I religiosi, una risorsa educativa per il Paese

ROMA, sabato, 13 novembre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la relazione tenuta dal Cardinale Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova e Presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), intervenendo il 6 novembre scorso all’Assemblea generale della Conferenza Italiana Superiori Maggiori (Cism), che si è riunita a Segrate (MI) nel 50° anniversario della sua fondazione. 

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0. Una risorsa educativa per un compito urgente

Sono lieto di prendere la parola oggi in questa Assemblea nazionale della Conferenza Italiana dei Superiori Maggiori (CISM) che si interroga su “Vita religiosa in Italia: un progetto per il futuro”. Ciò avviene per felice coincidenza nel cinquantesimo anniversario della nascita di tale Assemblea nazionale che in questo decisivo periodo storico ha inteso valorizzare insieme i talenti e i carismi della vostra multiforme presenza nel nostro Paese. Saluto tutti con affetto, e ringrazio il Presidente, Don Alberto Lorenzelli, SDB, per il gentile invito.

Vorrei che avvertiste nella mia persona la stima e la gratitudine di tutto l’Episcopato Italiano: ben conosciamo e apprezziamo la presenza e l’opera dei Religiosi che sono da sempre un patrimonio per la Chiesa e per il Paese. Vorremmo che la considerazione della società ancora crescesse per il contributo sostanziale che i Religiosi e le Religiose hanno dato e continuano ad offrire, tanto più degno di nota quanto più grandi sono le difficoltà culturali, sociali, economiche dentro alle quali dovete operare. So bene che non cercate riconoscimenti o ricompense terrene – la gratuità evangelica è la cifra del vostro essere e agire – ma una società giusta richiede almeno la consapevolezza chiara di quanto ogni parte del corpo sociale porta di proprio, ma prima ancora d’amore e di dedizione, per partecipare alla costruzione di una civitas più umana. Proprio perché è consacrato a Dio nella Chiesa, ogni Religioso serve la causa di ogni uomo e della storia.

Come è noto gli Orientamenti pastorali per il prossimo decennio recano come titolo:”Educare alla vita buona del Vangelo”. Vorrei intrattenermi con voi proprio su quella che è oggi comunemente ritenuta una “emergenza” e che la vostra originale vocazione e pluriforme testimonianza mostra essere piuttosto una “urgenza” che ha il carattere della quotidianità e non tanto della straordinarietà (cfr. Lettera di Benedetto XVI sul compito urgente dell’educazione, 2008). Non a caso, nella Presentazione del documento, scrivo che: ”l’arte delicata e sublime dell’educazione” fa parte della “storia bimillenaria” della Chiesa, in “ un intreccio fecondo di evangelizzazione ed educazione”. Per poi aggiungere poco dopo: ”Siamo ben consapevoli delle energie profuse con tanta generosità nel campo dell’educazione da consacrati e laici, che testimoniano la passione educativa di Dio in ogni campo dell’esistenza umana”. Chi meglio di voi conosce per esperienza questo dato di fatto e in certo modo avverte con commozione le tante persone , tradizioni, istituzioni educative dei vostri Ordini e Congregazioni?! Gli Orientamenti ne danno atto esplicitamente al n. 45, laddove si sottolinea che la vita consacrata “rappresenta una risorsa educativa … e costituisce una testimonianza di vita per tutte le altre forme di vita cristiana”.

Oggi però sono qui non solo per fare memoria di una esperienza educativa che ha segnato indelebilmente la storia sociale, culturale e naturalmente religiosa dell’Italia; ma anche per cogliere insieme a voi le forme con cui essa – pur in un contesto socio-culturale profondamente cambiato e dentro ad una condizione ecclesiale altrettanto inedita – chiede di essere ripensata ed opportunamente rilanciata.

