I due Santi Pontefici uniti nella missione alle genti (Seconda parte)

Il Concilio Vaticano II: “la Pentecoste della Chiesa”, il terremoto del ’68 e la crisi di fede in Occidente

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La novità fondamentale di Giovanni XXIII, il Papa di Sotto il Monte, per l’evangelizzazione di tutti i popoli e tutti gli uomini, è stata la convocazione del Concilio Ecumenico Vaticano II il 15 gennaio 1959, tre mesi dopo essere diventato Pontefice della Chiesa universale. Convocando il Concilio, Giovanni XXIII proponeva allo stesso tre fini:

1) il rinnovamento interno della Chiesa (“aggiornamento”),

2) la riunione di tutti i cristiani per mezzo dello Spirito Santo e di iniziative ecumeniche,

3) la manifestazione al mondo non cristiano di una Chiesa credibile che annunzia la “Buona Notizia” del Vangelo di Gesù Cristo, Salvatore di tutti gli uomini.

Nel volume “Missione senza se e senza ma” (Emi 2013, pagg. 255) spiego le difficoltà incontrate dall’Ad Gentes, dovute  alla diversa visione che avevano della missione ai non cristiani i vescovi che venivano dalle missioni e dall’America Latina (circa 800 su 2500) e gli altri; non c’è stato il tempo necessario per maturare bene l’Ad Gentes, che è un buon Decreto, ma incompleto e questo spiega perché Giovanni Paolo II, nel XXV° anniversario dell’Ad Gentes (1990), ha voluto pubblicare l’enciclica “Redemptoris Missio”, appunto per “aggiornare” e “contestualizzare” l’Ad Gentes ai tempi nuovi del mondo non cristiano.

Il Concilio è stato una meravigliosa esperienza di fede e di missione universale della Chiesa, aveva suscitato grandi speranze in tutti i credenti, ma specialmente nel mondo missionario.  Il Papa di Sotto il Monte aveva detto: Il Concilio sarà una nuova Pentecoste per la Chiesa”. Pareva quasi che il mondo intero fosse pronto a ricevere l’annunzio di Gesù Cristo  e mi veniva spesso in mente lo slogan col quale all’inizio del 1900 si era concluso il primo Congresso mondiale delle Chiese e società missionarie protestanti: “Convertire il mondo a Cristo entro il 2000”. A me la meta pareva plausibile, dato il volto trasparente e accogliente della Chiesa cattolica. Col Concilio Vaticano II, Giovanni XXIII e Paolo VI avevano reso la Chiesa tutta missionaria.

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La storia, com’è noto, è poi andata in senso diverso.  Quando finisce il Vaticano II (7 dicembre 1965), Paolo Vi pubblica, col Motu proprio “Ecclesiae Sanctae” (6 agosto 1966), le norme per applicare le decisioni conciliari alla vita quotidiana dei fedeli e di diocesi, parrocchie, istituti religiosi. Ma già nascevano convegni teologici, riviste specializzate (ad esempio “Concilium”) e pubblicistica ecclesiale che iniziavano la “fuga in avanti”  (o indietro?) non commentando, spiegando e invitando ad applicare i documenti del Concilio, ma ipotizzando cosa volevano realmente dire i Padri conciliari. Si scriveva che “lo spirito del Concilio” superava ampiamente i testi conciliari, troppo timidi e incompleti, per cui sorgevano “profeti” che dividevano il popolo cristiano parlando del “Concilio Vaticano III” che avrebbe dovuto completare il Vaticano II, ipotizzando forme nuove di vita cristiana e sacerdotale.

Nascevano comunità di credenti, con i loro sacerdoti, che vivevano “secondo lo spirito del Concilio” ma non obbedivano al vescovo ed erano motivo di divisione e di scandalo, amplificato dai mass media. Il post-Concilio incrocia il ’68, erano tempi di grande confusione, dubbi, incertezze: iniziava il periodo di crisi della fede e della vita cristiana di cui siamo ancor oggi testimoni addolorati, diminuiva la pratica religiosa, non pochi sacerdoti abbandonavano il sacerdozio, per sperimentare “un modo nuovo di essere prete”. Una certa teologia disincarnata dalla realtà minava le fondamenta dell’ideale missionario, come inteso dal Vaticano II.

