Gli esordi della devozione mariana a Roma

Una visita alla chiesa di Santa Maria Antiqua al Foro Romano

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di Paolo Lorizzo*

ROMA, sabato, 26 maggio 2012 (ZENIT.org).- Nella metà del VI secolo il declino di Roma era ormai irreversibile. Un pallido tentativo di rivitalizzare un’epoca di pura decadenza fu fatto dall’imperatore Teodorico tra il 493 e il 526 attraverso un nuovo impulso all’edilizia urbana stimolando però soltanto il ripristino di edifici già esistenti. L’area del Foro Romano, messa in ginocchio dai saccheggi e dalle distruzioni delle popolazioni barbariche soprattutto ad opera di Alarico nel 410 e di Genserico nel 455, tenta di sopravvivere nel momento in cui il medioevo raccoglie la difficile eredità dell’età tardo-antica.

In questo contesto nascono nell’area che per svariati secoli ha rappresentato il cuore pulsante dell’Impero Romano, due chiese che tutt’oggi rappresentano il cardine della cristianità romana: SS. Cosma e Damiano, situata lungo l’attuale via dei fori Imperiali all’altezza di via Cavour e Santa Maria Antiqua, posizionata presso le pendici nord-occidentali del palatino.

S. Maria Antiqua è indubbiamente l’edificio di culto cristiano più importante del Foro Romano e rappresenta uno dei primi edifici a Roma dedicati alla Madonna. Il suo contesto storico è estremamente complesso. In origine si riteneva fosse stata costruita sopra le rovine del tempio di Augusto ma con il progredire degli studi e delle indagini si è scoperto che in realtà le fondazioni dell’edificio fanno parte di un vestibolo monumentale pertinente alla domus o residenza palatina costruito all’epoca dell’imperatore Domiziano (81-96 d.C.), ad essa collegata mediante una rampa coperta tutt’ora visibile. L’intero contesto era circondato da botteghe e dalle caserme per lo stanziamento dei pretoriani di guardia al palazzo imperiale, settori che avevano perso la loro originaria funzione quando venne costruita la chiesa.

Il suo nucleo centrale si stanzia esattamente in corrispondenza dell’area ‘quadriporticata’ (un cortile centrale con quattro portici ai lati) che si adattava perfettamente alla divisione in triplice navata, mentre l’ambiente alle sue spalle venne diviso ed utilizzato come presbiterio nella parte centrale e come cappelle di fondo delle navate laterali. Per circa tre secoli l’edificio fu internamente decorato da splendidi cicli pittorici che ad oggi rappresentano un unicum della pittura parietale di epoca medievale, ancora quasi interamente visibili (circa 250 mq di superficie parietale). Della fondazione restano soltanto poche tracce pavimentali in opus alexandrinus (tecnica decorativa che combina l’uso di frammenti di marmo colorato con il mosaico) e il famoso ‘Palinsesto’, il ciclo pittorico posizionato lungo la parete a destra dell’abside e consta di ben sei strati pittorici il più antico dei quali rappresenta la Madonna in Trono adorata da un Angelo.

La navata centrale e molte aree del presbiterio furono decorate tra il 649 e il 653 sotto papa Martino I, il pontefice che si oppose all’imperatore Costante II e per questo venne dapprima esiliato e poi martirizzato. Il secondo ciclo pittorico è legato a papa Giovanni VII, colui il quale ricoprì di affreschi gran parte degli spazi interni, soprattutto il presbiterio e la cappella cosiddetta dei Santi Medici. Questa intensa attività pittorica fu fortemente voluta dal pontefice perché nato e cresciuto sul palatino, a poca distanza dall’edificio. Tra il 741 e il 752 venne realizzato il grande ciclo pittorico ordinato da papa Zaccaria, con la decorazione della Cappella di Teodoto, un nobile romano alla corte di Francia per conto del papa, donatore degli affreschi. L’ultima fase pittorica in ordine cronologico risale all’epoca di papa Paolo I tra il 757 e il 767 che si concentra lungo le pareti delle navate laterali e precede di qualche anno alcuni interventi di papa Adriano I. Nell’847 un terremoto fa crollare alcune porzioni parietali del Palatino che sommergono l’edificio e lo preservano come una ‘piccola Pompei’ da saccheggi e sovrapposizioni. L’edificio venne abbandonato e il titulo venne trasferito nei pressi del tempio di Venere e Roma con il nome di S. Maria Nova.

Nel corso dei secoli il complesso di S. Maria Antiqua venne completamente dimenticato e sulle sue rovine obliterate dai crolli e dalla stratigrafia venne edificata nel 1617 la chiesa di S. Maria Liberatrice, il cui titulo venne trasferito, insieme ad alcuni arredi, agli inizi del ‘900 nel quartiere Testaccio. Sfortunatamente gli ‘scavi’ dell’epoca (sarebbe più dignitoso chiamarli ‘sterri’ vista la quasi totale mancanza di documentazione scientifica prodotta), oltre a riportare in luce gli affreschi e poco altro materiale archeologico, hanno causato il rapido deterioramento degli stessi. Trascorsero infatti quasi dieci anni prima della realizzazione della copertura per la protezione del prezioso materiale pittorico ed anzi il forte degrado costrinse in varie occasioni lo ‘stacco’ di quasi il 12% degli intonaci dalla loro originale collocazione, trasferendoli in moderni supporti.

Oggi la chiesa, chiusa al pubblico per cronici restauri conservativi, resta accessibile quasi esclusivamente a studiosi e restauratori, gli unici fortunati a godersi quelle mistiche atmosfere che soltanto un edificio paleocristiano è in grado di far vivere.

* Paolo Lorizzo è laureato in Studi Orientali e specializzato in Egittologia presso l’Università degli Studi di Roma de ‘La Sapienza’. Esercita la professione di archeologo.

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ZENIT Staff

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