Vorrei dunque anzitutto soffermarmi sul nodo culturale e spirituale sotteso all’educazione, al punto da apparire una sfida persa in partenza. In un breve passaggio successivo dirò che l’atmosfera che si riesce a creare tra adulti e giovani è ciò che decide della loro educazione integrale. Quindi preciserò che l’atmosfera deve diventare un ambiente educativo, individuando due luoghi che chiedono di essere ripensati per la loro imprescindibilità oggi ancor più necessaria e cioè la Scuola e l’Oratorio. Essi costituiscono un paradigma esemplare per la Chiesa e per la società. Infine vorrei sottolineare come l’alleanza educativa tra la Chiesa e le più diverse agenzie sociali non è pensabile senza aver prima assicurato una più stretta sinergia all’interno stesso del mondo cattolico tra i Religiosi e le Chiese locali. Così da ribadire che il centro del percorso educativo sta nel risvegliare la domanda e ancor più il desiderio di Dio.

1. Il nodo culturale: non l’autonomia, ma l’io-tu-noi-Dio

La ragione di fondo per cui educare oggi è diventato difficile sta in “un falso concetto dell’autonomia dell’uomo”, che Benedetto XVI ha avuto cura di esemplificare in una sua sintetica riflessione nel contesto del suo discorso ai Vescovi italiani dello scorso maggio. Un passaggio di straordinaria incisività che il Papa ha aggiunto di suo pugno, vergando a penna alcune note nel retro di una delle pagine che stava leggendo dal suo discorso ufficiale e che gli Orientamenti non mancano di citare esplicitamente ai numeri 9 e 11, oltre che in appendice dove il testo papale è integralmente riproposto.

In che consiste tale falsa autonomia dell’uomo, che poi pregiudica la facilità e ancor prima la possibilità di educare? Benedetto XVI è netto: occorre superare quella falsa autonomia dell’uomo quasi che l’uomo sia «un “io” completo in se stesso, mentre diventa “io” anche nell’incontro collettivo con il “tu” e con il “noi”». Secondo l’errata visione dell’uomo assai in voga nella cultura dominante infatti «l’uomo dovrebbe svilupparsi solo da se stesso, senza imposizione da parte di altri, i quali potrebbero assistere il suo auto sviluppo, ma non entrare in questo sviluppo. In realtà, è essenziale per la persona umana il fatto che diventa se stessa solo dall’altro, l’ “io” diventa se stesso solo dal “tu” e dal “noi”, è creato per il dialogo, per la comunione sincronica e diacronica. E solo l’incontro con il “tu” e con il “noi” apre l’ ”io” a se stesso». Perciò «la cosiddetta educazione antiautoritaria non è educazione – conclude il Papa – , ma rinuncia all’educazione: così non viene dato quanto noi siamo debitori di dare agli altri, cioè questo “tu” e “noi” nel quale si apre l’ ”io” a se stesso».

E’ qui sotteso un nodo che è culturale, ma, a ben guardare, più profondamente spirituale. La visione unilaterale dell’autonomia dell’uomo significa concepirlo come una realtà “già fatta”, che non abbisogna di alcun compimento. Ma così dicendo, oltre a negare l’evidenza delle cose, si impedisce pure quello spazio della libertà e dell’amore che è condizione indispensabile per l’esperienza umana e soprattutto per l’educazione integrale. L’isolamento psicologico e culturale nel quale spesso oggi vive il giovane e l’adolescente è un pericoloso crinale che li rende più fragili e più esposti alla coercizione esterna. L’autorità in fondo rimanda a qualcosa che precede, e che comunque è “altro” rispetto al soggetto. Proprio questa priorità e tale precedenza viene destituita di qualsiasi fondamento allorquando si restringe il campo al solo individuo del tutto sganciato da qualsiasi relazione costitutiva. Ben altra è la concezione della persona che il cristianesimo ha introdotto nella cultura occidentale. Infatti “la persona non è il soggetto né l’individuo, non è l’anima né il corpo, non è pensiero né sentimento, ma si dà in tutte queste espressioni e dimensioni consentendoci di rilevare una duplice fondamentale istanza, che risulta particolarmente istruttiva per la questione educativa. Si tratta in primo luogo della irriducibilità della persona. In secondo luogo, si tratta della relazione che pure costituisce l’essere personale in maniera non meramente estrinseca o accessoria. Il genio di S. Tommaso d’Aquino, ispirandosi alle grandi formulazioni cristologiche e trinitarie, ha espresso questa realtà, consegnandocela nella f
ormula della relatio subsistens (cf S.T. I, q.29, a.4, in c.9). L’educazione dunque non crea la persona, ma la trova e la riconosce, ponendo una relazione – detta appunto relazione educativa (ricordo che a questo tema è dedicato non a caso tutto il III capitolo degli Orientamenti) – di autentico servizio all’uomo e alle donne cui è destinata. Ma ciò è possibile solo se coloro che sono chiamati ad educare possiedono il senso profondo della loro irriducibilità e capacità di relazione, sapendo cogliere anche nell’esperienza di educatori ulteriori possibilità di crescita e di maturazione per se stessi, oltre che per coloro cui è destinato il loro impegno” (cfr. BAGNASCO, A., Incontro con CL, Milano, 18.3.2010)

