I Santi e i nostri morti

Lectio Divina per la 31ª Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) – Commemorazione dei Defunti

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Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi, offre oggi la seguente riflessione sulle letture liturgiche per la 31ª Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) – Commemorazione dei Defunti.

Come di consueto, il presule offre anche una lettura patristica.

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LECTIO DIVINA

Rito Romano e Rito Ambrosiano – Commemorazione dei Defunti – Anno A – 2 novembre 2014  

1) Affidati all’Amore.

Oggi la Liturgia della Chiesa ci fa ricordare tutti i fedeli defunti in una grande preghiera che li racchiude tutti nei nostri pensieri e nei nostri ricordi. Oggi la nostra preghiera deve rivolgersi al Signore perché accolga nel suo Regno di eterna gioia e pace quelli che hanno lasciato questo mondo e sono passati all’eternità. I nostri morti: parenti, amici, conoscenti, e i defunti di tutti i tempi che per noi non hanno nome ma che Dio conosce bene.

La preghiera per le anime sante del purgatorio, specialmente quelle più abbandonate e di cui non sappiamo neppure il nome e l’esistenza. I morti di tutte le guerre e di tutte le violenze, i morti del passato, come dell’oggi: i morti sulle strade, in mare, negli ospedali, nelle case, nelle piccole e grandi città, i morti naufraghi e a cause di epidemie, e, naturalmente quelli che negli ultimi giorni hanno lasciato profondamente addolorato il nostro cuore. Commemoriamo tutti i morti, senza esclusione di nessuno ed eleviamo per tutti loro la preghiera, perché il Signore doni loro il riposo eterno, la pace perfetta.

E se è naturale che il nostro ricordo vada oggi in particolare ai nostri cari defunti, che nel momento del distacco, noi abbiamo affidato i nostri morti all’amore e all’eternità del Signore, è pure “naturale” che riceviamo da loro l’insegnamento, che l’amore eterno di Dio conserva nel suo cuore chi ama, dopo averli accolti con il suo perdono. I nostri cari defunti ci ricordano che non è proprio il caso di sprecare tempo e fatica per ambizioni e cose effimere, perché tutto passa e solamente l’amore rimane.

Non dobbiamo dimenticare che il 2 novembre non è solo un giorno, in cui si impone alla nostra attenzione il carattere di fugacità e di brevità della vita che segna in maniera dolorosa la nostra vicenda umana. Si tratta di un giorno destinato alla celebrazione della nostra più grande speranza se davvero crediamo nella fede pasquale del Risorto. La giornata dedicata a tutti i defunti dunque non è una celebrazione luttuosa. Se consideriamo l’onnipotenza del Dio Amore, che non lascia nelle tombe i morti, perché Lui stesso ha fatto morire la morte uscendo risorto e glorioso dal suo sepolcro. Il morire cristiano non è un semplice trapassare dell’anima da uno stato all’altro, ma realizza un incontro individuale con Dio amore che salva, apportando la fiducia e la speranza nella vita senza fine. Come dice il prefazio I della Messa dei Defunti: “La vita non ci è tolta, ma trasformata”, dal perdono, come è accaduto a Marmeladov, ubriacone descritto da Dostoevskij in “Delitto e Castigo”. Marmeladov è un poco di buono, un ubriacone che non ama lavorare. Il suo comportamento ha rovinato la sua famiglia e sua figlia, Sonia, è stata obbligata a prostituirsi. Quest’uomo vive dentro di sé un senso acuto di sconfitta e di colpa. E’ un perdente. Un giorno, nell’osteria, ubriaco fradicio, azzarda discorsi sconnessi e in una sorta di visione parla del Giudizio finale che sintetizzo così: “Dio chiama per primi, accanto a sé, coloro che hanno avuto vite irreprensibili, sante. Sono persone che meritano, almeno secondo un criterio umano, di vivere accanto a Dio. Poi convoca coloro che di bene ne hanno fatto poco, gli ubriaconi come lui e i drogati, coloro che noi, i benpensanti, osiamo definire “i cattivi”. “Allora convocherà noi. ‘Pure voi, fatevi avanti’, dirà, ‘fatevi avanti, ubriaconi, fatevi avanti voi deboli, fatevi avanti figli della vergogna!’. E noi tutti ci faremo avanti vergognosamente e ci terremo in piedi davanti a Lui. Ed Egli ci dirà: ‘Siete dei porci, fatti a immagine della Bestia e con il suo marchio; ma venite voi pure!’ E i saggi e le persone di buon senso diranno: ‘Signore, perché Tu accogli questi uomini?’ E Lui dirà: ‘ La ragione per la quale li accolgo, uomini benpensanti, è che nessuno di loro ha creduto di essere degno di questo’.”