La crisi dell’ideale missionario nell’Occidente cristiano, nata nella crisi di fede che squassava la Chiesa intera, ha preso tutti alla sprovvista e ha diviso profondamente le forze missionarie (istituti missionari, laicato missionario, riviste, animazione missionaria, ecc.). Un esempio significativo (ne ricordo tanti!). Nell’estate 1968, come già diverse volte in precedenza, ho partecipato alla Settimana di Studi missionari a Lovanio (“Liberté des Jeunes Eglises”), organizzata dall’indimenticabile amico gesuita padre Joseph Masson, docente di Missiologia della Gregoriana. Diverse voci non di missionari sul campo, ma di studiosi, teologi, missiologi mi ferivano, perchè esprimevano forti dubbi sul mandare missionari europei in altri continenti; molto meglio, si diceva, lasciare che le giovani Chiese raggiungano una loro maturità e si organizzino secondo le loro idee e culture. Pensavo: com’è possibile sostenere questa tesi, quando solo tre anni fa la totalità dei vescovi delle missioni si sono espressi in modo radicalmente opposto, chiedendo nuovi missionari? Conoscevo bene gli interventi dei vescovi missionari. Non uno aveva detto qualcosa di simile, anzi, con l’indipendenza dei loro paesi, sentivano la necessità di avere più forti legami con la sede di Pietro e le Chiese cattoliche antiche.

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E’ solo un esempio della mentalità che si è infiltrata e diffusa nella Chiesa in quel tempo post-conciliare. La crisi della “missio ad gentes” si è manifestata nella chiusura delle tre “Settimane di studi missionari” che si tenevano a Milano dal 1960 (esperienza chiusa nel 1969), a Burgos (1970) e a Lovanio (1975). Le ultime edizioni di questi incontri religioso-culturali di buon livello avevano reso evidente il malessere e tanti contrasti nel campo missionario, rimbalzati sulla stampa laica dei singoli paesi, che s’è creduto bene di non continuare, per non approfondire le divisioni.

Paolo VI aveva portato avanti e chiuso il Concilio, un evento straordinario che apriva orizzonti nuovi alla Chiesa; uomo colto, mite, umile, che aveva capito i tempi moderni, comunicava in modo comprensibile da tutti (si leggano i suoi documenti!) e con la sua prima enciclica “Ecclesiae Sanctae” (1964) indicava il dialogo col mondo (dare e ricevere) come metodo di annunzio del Vangelo nei tempi moderni.

Eppure, all’inizio degli anni ’70, dopo le contestazioni violente e sprezzanti (da parte di cattolici) seguite alla “Humanae Vitae” (1968), che l’avevano toccato nel vivo, di fronte al marasma di quei tempi era intimidito, si sentiva mancare le forze per reagire e riportare il gregge di Cristo a vivere secondo gli orientamenti dati dal Vaticano II. Avevo conosciuto bene e da vicino Paolo VI come arcivescovo di Milano e poi durante il Concilio e in alcuni suoi viaggi (India e Africa soprattutto). Negli anni ’70 era davvero un Uomo in Croce, dico sempre che è stato “il Papa Martire del Novecento”, tanto più che non pochi intellettuali e teologi, associazioni e gruppi ecclesiali, seguivano la travolgente onda culturale che portava verso il laicismo, il relativismo, la lettura “scientifica” della società (cioè il marxismo).

Nessuno più osava dire forte e chiaro che un “mondo nuovo” era possibile, ma solo a partire da Cristo. Paolo VI lo diceva, lo ripeteva, ma la sua voce era ascoltata solo dai semplici credenti e da coloro che venivano definiti “papalini” in senso negativo.

[La prima parte è stata pubblicata ieri, domenica 27 aprile 2014. La terza parte verrà pubblicata domani, mercoledì 29 aprile 2014]

Per informazioni e approfondimenti consultare l’indirizzo del sito ufficiale di padre Gheddo, missionario e giornalista: http://www.gheddopiero.it/ 

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Piero Gheddo

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