Accanto a questo nodo irrisolto dell’identità personale se ne fa strada un altro che il Papa nel già citato discorso ai Vescovi italiani introduce così:”Un’altra radice dell’emergenza educativa io la vedo nello scetticismo e nel relativismo o, con parole più semplici, nell’esclusione delle due fonti che orientano il cammino umano. La prima fonte dovrebbe essere la natura secondo la Rivelazione. Ma la natura viene considerata oggi come una cosa puramente meccanica, quindi che non contiene in sé alcun imperativo morale, alcun orientamento valoriale… La Rivelazione viene considerata o come momento dello sviluppo storico, quindi relativo come tutto lo sviluppo storico o culturale, o – si dice – forse c’è rivelazione, ma non comprende contenuti, solo motivazioni. E se tacciono queste due fonti, la natura e la Rivelazione, anche la terza fonte, la storia, non parla più, perché anche la storia diventa solo un agglomerato di decisioni culturali, occasionali, arbitrarie che non valgono per il presente e per il futuro”. In questo contesto, privo di riferimenti cogenti, si intuisce che non c’è più spazio per alcun appello educativo e si fanno strada solo la sfiducia e la rassegnazione, a cui però occorre reagire con un di più di passione educativa. La passione da ritrovare è precisamente quella per Dio, senza del quale l’uomo non sa più dove andare e soltanto grazie alla quale si dà una speranza affidabile (cfr. Spe salvi) che scommette sul futuro, non più avvertito come una oscura minaccia, ma come una luminosa promessa. Si comprende allora che l’educazione non è sganciata da questa apertura al “Tu” di Dio, risultando essere non una imposizione, ma una ricerca affascinante ed esigente che chiama in causa la libertà umana. La verità chiede per altro di essere cercata con amore, non si dona se non nell’amore che la rispetta e a lei si dona: ”Non intratur in veritatem nisi per caritatem”, esclama Sant’Agostino. Senza l’amore, infatti, è possibile costruire, con delle verità parziali, delle raffinate e devastanti menzogne. La storia ne è piena. Si tratta, dunque, dell’amore alla verità che chiede a colui che cerca la disponibilità ad arrendersi, ma anche dell’amore agli uomini, alla terra, per non piegare le verità parziali contro l’uomo. Proprio perché Dio illumina tutto l’uomo, nasce una cultura: l’approccio con il mistero di Dio dà così origine a un modo di vedere se stessi, gli altri, la vita e il mondo che, pur nelle diversità e tradizioni, possiede principi comuni che generano ethos, cultura e civiltà. Si comprende allora che l’educazione così intesa in senso integrale “non si risolve in una didattica, in un insieme di tecniche e nemmeno nella trasmissione di principi aridi. Educare è formare le nuove generazioni perché sappiano entrare in rapporto con il mondo, forti di una memoria significativa che non è solo occasionale, ma accresciuta dal linguaggio di Dio che troviamo nella natura e nella Rivelazione, di un patrimonio interiore condiviso della vera sapienza che, mentre riconosce il fine trascendente della vita, orienta il pensiero, gli affetti e il giudizio” (BENEDETTO XVI, Discorso ai vescovi italiani, 27 maggio 2010).