È possibile tutto ciò, oppure è soltanto un parlare a vanvera tipico degli ubriachi? Non solo è possibile, e accade veramente come è accaduto all’adultera e alla Maddalena, a Zaccheo come a Pietro: tutti hanno consegnato a Cristo il loro dolore, ritenendosi indegni, e tutti sono stati perdonati. Come recita il salmo 36, il Signore “è la mia luce e la mia salvezza… è difesa della mia vita… A lui grido: abbi pietà di me. Il tuo volto, Signore io cerco…. Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi”. Perché Gesù ha vissuto un’agonia estrema, come molti malati che abbiamo visto, apparentemente senza alcuna speranza, sul letto di morte. Perché Egli è morto come l’uomo, a causa dell’uomo, per l’uomo, con l’uomo e davanti all’uomo. Questa fede si unisce alla speranza, che -come scrive Paolo ai cristiani di Roma – “non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,5).

2) I Defunti e i Santi, persone che vivono nella verità dell’Amore.

La vicinanza di date fra la festa dei Santi (1° novembre) e la Commemorazione dei defunti (2 novembre) ci ricorda la verità misteriosa della vita eterna e il legame di fraternità tra noi e con i nostri cari, che sono passati all’altra riva.

Non è per nostalgia verso il passato che ci si reca al cimitero, ma perché speriamo con speranza in un futuro di gloria e di gioia. Quindi, mentre preghiamo in suffragio dei nostri defunti, loro ci tendono dal cielo le loro mani e ci assicurano una vicinanza intensa e quotidiana, perché anche noi camminiamo con costanza verso la vita che non ha fine.

E’ con speranza che il cristiano percepisce e accoglie la fine terrena, la morte. La sua fede in Gesù risorto gli dà la sicurezza che morire non è una sconfitta irreparabile, ma il drammatico passaggio alla condizione gloriosa con il suo Signore. “Chi viene a me, non lo respingerò”. Non siamo degli estranei per Dio, ma figli, eredi, destinati a condividere la risurrezione di Gesù.

Un inno delle Lodi fa cantare: “E noi che di notte vegliammo, attenti alla fede del mondo, protesi al ritorno di Cristo or verso la luce guardiamo”. Nella notte della morte in cui tutti affondano, ci è data una luce che illumina l’intangibile profondità del nostro cuore e nella fede possiamo fare un’esperienza religiosa nella quale si riverberi la risurrezione finale. Cristo abbraccia ogni istante della nostra vita e ci fa capire e vivere che in ogni momento c’è una ridondanza di eternità, ogni istante legato a Lui implica l’eterno.

A questo abbraccio si consegnano le Vergine consacrate nel mondo, a cui  “è affidato il compito di additare il Figlio di Dio fatto uomo come il traguardo escatologico a cui tutto tende, lo splendore di fronte al quale ogni altra luce impallidisce, l’infinita bellezza che, sola, può appagare totalmente il cuore dell’uomo” (S. Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica Post sinodale Vita Consecrata, n. 16).

La scelta della vita verginale è un richiamo alla transitorietà delle realtà terrestri e anticipazione dei beni futuri. Essa ricorda a tutti i fedeli l’esigenza di camminare tra le vicende del mondo sempre orientati verso la città futura e contribuisce in modo esemplare a mettere in luce la genuina natura della vera Chiesa, che ha la caratteristica di essere nello stesso tempo umana e divina, visibile ma dotata di realtà invisibili, ardente nell’azione e dedita nella contemplazione, presente nel m
ondo e tuttavia pellegrina6.

Al significato spirituale ed escatologico della condizione verginale si riferisce in maniera suggestiva e profonda l’antichissima preghiera romana di consacrazione del Pontificale Romano attribuita a san Leone Magno: “Tu…hai riservato ad alcune tue fedeli un dono particolare scaturito dalla fonte della tua misericordia. Alla luce dell’eterna sapienza hai fatto loro comprendere, che mentre rimaneva intatto il valore e l’onore delle nozze, santificate all’inizio dalla tua benedizione, secondo il tuo provvidenziale disegno, devono sorgere donne vergini che, pur rinunziando al matrimonio, aspirassero a possederne nell’intimo la realtà del mistero. Così le chiami a realizzare, al di là dell’unione coniugale, il vincolo sponsale con Cristo di cui le nozze sono immagine e segno. (n.38).

Dalla consacrazione verginale scaturisce la grazia ecclesiale specifica che rende operante il simbolismo originario di questo rito. Così il dono della verginità profetica ed escatologica acquista il valore di un ministero al servizio del popolo di Dio e inserisce le persone consacrate nel cuore della Chiesa e del mondo (Conc. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa, Lumen Gentium, n. 42) Questo atto pubblico e riconosciuto dell’alleanza fra il Cristo e la vergine consacrata, proclama di fronte al mondo il primato e la fecondità della totale e perpetua donazione di sé con la piena disponibilità alle esigenze della carità verso Dio e verso il prossimo.

