I migranti, risorsa da premiare

Senza l’apporto lavorativo degli immigrati, non una singola azienda, ma l’azienda Italia nel suo insieme avrebbe conosciuto enormi difficoltà e rischierebbe autentici crolli di produttività

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Si parla molto di migranti in questi mesi, dalle cronache che ne raccontano il flusso continuo verso l’Italia e l’Europa, alle riflessioni sul fenomeno in atto, che spaziano dai rozzi pregiudizi di alcuni, pronti a considerare reato ogni arrivo di clandestino, al ventaglio di proposte per l’accoglienza e l’integrazione a medio e lungo termine, talvolta purtroppo solo teoriche, fino alla rincorsa a soluzioni tampone, che spesso restano le uniche a tempo indeterminato. Diventa perciò importante riflettere sulle dinamiche che il processo migratorio implica, da quella della provenienza dei migranti, e dunque delle cause che spingono intere masse umane ad abbandonare la propria terra, i propri affetti e le proprie per quanto povere certezze per andare verso un futuro in buona parte ignoto, a quella della destinazione, che aiuti a capire quali sono le mete perseguite da chi accetta il rischio dell’immigrazione clandestina, a quella delle possibilità d’inserimento e d’integrazione effettiva nei luoghi di arrivo.

I migranti verso l’Italia provengono oggi per la quasi totalità dall’Africa e dal Medio Oriente. Le ragioni che motivano la decisione – tutt’altro che facile – di emigrare, da una parte sono legate ai processi di disgregazione di ampi gruppi sociali e di interi Stati, come nel caso della Somalia, dell’Iraq, della Libia e dello Yemen, dall’altra sono spesso dovute a situazioni di guerra, ispirata a motivazioni etniche e religiose, o a crisi economiche pesanti e durature, come ad esempio in Nigeria, nel Mali, in Eritrea ed in Etiopia. La gravità dei fattori che entrano in gioco nello spingere uomini e donne di ogni età a rischiare tutto, pur di fuggire da simili contesti, rende difficile applicare in concreto la distinzione cui spesso si ricorre fra “rifugiato” e migrante “per ragioni economiche”. Appellarsi a questa differenza come a un criterio decisivo in ordine alle possibili espulsioni e ai rimpatri, rischia di esporre chi dovrà decidere a gravi ingiustizie e a discriminazioni insostenibili dal punto di vista morale. Un intervento preventivo nei Paesi di provenienza appare certamente più corretto, anche se per essere onesto ed efficace implicherebbe componenti politiche ed economiche di vasta portata e dai costi certamente elevati. Soprattutto, di una simile azione, che valica confini e responsabilità nazionali, dovrebbero farsi carico entità sovranazionali, quali le Nazioni Unite e la stessa Europa, la cui divisione e latitanza in materia appare sempre più grave.

Circa poi la destinazione reale dei flussi migratori non è difficile riconoscere che per tantissimi essa non è il Paese di prima accoglienza: molti dei migranti, in particolare quelli provenienti dal Medio Oriente, hanno parenti già inseriti in diverse società del Nord Europa o dell’America, tanto del Nord, quanto del Sud. È verosimile, dunque, che essi guardino all’Italia soltanto come a un Paese di transito, senza intenzione di stabilirvisi. La dimostrazione pratica di quest’asserto sta nel fatto che tanti di quelli che arrivano più o meno fortunosamente nel nostro Paese rifiutano di adempiere atti burocratici che li legherebbero allo Stato coinvolto nella prima accoglienza. Anche qui c’è nella legislazione europea un insieme di carenze che andrebbero colmate e di disposizioni che andrebbero modificate. L’impressione che l’Europa unita sta dando al mondo è quella di una sconcertante (e per vari aspetti perfino vergognosa) disunità, per cui ciascuno dei Paesi membro appare più preoccupato di “difendersi” dai migranti che di affrontare il fenomeno migrazioni in maniera organica e capace di tutelare e promuovere la dignità delle persone in gioco.

C’è, infine, da considerare l’effettiva possibilità di accoglienza e d’integrazione degli immigrati: una semplice considerazione economica, fatta anche da numerosi imprenditori, è che senza l’apporto del lavoro che gli immigrati svolgono, non una singola azienda, ma l’azienda Italia nel suo insieme avrebbe conosciuto enormi difficoltà e rischierebbe autentici crolli di produttività. Per dirla in altre parole, l’immigrato non è un peso o un pericolo, come viene definito da alcune delle più rozze fra le voci che gridano sulla scena politica, è spesso al contrario un’autentica risorsa, che andrebbe accolta con rispetto per la dignità delle persone e valorizzata per le capacità di contribuire alla crescita di tutti. La cecità di fronte al fenomeno migratorio tocca a volte vertici che, se non fossero drammatici, rasenterebbero il ridicolo: per limitarsi a un solo esempio, che è di estrema gravità, si potrebbe citare il caso del rifiuto della registrazione della dichiarazione di nascita in Italia dei figli di migranti privi di permesso di soggiorno! Su questo fatto c’è stato a lungo un assordante silenzio (con poche eccezioni, come ad esempio la raccomandazione proposta nel congresso del 2014 dalla Società Italiana di Medicina delle Migrazioni). Eppure, da diversi anni, nei rapporti firmati anche dalla Caritas Nazionale, il gruppo Convention on the Rights of the Child (CRC) segnala questo problema e ne raccomanda una soluzione a livello istituzionale. È vero che al presente la registrazione della dichiarazione di nascita è possibile a norma di una circolare del Ministero dell’Interno (n. 19 del 7 Agosto 2009), di cui  lo stesso gruppo a favore dei diritti dei bambini segnala però l’inadeguata diffusione. In Parlamento esistono proposte di legge che, se approvate, potrebbero risolvere la questione e che, però, pur affidate alle commissioni competenti, non vengono messe a calendario. Si può tollerare che l’esistenza giuridica di nuovi nati sia affidata a una circolare che, così come è stata emessa, potrebbe venir cancellata senza neppur informarne il Parlamento e che, comunque, crea dubbi negli uffici anagrafe? La domanda di chi si batte per una soluzione piena e dignitosa del problema diventa: perché impedire per legge a due genitori (o almeno a chi di loro riconosca quel bambino) di dire “questo è mio figlio”, che ha diritti uguali a ogni altro nato in questo Paese che si dice democratico? Anche su punti come questo la sfida delle migrazioni ci interpella tutti sulla pienezza e autenticità del nostro essere e volerci umani e sulle esigenze morali che nessuna coscienza retta dovrebbe ignorare.

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Fonte: Il Sole 24 Ore, domenica 28 giugno 2015, pp. 1 e 9.

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Bruno Forte

Arcivescovo di Chieti-Vasto

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