2. Un’educazione integrale passa attraverso un’atmosfera da creare

Occorre dunque intensificare per un verso la capacità di ascolto reciproco tra giovani ed adulti, superando l’afasia degli uni e l’indifferenza degli altri che stanno creando delle paratie stagne tra le diverse generazioni. Con effetti deleteri sugli uni e sugli altri. Sugli adulti sempre più rinchiusi nei loro ritmi vertiginosi e incapaci ormai di raccontare qualcosa di importante, limitandosi a fornire informazioni generiche e comunque non esigenti per il proprio vissuto. Sui giovani che sono sempre più sprovvisti di interlocutori in grado di orientare nel vortice delle possibilità che si moltiplicano per effetto anche della tecnologia. Solo all’interno di una rinnovata capacità e disponibilità di ascolto si può creare una nuova relazionalità tra le generazioni, in cui uno stile dialogico e persuasivo, possa far emergere dei riferimenti sicuri e affidabili. Del resto gli Orientamenti citano proprio la storia di santità per mostrare che c’è un capitale su cui investire per riscoprire la fisionomia integrale di una proposta di vita che coinvolge tutto l’uomo. “L’azione di questi grandi educatori – vi si legge al n. 34 – si fonda sulla convinzione che occorra ‘illuminare il cuore’ sull’intima percezione che ‘l’educazione è cosa del cuore, e che Dio solo ne è il padrone e noi non potremo riuscire a cosa alcuna, se Dio non ce ne mette in mano la chiave” E si aggiunge: ”Nell’opera dei grandi testimoni dell’educazione cristiana, secondo la genialità e la creatività di ciascuno, troviamo i tratti fondamentali dell’azione educativa: l’autorevolezza dell’educatore, la centralità della relazione personale, l’educazione coma atto di amore, una visione di fede che dà fondamento e orizzonte alla ricerca di senso dei giovani, la formazione integrale della persona, la corresponsabilità per la costruzione del bene comune”.

Ciò esige però da parte degli adulti un credito di fiducia che solo può far scattare l’attenzione dei giovani. Come annota Benedetto XVI nella citata Lettera: “L’educazione non può dunque fare a meno di quell’autorevolezza che rende credibile l’esercizio dell’autorità. Essa è frutto di esperienza e competenza, ma si acquista soprattutto con la coerenza della propria vita e con il coinvolgimento personale, espressione dell’amore vero. L’educatore è quindi un testimone della verità e del bene: certo, anch’egli è fragile e può mancare, ma cercherà sempre di nuovo di mettersi in sintonia con la sua missione”. Ci vogliono dunque adulti che non abbiano rinunciato per principio o di fatto a farsi carico degli altri, cioè che siano disposti a mettersi in gioco, dal momento che la trasmissione di ciò che è importante non avviene mai in modo asettico, ma sempre all’interno di un vissuto concreto. E’ proprio l’esperienza, d’altra parte, quel “di più” che può offrire al giovane, e che nasce come impasto reale tra i principi professati e la concretezza del quotidiano. Romani Guardini scriveva: “l’educatore deve aver ben chiaro al riguardo che la massima efficacia non viene da come egli parla, bensì da ciò che egli stesso è e fa. Questo crea l’atmosfera; e il fanciullo, che non riflette o riflette poco, è soprattutto ricettivo all’atmosfera. Si può dire che il primo fattore è ciò che l’educatore è; il secondo è ciò che l’educatore fa; solo il terzo, ciò che egli dice” (GUARDINI, R., Le età della vita, Milano, 1986, pag. 36). Nella misura in cui l’adulto accompagna un altro, è chiamato in causa lui stesso, chiamato in gioco proprio da coloro che ha il dovere di educare. Anche per questa ragione una società che trascura il compito educativo, in fondo, trascura se stessa; col tempo deraglia da sé.

L’atmosfera diventa un ambiente educante soprattutto in due esperienze che storicamente hanno modellato la presenza dei religiosi nella società, giocando spesso un ruolo da apri-pista nell’a
ffrontare condizioni socio-culturali e spirituali seriamente compromesse, in periodi caratterizzati da rapidi cambiamenti. Basterebbe pensare a quanto S. Giovanni Bosco ha realizzato nella periferia della Torino dell’Ottocento o ancor più indietro a cosa ha significato la scelta di S. Filippo Neri di avvicinarsi al mondo dei ragazzi nella Roma rinascimentale, distratta e dissipata. Vorrei dunque riflettere ancora un momento su questo specifico servizio educativo in luoghi concreti, per dare plausibilità alla convinzione che educare è possibile, anzi è necessario.