Sull’esempio e sulla testimonianza di queste Vergini Consacrate, che vivono la loro fede con gioia e fatica, che ogni giorno vivono nell’amore, per amore, per amare, perseveriamo nel cammino di santità a cui tutti siamo chiamati.  In ciò ci siano di intercessione e di aiuto tutti i santi, che sono coloro che sono così affascinati dalla bellezza di Dio e dalla sua perfetta verità da lasciarsene trasformare. Per questa bellezza e verità e amore loro furono disposti a rinunciare a tutto, anche a se stessi, e vissero nella lode a Dio e nel servizio umile e disinteressato del prossimo.

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LETTURA PATRISTICA

Sant’Ambrogio di Milano
La fede nella Risurrezione dei morti
Dal libro «Sulla morte del fratello Satiro»
(Lib. 2, 40.41.46.47.132.133; CSEL 73, 270-274, 323-324)

Moriamo insieme a Cristo, per vivere con lui

Dobbiamo riconoscere che anche la morte può essere un guadagno e la vita un castigo. Perciò anche san Paolo dice: «Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Fil 1,21). E come ci si può trasformare completamente nel Cristo, che è spirito di vita, se non dopo la morte corporale?Esercitiamoci, perciò, quotidianamente a morire e alimentiamo in noi una sincera disponibilità alla morte. Sarà per l’anima un utile allenamento alla liberazione dalle cupidigie sensuali, sarà un librarsi verso posizioni inaccessibili alle basse voglie animalesche, che tendono sempre a invischiare lo spirito. Così, accettando di esprimere già ora nella nostra vita il simbolo della morte, non subiremo poi la morte quale castigo. Infatti la legge della carne lotta contro la legge dello spirito e consegna l’anima stessa alla legge del peccato. Ma quale sarà il rimedio? Lo domandava già san Paolo, dandone anche la risposta: «Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?» (Rm 7,24). La grazia di Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore (cfr. Rm 7,25 ss.).Abbiamo il medico, accettiamo la medicina. La nostra medicina è la grazia di Cristo, e il corpo mortale è il corpo nostro. Dunque andiamo esuli dal corpo per non andare esuli dal Cristo. Anche se siamo nel corpo cerchiamo di non seguire le voglie del corpo.Non dobbiamo, è vero, rinnegare i legittimi diritti della natura, ma dobbiamo però dar sempre la preferenza ai doni della grazia.Il mondo è stato redento con la morte di uno solo. Se Cristo non avesse voluto morire, poteva farlo. Invece egli non ritenne di dover fuggire la morte quasi fosse una debolezza, né ci avrebbe salvati meglio che con la morte. Pertanto la sua morte è la vita di tutti. Noi portiamo il sigillo della sua morte, quando preghiamo la annunziamo; offrendo il sacrificio la proclamiamo; la sua morte è vittoria, la sua morte è sacramento, la sua morte è l’annuale solennità del mondo.E che cosa dire ancora della sua morte, mentre possiamo dimostrare con l’esempio divino che la morte sola ha conseguito l’immortalità e che la morte stessa si è redenta da sé? La morte allora, causa di salvezza universale, non è da piangere. La morte che il Figlio di Dio non disdegnò e non fuggì, non è da schivare.A dire il vero, la morte non era insita nella natura, ma divenne connaturale solo dopo. Dio infatti non ha stabilito la morte da principio, ma la diede come rimedio. Fu per la condanna del primo peccato che cominciò la condizione miseranda del genere umano nella fatica continua, fra dolori e avversità. Ma si doveva porre fine a questi mali perché la morte restituisse quello che la vita aveva perduto, altrimenti, senza la grazia, l’immortalità sarebbe stata più di peso che di vantaggio.L’anima nostra dovrà uscire dalle strettezze di questa vita, liberarsi delle pesantezze della materia e muovere verso le assemblee eterne.Arrivarvi è proprio dei santi. Là canteremo a Dio quella lode che, come ci dice la lettura profetica, cantano i celesti sonatori d’arpa: «Grandi e mirabili sono le tue opere, o Signore Dio onnipotente; giuste e veraci le tue vie, o Re delle genti. Chi non temerà, o Signore, e non glorificherà il tuo nome? Poiché tu solo sei santo. Tutte le genti verranno e si prostreranno dinanzi a te» (Ap 15,3-4).L’anima dovrà uscire anche per contemplare le tue nozze, o Gesù, nelle quali, al canto gioioso di tutti, la sposa è accompagnata dalla terra al cielo, non più soggetta al mondo, ma unita allo spirito: «A te viene ogni mortale» (Sal 64,3).Davide santo sospirò, più di ogni altro, di contemplare e vedere questo giorno. Infatti disse: «Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per gustare la dolcezza del Signore» (Sal 26,4).

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Archbishop Francesco Follo

Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi.

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