"Giustizia relativa e pena assoluta", di Silvia Cecchi

E quel “principio femminile” nella teoria e prassi dell’azione penale

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di Antonio D’Angiò

ROMA, sabato, 17 novembre 2012 (ZENIT.org).- “Chiudo in me versi mai scritti / melodie mai salite a un suono, intuite / nel sogno e subito obliate alla soglia / della prima luce del giorno, / parole di dolcissimo amore, / formule chimiche, sentenze capitali”.

Questi versi sono ripresi dalla poesia “Anonimo femminile” di Silvia Cecchi (*).

L’autrice, pesarese, oltre ad essere scrittrice di raccolte poetiche e testi narrativi è anche compositrice (diplomata in pianoforte) di testi di azione lirica. Vogliamo partire da questa spiccata sensibilità artistica per introdurre un suo saggio legato all’attività professionale, che è quella di magistrato nella città marchigiana e a quelle “sentenze capitali” che rimandano ai suoi versi.

L’occasione di riprendere il testo “Giustizia relativa e pena assoluta”, pubblicato nel giugno 2011 a cura di Liberilibri, ci è fornita dal delicato elzeviro di Claudio Magris sul Corriere della Sera di giovedì 1 novembre intitolato “Scrivere in prigione per non essere letti”. Lo scrittore triestino racconta di quanto gli ha riferito un detenuto durante una conferenza in un penitenziario: “Scriviamo (…) per avere almeno una cosa che sia nostra, solo nostra, sottratta al controllo che fa passare ogni pezzo della nostra vita e della nostra realtà ai raggi X.”

Il libro di Silvia Cecchi scandaglia la relazione esistente, da una parte, tra la responsabilità penale e il reato e, dall’altra, la sanzione carceraria. In particolare tra la nozione di responsabilità penale, che si può ritenere “relativa” perché afferisce al singolo atto, e invece la pena carceraria che diviene di tipo assoluto, perché coinvolge la totalità dell’essere condannato. Arrivando poi ai concetti di reato e di pena ed al rapporto col tema etico del male.

In particolare l’autrice pone il lettore di fronte alla riflessione di come oggi possa essere comminata una pena carceraria in maniera indistinta sia per reati dolosi che colposi, siano essi delitti di sangue o finanziari o di opinione, in cui l’unica forma di differenziazione consiste nella diversa durata. Pena carceraria che affligge non solo l’anima e il corpo del detenuto ma che devasta anche quella dei suoi familiari.

E’ un testo ben strutturato che facilita la lettura, in cui gli elementi più scientifici del diritto si miscelano con le esperienze personali dell’autrice, dove tutta la corposa parte delle note è separata dal testo centrale dell’opera (pagg. 178, € 16) ed in cui la postfazione è curata dal filosofo Vittorio Mathieu; ma è il capitolo intitolato “il reato e il male: indagine ulteriore sulla nozione di responsabilità” quello in cui trovano sintesi anche una serie di elementi di natura letteraria, personale, filosofico-religiosa, antropologica.

La radicalità e la banalità del male (da Kant a Arendt), l’Antigone di Sofocle e Il Grande Inquisitore di Dostoevskij e poi quel drammatico dialogo sulla responsabilità umana nel male, del teologo e filosofo israeliano André Neher; alla domanda “Dov’era Dio ad Auschwitz?” Neher risponde: “Dov’era l’uomo? Perché ha taciuto? Perché non è intervenuto?” Sono tratti di grande forza evocativa e apparentemente irrisolvibili che, improvvisamente, sembrano trovare una luce di speranza nell’idea di  “principio femminile” del diritto.

In questa teoria del “principio femminile”, che Silvia Cecchi fa sua e interpreta dedicando una ampia sezione delle note al pensiero del filosofo don Italo Mancini (del quale ai primi di gennaio del 2013 si celebrerà il ventennale della scomparsa), si trovano descritti i suoi elementi fondanti: “il primato della pietas sulla majestas; l’istanza della concretezza a correttivo dei principi di astrattezza e generalità del diritto; l’essere custode di una giustizia non scritta di matrice naturale e divina; la coincidenza, nella donna, di giustizia ed eticità; la vocazione femminile alla pace.”

Così, l’autrice, ha anche modo di ripercorrere criticamente una sua risposta, d’istinto e per inesperienza giuridica, al procuratore che gli chiedeva: “Una moglie che si vede arrestare il marito per un grave delitto, secondo te deve lasciarlo oppure no?”. La Cecchi rispose di sì ma, dice ora, non farebbe così o almeno non lo affermerebbe con la stessa assolutezza provando a distinguere caso per caso.

Perché la donna, scrive Silvia Cecchi, “sa, e lo sa per una sorta di sapienzialità femminile, che la persona a cui continua a rivolgere il proprio affetto non è esattamente la stessa a cui la giustizia rivolge doverosamente la propria risposta sanzionatoria, ma una persona che quell’altra eccede”.

NOTE

(*) Il testo completo è disponibile sul sito internet www.prourbino.it, nel quadro poesia di Silvestro Castellani.

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ZENIT Staff

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