La scuola cattolica

Il servizio della scuola cattolica è oggi richiesto ancor di più da una società frantumata che cerca un ambiente educativo affidabile, confermando l’intuizione storica dei grandi fondatori di Ordini religiosi sulla necessità di avere concreti spazi in cui avviare l’integrazione tra fede e vita, per fare del Vangelo il decisivo punto di riferimento della crescita della persona e della sua formazione culturale. Questa possibilità è legata ad alcune condizioni che la comunità educante deve aver cura di garantire, anzitutto favorendo il rigore della ricerca culturale e della fondazione scientifica, quindi attraverso un adattamento e una certa gradualità ai diversi profili degli alunni e naturalmente mettendo in campo le opportune sinergie sia con il territorio che con la Chiesa locale. Ciò che deve caratterizzare un luogo come la scuola Cattolica deve essere precisamente il clima relazionale che si sa suscitare e che mette al centro dell’opera educativa il bene vero dell’alunno. Ciò esige ovviamente da parte del corpo docente una speciale attenzione a coltivare rapporti significativi, ma anche una sensibilità rivolta ad orientare l’insegnamento verso un completo sviluppo della persona. A ciò contribuisce senza dubbio un progetto educativo inteso a offrire una formazione culturale e una formazione professionale di base, e a promuovere negli alunni la consapevolezza che ogni onesta attività lavorativa e professionale è degna dell’uomo e utile alla società. La scuola cattolica è infatti impegnata a guidare gli alunni nella conoscenza di se stessi, delle proprie attitudini e delle proprie interiori risorse, per educarli a spendere la vita con senso di responsabilità, come risposta quotidiana all’appello di Dio. In un simile contesto, la scuola cattolica aprirà gli alunni a consapevoli scelte di vita: alla vocazione per una famiglia, alla vocazione al sacerdozio o alla speciale consacrazione, all’apostolato laicale, all’impegno professionale e sociale, in un fondamentale spirito di gratuità e di servizio (cfr. Orientamenti, nn. 46-50). Vorrei, però, insieme alla tensione relazionale, non tacere un’altra attenzione, quella squisitamente intellettuale. Non intendo rifermi tanto ai contenuti e alla epistemologia delle singole discipline di insegnamento, quanto, innanzitutto, della cura dell’intelligenza come capacità di indagare e di cogliere la verità. E’ noto a tutti quanto la post-modernità abbia una considerazione debole dell’intelligenza, tanto da negarne – poco o tanto – la possibilità di presa sulla realtà delle cose come sono in se stesse. Tutto viene, pertanto, consegnato all’opinione – soprattutto dei valori ideali e morali – e salvo poi, paradossalmente, enfatizzare in modo acritico l’esperienza e la conoscenza scientifica. Il Santo Padre ha da subito insistito nella necessità di allargare gli spazi della ragione, nel senso di non ridurre il suo uso alla conoscenza strumentale, bensì di ampliare i suoi confini anche sul versante contemplativo, riflessivo sul senso delle cose, del tempo, dell’uomo. Si tratta di far intravvedere e di iniziare i ragazzi e i giovani al gusto della ricerca e della verità non solo sul “come” degli enti, ma anche sul “perché” dell’essere. Perché questo sia possibile, è necessario – impresa non piccola – far rilevare l’insufficienza della categoria dell’ “utile” tanto diffusa e pesante nel costume odierno, per custodire e promuove la categorie del “vero”. Siamo consapevoli che nell’agone contemporaneo tra le due categorie, spesso l’utile ha la meglio proprio perché la verità richiede finezza interiore, paziente fatica, disponibilità alla rinuncia, umiltà per mettere in gioco se stessi e per lasciarsi giudicare da lei.

