I cattolici e la politica (Terza parte)

I caratteri di una spiritualità politica cristianamente ispirata

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di padre Paolo Scarafoni, L.C.
Rettore della Università Europea di Roma 

ROMA, giovedì, 27 settembre 2012 (ZENIT.org).- La persona umana non è riducibile semplicemente ad una “pratica attività sensibile”, ma esiste in quanto soggetto che contiene in sé un’autonomia propria; ogni persona ha valore in sé stessa e non può essere considerata in alcun modo solamente come parte di un tutto, come hanno fatto le ideologie e le ingegnerie sociali.

Allo stesso tempo l’essere umano è un individuo-in-relazione (cioè “persona”). Le relazioni sociali sono ontologicamente costitutive della persona. Compito delle scienze sociali e politiche è analizzare i conflitti emergenti in queste relazioni e procedere alla civilizzazione dei conflitti stessi. Così, gradualmente, emerge con chiarezza che le relazioni hanno diritti che vanno al di là degli individui e necessitano di criteri etici per la governabilità, a cominciare dalla prima forma di società che è la famiglia, per poi comprendere la religione, la politica, l’economia e ogni altro tipo di associazione.

La società, formata dai due generi, è il risultato di riflessioni e azioni sia razionali che irrazionali e dalla volontà della politica di produrre decisioni e governabilità. La situazione strutturale della società si configura, quindi, sia di forme rispondenti al diritto, sia anche di strutture di peccato. C’è un dinamismo delle relazioni, molto più accelerato nelle circostanze storiche attuali, presente nella società, che sviluppa o regredisce la società stessa. È il costruirsi costante della nazione e dello stato e di forme organizzative mondiali. La globalizzazione è un fenomeno che ancora non è chiarito. Si auspica una qualche forma di governo mondiale che porti razionalità e diritto nella globalizzazione (cfr Caritas in veritate, cap. 5: “La collaborazione della famiglia umana”).

Sviluppo e progresso sono una vocazione della persona in quanto relazionale (Populorum progressio, Caritas in veritate). Per il progresso è indispensabile l’autonomia e la libertà, nella verità e nella relazionalità (nella Chiesa, tra i cattolici, e nella società intera). Se non c’è questo gli uomini si trasformano in mezzi per una certa idea di progresso che favorisce alcuni; e quindi vengono negate le libertà, e c’è l’asservimento di molti a pochi che conoscono tutto e decidono tutto. Sono caduti in questa tentazione perfino gli americani. Sono le così dette lobby e potentati economici e finanziari transnazionali che “possiedono le soluzioni per tutto”. Normalmente queste ideologie e organizzazioni interpretano le situazioni di sottosviluppo come necessità storiche e strutturali per i loro fini. Anche a livello sociale ora incolpano, per esempio, le aspirazioni delle classi popolari a dare ai propri figli l’opportunità di un livello più alto, come un errore storico contro le leggi economiche, che causa la difficoltà attuale del capitalismo nei paesi sviluppati. Si tratta di interpretazioni tendenziose. Caritas in veritate insiste sull’autonomia e la libertà come indispensabili per il progresso vero. Insiste sull’autonomia e sulla possibilità di organizzarsi in diversi modi nell’economia. Un’economia pervasa da una maggiore gratuità e con tempi più lenti accanto a quella dura e veloce del profitto. Che al meno non venga negata la possibilità di svilupparsi in un altro modo. Il progresso è una chiamata, una vocazione, che appunto richiama in gioco la responsabilità umana, l’impegno in prima persona; e non li elimina, come vorrebbero fare alcuni, che pretendono di avere la soluzione per tutti, e di fatto sfruttano gli altri e li usano come mezzi.

La tendenza all’unificazione del genere umano non deve significare un asservimento, una diminuzione della libertà e dell’autonomia. Abbiamo avuto esperienze molto negative, ma la tentazione continua ad essere forte con altri strumenti, specialmente con la comunicazione e l’appiattimento culturale, che sopprime perfino le espressioni autentiche della natura umana.

L’avvento del Cristianesimo nella storia riconosce che la dimensione del temporale ha bisogno della dimensione dello spirituale anche nella realizzazione dei fini cosiddetti “intermedi”, cioè aventi un valore autonomo in quanto tali e perciò denotabili come “fini infra valenti”. Hanno valore in quanto tali, non in funzione di altri valori, ma non sono assoluti (libertà di coscienza; la libertà religiosa è un fine assoluto). Nei fini infravalenti c’è l’amore, l’amorevolezza, la “pietà” (concetto sviluppato da Don Giuseppe De Luca nei suoi scritti). Dice la Gaudium et Spes in proposito al n. 38: “Coloro pertanto che credono alla carità divina, sono da lui resi certi che la strada della carità è aperta a tutti gli uomini e che gli sforzi intesi a realizzare la fraternità universale non sono vani”. Questi fini infravalenti, specialmente la carità nel suo senso di amore diffuso e presente in tante persone, costituiscono il tessuto sociale di base per lo sviluppo. Cioè essi sono la configurazione del modo di essere e di vivere della popolazione. Possiamo anche dire che sono il fondamento dello “sviluppo integrale” al quale è chiamato l’uomo nel suo intimo. Queste riflessioni sono molto importanti per comprendere che per la crescita e lo sviluppo della società, i cristiani possono apportare e promuovere tanti valori fondamentali condivisi con tante altre persone. Nella pratica ciò significa che per lo sviluppo sociale ed economico non si tratta di far intervenire la Chiesa come istituzione che persegue come suo scopo proprio i fini assoluti; è indispensabile invece fare riferimento ai così detti fini infravalenti, da perseguire di per sé, ma non necessariamente obbligatori, ovvero riferirsi a quelle caratteristiche positive che costituiscono la relazionalità sociale. E non soltanto questo. Significa soprattutto che non vengono perseguiti soltanto fini propri di benessere e di felicità, ma il bene comune, che richiede di promuovere ciò che favorisce tutti, e che potrebbe non essere immediatamente favorevole al singolo. Il bene e la felicità di ciascuno, non è realmente possibile, se non iscritta nel bene comune. Esso va cercato e perseguito apposta e intenzionalmente. Così si esprime Caritas in veritate, n. 7: “Accanto al bene individuale c’è un bene legato al vivere sociale delle persone: il bene comune. È il bene di quel ‘noi tutti’, formato da individui, famiglie e gruppi intermedi che si uniscono in comunità sociale. Non è un bene ricercato per se stesso, ma per le persone che fanno parte della comunità sociale e che solo in essa possono realmente e più efficacemente conseguire il loro bene. Volere il bene comune e adoperarsi per esso è esigenza di giustizia e di carità. Impegnarsi per il bene comune è prendersi cura, da una parte, e avvalersi, dall’altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale, che in tal modo prende forma di polis, di città”.

[La quarta ed ultima parte verrà pubblicata giovedì 4 ottobre. La seconda parte è stata pubblicata giovedì 20 settembre]

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ZENIT Staff

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