Gli immigrati e il loro rapporto con Dio

Don Pierpaolo Felicolo racconta la sua esperienza con l’Ufficio Migrantes di Roma

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di H. Sergio Mora

ROMA, lunedì, 16 gennaio 2011 (ZENIT.org) – La pastorale dei migranti riprende l’esperienza dell’immigrazione italiana all’estero quando i cappellani assistevano i concittadini in altri Paesi. La carità quotidiana nasce dell’eucaristia e le comunità si fanno parte attiva di questa carità. E oggi gli immigrati diventano promotori dell’evangelizzazione non solo con gli altri immigrati, ma anche con gli italiani.

Lo ha detto, in un’intervista a Zenit, monsignor Pierpaolo Felicolo, direttore dell’Ufficio Migrantes della diocesi di Roma, dopo la messa nella chiesa di Santo Spirito in Sassia con le diverse comunità straniere residenti in questa città, in occasione della 98° Giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato.

Come si svolge nel quotidiano la pastorale dei migranti?

Don Felicolo: La pastorale dei migranti si svolge a Roma e nelle grandi città seguendo le direttive della Fondazione Migrantes della CEI. È stata acquisita in base anche all’esperienza dell’immigrazione italiana all’estero, e della costituzione delle comunità cattoliche all’estero.

Come lavorate nella capitale?

Don Felicolo: Abbiamo più di 46 comunità con più di 150 centri a Roma, dove si cerca di vivere accanto agli immigranti nella loro quotidianità. La Migrantes di Roma si occupa principalmente dei cattolici, quindi creiamo queste comunità. I romeni hanno alcuni centri, i filippini, con la missione Santa Prudenziana, hanno 46 centri, i latinoamericani ne hanno 20, che dipendono della chiesa Santa Maria della Luce.
 

E nella fattispecie?

Don Felicolo: Innanzitutto celebrando l’eucaristia secondo la tradizione di ogni comunità, con i canti nella lingua della nazione della quale proviene.

Perché la forma è anche importante dinanzi a un messaggio come il cristiano?

Don Felicolo: Per me andare all’estero e pregare in italiano o in un’altra lingua non è la stessa cosa. E nella prima generazione questo è chiaro ed evidente, un’esperienza assodata. Per la seconda generazione le cose cambiano: vedo, ad esempio, i bambini filippini che sono più integrati, parlano nella mia lingua, nel mio dialetto romano, come me. Non è così, tuttavia, per i genitori. Quindi è importante pregare e incontrare il Signore nella propria lingua.
Oggi, qui a Santo Spirito in Sassia abbiamo fatto una piccola festa dei popoli molto bella; a maggio c’è quella in grande stile a piazza San Giovanni in Laterano, con tutte le lingue e i canti del mondo. Questo è bello perché nella Chiesa “nessuno è straniero, né la Chiesa è straniera a nessuno”: non è uno slogan, lo viviamo concretamente. Dall’eucaristia partono la carità, l’impegno, l’evangelizzazione, come in ogni parrocchia romana.

Quindi i migranti sono anche evangelizzatori?

Don Felicolo: Gli immigranti si fanno promotori dell’evangelizzazione con gli altri immigranti ma anche con gli italiani: penso alle badanti di paesi come l’Ucraina o la Romania. Accompagnano tanti anziani italiani in questo momento della loro vita, evangelizzano e li sostengono nell’incontro con il Signore: questa testimonianza è preziosissima. Inoltre evangelizzano nelle loro comunità.
 

Lei ha detto che il modello era ispirato a quello degli italiani all’estero.

Don Felicolo: Questa sera in chiesa abbiamo ricordato anche il beato Giovanni Battista Scalabrini, vescovo fondatore degli scalabriniani. Lui ebbe l’intuizione di dire: io sono il vescovo di Piacenza, i miei fedeli che vanno (alla fine dell’‘800 e inizio del 900) in America, negli Stati Uniti, in Canada, in Brasile, appartengono la mia diocesi, come mi prendo cura di loro?
Pensiamo a un siciliano che si trovava a pregare nelle chiese americane con i canti gospel: a me piacciono tantissimo, però non era la stessa cosa per il siciliano abituato a pregare con la processione di Santa Rosa e in dialetto, nella propria lingua. Quindi c’era l’impegno per farli incontrare tra di loro, di aiutarti all’inizio per superare le difficoltà, dovute all’impatto con lingua, tradizioni e usanze diverse.