La presenza ormai diffusa di docenti laici accanto ai religiosi è oggi una necessità, ma ancor prima una possibilità che non deve far calare l’attenzione su alcuni requisiti indispensabili per chiunque voglia entrare a far parte di un tale progetto educativo. Occorrerà dunque che alla missione di chi fa scuola cattolica non manchi anzitutto una chiara ‘scelta di fede’, oltre che una esplicita disponibilità al ruolo educativo ed ovviamente una riconosciuta competenza professionale. La forza di una comunità educante che certo deve cimentarsi con una serie di difficoltà economiche e culturali che ben conosciamo, è data dal grado di coesione interna e dalla forza delle motivazioni che sorreggono l’impegno professionale ben oltre i limiti che sono dettati dal ruolo e dalla materia di insegnamento. Ma, innanzitutto, dalla passione per Cristo e per la Chiesa: è tenendo fermo la sguardo a Dio che si può guardare l’uomo e il mondo con verità e servirlo con amore. E’ guardando fisso la croce del Signore che si rinnova e si rafforza la passione educativa come forma vocazionale, e come risposta storica all’unico vero Maestro, Cristo. Se l’ambiente di una scuola cattolica non ha questo respiro specifico, se questo clima non si respira dalla cattedra, nei corridoi, nel tempo libero, nella parola, nel gesto, in una parola nello “stile” degli adulti dedicati, c’è da porsi qualche domanda. E questa “aria” buona che è riferimento al Signore sempre presente – non ultimo nella cappella dei nostri Istituti – non violenta nessuno ma fa grande bene a tutti, poiché il bene fa sempre bene, anche a chi – ragazzi o giovani – non ave fatto scelte religiose o le avesse fatte in modi diversi. A questo riguardo, non dobbiamo dimenticare che la concezione antropologica che deve sottendere ogni insegnamento è quella che anche persone non cristiane hanno riconosciuto e apprezzato nel suo universale valore: “Il mondo storico – scrive Karl Lovith, ebreo, allievo di Husserl e di Heidegger – in cui si è potuto formare il ‘pregiudizio’ che chiunque abbia un volto umano possieda come tale la dignità e il destino di essere uomo, non è originariamente il mondo (…) del Rinascimento, ma il mondo del Cristianesimo, in cui l’uomo ha ritrovato attraverso l’Uomo-Dio, Cristo, la sua posizione di fronte a sé e al prossimo. L’immagine che sola fa del’homo del mondo europeo un uomo, è sostanzialmente determinata dall’idea che il cristiano ha di sé, quale immagine di Dio (…) Questo riferimento storico (…) risulta indirettamente chiaro per il fatto che soltanto con l’affievolirsi del Cristianesimo è divenuta problematica anche l’umanità” ( Karl Lovith, Da Hegel a Nietzsche, Biblioteca Einaudi 1994. pag. 482).

In questo modo, le scuole cattoliche potranno essere spazi educativi paradigmatici per la chiesa e la stessa società civile, punti luminosi di riferimento nel deserto del non senso e nella proliferazione di proposte di basso profilo, senza contrapporsi alla scuola statale, ma costituendo una legittima alternativa che chiama in causa il diritto alla libertà di educazione.

4. L’oratorio

Si percepisce in giro – anch’io lo avverto nelle mie visite pastorali – una “voglia” di Oratorio, quasi ad esprimere il desiderio di un luogo preciso in cui dar vita ad un percorso possibile di educazione. Talvolta potrebbe essere semplicemente un modo con cui il mondo degli adulti sembra delegare ad uno spazio le proprie difficoltà di tempo e di motivazioni in ordine alla relazione intergenerazionale. Sta di fatto che in un periodo in cui sembra smarrirsi il genio e il gusto educativo, emerge prepotente l’esigenza
di un momento ben definito in cui dare appuntamento alle nuove generazioni. Comunque si interpreti il fenomeno, l’Oratorio dice infatti un luogo ‘dove trovarsi’, ‘conoscersi’, ‘far qualcosa insieme’, dove educarsi ai valori spirituali; un ambiente dove appartenersi e richiamarsi al di là dei luoghi istituzionali (casa, scuola, chiesa) o dei non-luoghi (strada, …); soprattutto evoca un luogo dove poter esprimere la propria condizione giovanile, il senso della vita, in una condizione di libertà cosciente, di spontaneità propositiva, di affermazione di sé. Sarebbe un errore sottovalutare questa richiesta confusa eppure forte, limitandosi a rieditare forme del passato oppure a proporre un Oratorio che si specializzi per alcune proposte, perdendo di vista l’integralità che deve segnare qualsiasi cammino educativo che sia cristianamente ispirato. Proprio perché l’Oratorio rappresenta un approdo rispetto alla deriva giovanile, bisognerà che la proposta sia pensata e compiutamente realizzata. Mi limito ad elencare quattro obiettivi che ritengo vitali per chi intende dare all’Oratorio una forma concreta e vivibile.

