Gli interrogativi del fine vita

Dibattito-incontro presso la sede della Civiltà Cattolica

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di Luca Marcolivio

ROMA, domenica, 16 ottobre 2011 (ZENIT.org) – Mentre in parlamento l’iter per la legge su fine-vita è ancora lontano dalla conclusione, prosegue il dibattito sul piano etico e scientifico. Se ne è parlato ieri sera in un incontro presso la sede di Civiltà Cattolica, dal titolo Gli interrogativi del fine vita, moderato da padre Antonio Spadaro SJ, direttore della rivista dei gesuiti.

Come evidenziato nell’esperienza di padre Francesco Occhetta SJ, scrittore di Civiltà Cattolica, il concetto di dignità del malato negli ultimi tempi della sua vita, si presta spesso a notevoli preconcetti, che la realtà dei fatti tende quasi sempre a smentire.

“Quand’ero missionario nel deserto di Atacama, in Cile – ha raccontato padre Occhetta – il parroco mi mandò a celebrare il funerale di un’anziana donna, morta dopo essere stata a lungo malata terminale: non aveva parenti in vita e immaginammo alle esequie avremmo trovato pochissime persone, forse  nessuna”.

“Con mia grande sorpresa – ha proseguito padre Occhetta – mi ritrovai in una chiesa così piena di gente che pensai di aver sbagliato parrocchia. Allora, non conoscendo la defunta, chiesi a qualcuno dei presenti di omaggiarla con un breve discorso: emerse il ricordo di una persona generosa che era rimasta nel cuore della gente”.

“Questo aneddoto – ha osservato il padre gesuita – mi ha fatto riflettere su un fatto: si vive nel cuore degli altri non per l’onnipotenza ma per la finitezza. E mi sono chiesto: quando si muore, chi è che muore veramente e chi, in realtà, vive ancora?”.

Padre Occhetta ha poi sottolineato il più grande paradosso della medicina contemporanea: “Da un lato abbiamo permesso che la tecnica medica allungasse il più possibile la vita, dall’altro pretendiamo di mettere fine alla vita, attraverso la stessa tecnica”.

I progressi farmacologici, inoltre, hanno cambiato notevolmente il rapporto medico-paziente e ridimensionato l’autorevolezza della figura del medico. “Un tempo – ha proseguito Occhetta – era quest’ultimo a decidere per il paziente, oggi prevale l’alleanza terapeutica”.

Si assiste quindi alla “contrattualizzazione” e alla “giuridicizzazione” del rapporto medico-paziente, da cui scaturiscono le assicurazioni sanitarie sempre più costose e i ricorsi legali. La volontà del paziente diventa sempre più vincolante.

Il progetto di legge, approvato in Senato e attualmente dibattuto alla Camera, è coerente con il principio di alleanza terapeutica ma salvaguarda una certa autonomia del medico, il quale, “non è vincolato a rispettare le volontà formalizzate dal paziente: per questo il progetto di legge italiano ha a che vedere con le dichiarazioni anticipate di trattamento (DAT) e non con il testamento biologico”. Se il medico ignora la volontà del paziente è però obbligato a motivare la sua scelta.

In altri paesi europei, Inghilterra e Spagna in particolare, il medico ha molta meno libertà e in caso di mancato rispetto della volontà del paziente rischia il processo e la sanzione. Il paese più “libertario” sul fine-vita è la Svizzera, dove eutanasia passiva e suicidio assistito sono consentite anche a cittadini stranieri.

È seguito l’intervento della professoressa Maria Grazia Marciani, ordinaria di neurologia all’Università di Tor Vergata, che ha ricordato che una legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento è resa necessaria dal dettato costituzionale (artt. 1-2-3) e deve articolarsi su alleanza terapeutica e consenso informato. “L’autonomia del paziente – ha osservato la professoressa Marciani – è un’autonomia relazionale, così come sottolineato dal Consiglio Nazionale di Bioetica”.

L’approvazione di una legge sul fine-vita, tuttavia, è resa estremamente complessa dal subentrare di innumerevoli fattori emotivi, affettivi e psicologici, a partire dalla “solitudine del medico che deve prendere una decisione e dalla solitudine del paziente che non può manifestare la sua volontà”.

Determinanti anche sono variabili psico-sociali come “l’aumento dell’età media della popolazione e, contemporaneamente, la perdita del significato della sofferenza, la paura di confrontarsi con la morte, proprio perché della morte non si percepisce più il senso”.

Rimangono poi i dilemmi legati all’accanimento terapeutico, vietato dal pdl sul fine vita e condannato anche dal magistero cattolico, il cui confine è sempre difficilmente decifrabile, mentre non ci sono dubbi sul dovere di cura del paziente fino agli ultimi istanti.

Per cura si intende l’obbligo all’alimentazione e all’idratazione, mentre diverso è il concetto di terapia che è lecito sospendere quando diventi controproducente o troppo invasiva.

L’idratazione, in particolare, è probabilmente l’aspetto più delicato della questione, in quanto la sua sospensione, di fatto comporta sofferenze ancora più atroci per il morente: è infatti noto che Eluana Englaro fosse stata sedata prima di essere sottoposta ad eutanasia passiva.

Nelle sue considerazioni finali padre Antonio Spadaro SJ, ha sottolineato che “il corretto modello relazionale medico-paziente ci ricorda che non è solo una questione di tecnica” mentre è il progresso della tecnica stessa ad “allargare il divario tra la vita e la morte”.

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ZENIT Staff

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