentale della missione della Chiesa che è la trasmissione della fede” e di conseguenza l’ignoranza religiosa in molti fedeli.

Allo stesso tempo, però, la riforma liturgica avviata a partire dal Concilio Vaticano II ha comportato “un mutamento di orizzonte” che “costringe l’uomo a guardare per terra”: “molti cattolici, senza volerlo e senza saperlo, hanno mutato fede”.

Per Fellay la Messa in latino secondo il Messale Romano promulgato da San Pio V e aggiornato dal beato Giovanni XXIII nel 1962, è “una via privilegiata per ritrovare questo orientamento verso Dio”.

Ecumenismo e dialogo interreligioso

Mons. Fellay analizza quindi i presupposti alla base del dialogo con le altre confessioni cristiane e con le altre religioni gettate dal Vaticano II e afferma: “Se si intende la preoccupazione di riportare dentro la Chiesa cattolica coloro che nel corso dei secoli l’hanno abbandonata, non si dice nulla di nuovo. Il ritorno dei figli che se ne sono andati è da sempre uno dei desideri più grandi della Chiesa”.

Il concetto di “ecumenismo” introdotto allora, spiega, riflette invece un’idea nuova derivata dall’ambito protestante, “tanto è vero che nel decreto del Concilio Vaticano II sull’ecumenismo, Unitatis redintegratio, si sente il bisogno di definire i ‘Princìpi cattolici sull’ecumenismo’. In altre parole, si battezza un’idea che viene dall’esterno”.

Al contrario, continua, “l’idea cattolica in proposito è molto semplice. C’è una sola Chiesa fondata da Gesù ed è quella cattolica, la sola che riceve da Gesù i mezzi per la salvezza delle anime”.

“Si è sempre detto – prosegue mons. Fellay – che un individuo, preso singolarmente, può salvarsi anche se appartiene a un’altra religione, ma ciò sempre per merito della Chiesa cattolica e non della religione a cui appartiene”.

“Del resto non è difficile da comprendere: se esiste una sola Verità, esiste una sola religione. Dunque, questa religione è vera e le altre possono solo essere false”.

Per questo, osserva, “il fondamento dell’ecumenismo è la negazione dell’identità tra il Corpo Mistico di Cristo e la Chiesa cattolica”, un insegnamento che, a suo avviso, contrasta con l’insegnamento tramandato lungo tutta la storia della Chiesa”.

Secondo mons. Fellay, questa concezione ecclesiologica è contenuta nelle premesse della filosofia personalista”, secondo cui “una persona, per essere autentica, per compiersi, deve essere in costante dialogo con qualcuno o qualcosa d’altro”.

“Per questo, con l’ecumenismo, si arriva al dialogo per il dialogo – aggiunge –. Si intraprendono discussioni infinite al termine delle quali si pretende che ognuno rimanga ancora quello che era prima”.

“Chi, nella Chiesa cattolica, sostiene che essa non sia l’unica vera Chiesa deve assumersi tutte le responsabilità che ne conseguono per la vita di grazia dei fedeli e per la salvezza delle anime”, avverte.

“Perché deve essere evidente a tutti che sostenere, nelle parole o nei fatti, che la Chiesa cattolica non è l’unica vera Chiesa significa causare il suo dissolvimento”, conclude poi.

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ZENIT Staff

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