Il primo obiettivo è vivere la spiritualità come dimensione ordinaria della vita. Solo se c’è Dio infatti tutto ha senso, al contrario senza di Lui tutto deperisce. Perciò l’educazione alla spiritualità sta al centro ed orienta tutto il resto. E il centro di ogni centro è Cristo Signore! Per questo, è Lui il punto di partenza – non la fine della proposta! – e anche il punto di arrivo, nonché la bussola del percorso. L’annuncio kerigmatico oggi cattura solitamente più dall’inizio, perché è realmente il fascino esercitato dalla persona di Gesù a colpire per contrasto: magari come ragione di un evento che turba o come senso profondo di una testimonianza di vita che colpisce e sgomenta. Ma anche come reazione abissalmente altra rispetto al vuoto desolante, rispetto ai progetti di de-costruzione che passano per l’assunzione delle droghe o dell’alcool, per i riti dell’assordimento e dello stordimento. Cristo allora diventa come il risveglio inaudito ad una vita diversa, radicalmente altra, ideale subito concreto e pertinente, principio riordinatore di un’esistenza via via capace di altri sapori o di altri riti.

L’Oratorio poi deve essere immerso nella cultura e nella storia e non un’isola felice. Per cultura qui si intende “l’insieme delle forme di vita sociale portatrici di significati e plasmatrici di coscienza”; “è ciò per cui l’uomo in quanto uomo diventa più uomo”(GIOVANNI PAOLO II, 2.6.1980). Al riguardo “il Progetto culturale orientato in senso cristiano”, promosso dalla CEI, può offrire non pochi stimoli perché la dimensione culturale presente nel vissuto dei credenti sappia essere sempre più avvertita delle proprie radici, della ragionevole pertinenza della fede rispetto alle questioni vitali del tempo, della fiducia insomma in quell’allargamento degli spazi della razionalità, cui ci sollecita da tempo Benedetto XVI.

Ancora in Oratorio va curata l’apertura sociale, che è la parete mancante dell’humus culturale in cui si è immersi, aiutando a far crescere un senso di responsabilità per tutto ciò che attiene alla giustizia e al bene comune. Qui alcune attività della Caritas o del gruppo missionario possono aiutare molto per aprirsi in modo critico alla mondialità, superando quell’acquiescenza alla globalizzazione che rende tutti omologati, solo vicini e non prossimi.

Da ultimo, non può mancare la dimensione ludica che se non va assolutizzata, come di frequente accade, non va neanche minimizzata perché può rivelarsi una vera ‘scuola di vita’. Il gioco infatti svela la persona, istituisce legami di amicizia, apre alla fraternità, all’agonismo, all’accoglienza della diversità, al confronto oggettivo.