Soltanto in America?

Don Felicolo: No, ovunque, e questo è importantissimo. Penso al lavoro che i cappellani e i padri scalabriniani hanno svolto nei secoli, dopo la seconda guerra mondiale, in Svizzera, in Germania e in Belgio, a quanto hanno fatto i cappellani per aiutare ovunque gli italiani. È stato importantissimo nella storia dell’immigrazione italiana e oggi è utile comprendere quanto sia stato utile nel mantenimento della fede di tanti italiani.

E in Italia?

Don Felicolo: Oggi abbiamo la responsabilità di una Chiesa che accoglie e allo stesso tempo, con gli stessi strumenti, dobbiamo aiutare i migranti che vengono qui. I filippini, ad esempio, non devono perdere la fede, anzi devono aiutare evangelizzare i loro connazionali anche a Roma. Dobbiamo mantenere vive queste comunità, con i loro leader, con i catechisti, con gente che si forma, sia che ritornino o non ritornano in patria, educarli alla fede, all’annuncio, alla testimonianza. Quindi la Chiesa di Roma che ospita, ha questa responsabilità.

Una responsabiltà non piccola…

Don Felicolo: No, una grande responsabilità, anche perché c’è l’incontro di due Chiese, quella che viene in quella che ospita, è l’incontro di due sensibilità, noi attenti a loro e loro attenti a noi: al nostro programma diocesano e noi alle loro tradizioni e alle loro culture. È un lavoro prezioso è bello, molto bello e non mi stancherò di dirlo.
 

Con quali attività?

Don Felicolo. La carità quotidiana nasce dell’eucaristia e le comunità si fanno portatrici di questa carità. Ogni primo sabato del mese, andiamo al carcere di Regina Coeli, facciamo attività con i carcerati, ma anche con i rumeni e gli altri. E negli ospedali – penso alla comunità cinese e a quella ucraina – accompagno le persone che stanno male; penso a chi perde il lavoro e l’orientamento per trovarne un altro. E poi allo sportello, incontri tante comunità, perché gli emigranti si trascurano pur di lavorare. E allora va prestata attenzione alla salute, alla dignità della persona in primo luogo. Sono tanti i modi in cui si opera la carità che nasce dalla eucarestia nella comunità.

Che Chiesa trovano, i migranti che vengono da noi?

Don Felicolo: Anche qui penso alla comunità latinoamericana, della quale chi arriva, può lasciare le proprie valige in una stanza che mi ha mostrato il padre Guidolin. I bagagli rappresentano tutto l’universo dei migranti, ci sono tutti i loro averi. È un’immagine semplice ma efficace. Se perdo l’agenda, dove sono i contatti, dove li metto? Sto tranquillo che stanno lì. Magari mi informo dove stanno questi centri prima di partire con gli amici in rete. I filippini hanno una rete di aiuto impressionante.

La maggioranza dei migranti è composta da cristiani?

Don Felicolo: Sì. In particolare con le comunità romena ed ortodossa, l’ecumenismo con gli ortodossi è molto attivo. Ci si aiuta, ci si sostiene nelle varie necessità. C’è un ecumenismo di base che aiuta molto l’ecumenismo in generale.

E con i non cristiani?

Don Felicolo: L’aspetto caritativo corrisponde più alla Caritas, che dà sostegno a tutti.

 
Il problemi degli immigranti quali sono?

Don Felicolo: Il primo problema è quello di imparare la lingua. Poi il lavoro, la famiglia, la speranza di ricongiungimento famigliare. Dal punto di vista spirituale il migrante si deve confrontare con un società dove la secolarizzazione è forte e questo influisce su di loro perché loro sono abituati a vivere la fede in maniera diversa. Ecco qui
il nostro lavoro: creare delle comunità come un luogo dove esprimere la fede tutti insieme e qui ritrovare l’orientamento per la vita di tutti i giorni.

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ZENIT Staff

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