5. La sinergia tra religiosi e chiese locali in Italia sulla frontiera educativa

«Una particolare attenzione va riservata a quegli Istituti che per carisma specifico si dedicano espressamente a compiti educativi: “questo è uno dei doni più preziosi che le persone consacrate possono offrire anche oggi alla gioventù facendola oggetto di un servizio pedagogico ricco di amore”». Fin qui gli Orientamenti al n. 45, che è esplicitamente riferito al mondo dei religiosi e nel quale si esplicita una questione che è decisiva. Mi riferisco alla necessità di evitare compartimenti stagni tra Istituti e vita ecclesiale, percorrendo “ vie di più stretta collaborazione e intesa con le Chiese locali” (ibidem). Anzi, nel testo dell’Episcopato italiano si arriva a precisare che laddove «difficoltà vocazionali» od altre ragioni richiedono agli Istituti dei ridimensionamenti dell’opera tipicamente educativa, come scuole, oratori, centri giovanili, «è bene che ogni decisione in merito tenga conto di un dialogo previo e di una valutazione comune con la Chiesa locale interessata». Chiaramente vale anche per le Chiese locali considerare con stima , mantenere il dialogo e prestare aiuto e collaborazione con l’azione educativa dei religiosi nel territorio, elaborando e partecipando a iniziative comuni. Ciò che conta insomma è che non si lavori isolatamente l’uno dall’altro e che si condivida il cammino. A ciò si aggiunga un altro pensiero, avvertito come cruciale e che ritorna alla conclusione degli Orientamenti, classificato tra le” priorità” ritenute urgenti «al fine di dare impulso e forza al compito educativo delle nostre comunità» . Si auspica perciò di puntare nel decennio al “ rilancio della vocazione educativa degli Istituti di vita consacrata”, assieme alle “associazioni e movimenti” tante volte legati ad istituzioni religiose. E si fa una chiosa che merita attenzione e che dice certamente un tratto specifico del vostro potenziale educativo: “ Si tratta di riproporre la tradizione educativa” che è vostra, e lavorare in una pastorale integrata con le parrocchie ed altri soggetti ecclesiali , “in particolare negli ambiti di frontiera dell’educazione” (n. 55).

Concludo. Si è detto che l’educazione è una urgenza, ma anche una sfida che esige di essere raccolta. Ciò che è più necessario infatti è congedarsi definitivamente da quell’atmosfera diffusa, frutto di una mentalità e di una cultura precise, che portano a dubitare del valore della persona umana, del significato stesso della verità e del bene, in ultima analisi della bontà della vita. Chi non coglie che oggi “troppe incertezze e troppo dubbi…circolano nella nostra società e nella nostra cultura” per cui “diventa difficile così proporre alle nuove generazioni qualcosa di valido e di certo, delle regole di comportamento e degli obiettivi per i quali meriti di spendere la propria vita” (BENEDETTO XVI, Discorso per la consegna alla diocesi di Roma della Lettera sul compito urgente dell’educazione, 23 febbraio 2008)? Infatti, non è con i sogni declamati che si costruisce una società nuova e migliore, né con le requisitorie saccenti o le suggestioni vaghe quanto utopiche, ma con i percorsi educativi, con la serietà e l’assiduità delle proposte, con la testimonianza dei maestri, con la severità e lo sforzo diuturno che è proprio di ogni conquista. La vaghezza dell’impegno morale, la fragilità o la banalità di troppe proposte pseudo-educative certamente non permettono quell’urgente e positivo impegno dell’educazione che, quando viene meno, porta anche alla disaffezione verso la comunità e alle appartenenze deboli che ne derivano. Guai, tuttavia, a cedere al virus della sfiducia.

Occorre ritrovare dunque – come a me è parso di fare con voi quest’oggi – le ragioni per sperare al fine di ricreare le condizioni per educare perché – come sostiene Benedetto XVI – “alla radice della crisi dell’educazione c’è infatti una crisi di fiducia nella vita” (Lettera sul compito urgente di edu
care
). Più grande è la crisi educativa in cui ci troviamo, più grande dev’essere la speranza che vi pone rimedio. I cristiani dispongono della “grande speranza”, orientata a Dio e da Dio motivata. Essa è dono e impegno e attende di essere anche la causa risolutiva della questione educativa, oggi in grande difficoltà. “La speranza che si rivolge a Dio non è mai speranza solo per me, è sempre anche speranza per gli altri: non ci isola, ma ci rende solidali nel bene, ci stimola a educarci reciprocamente alla verità e all’amore (Lettera sul compito urgente di educare)”. Per questo nel consegnare la citata Lettera alla diocesi di Roma, il Papa concludeva: “Anche nel nostro tempo educare al bene è possibile, è una passione che dobbiamo portare nel cuore, è un’impresa comune alla quale ciascuno è chiamato a recare il proprio contributo”. Grazie.

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ZENIT Staff

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