Giustizia, carità e diritto (Seconda parte)

Relazione della professoressa Cabiddu all’ultimo Convegno annuale della Fondazione Centesimus annus – Pro Pontifice

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Pubblichiamo oggi la seconda parte della relazione tenuta dalla professoressa Maria Agostina Cabiddu, dell’Università Cattolica di Milano, all’ultimo Convegno annuale della Fondazione Centesimus annus – Pro Pontifice, che si è svolto dal 19 al 20 ottobre scorsi a Cuneo ed era dedicato al tema “La giustizia è la prima via della carità” (Caritas in Veritate n. 6). 

***

2. Il punto è che la storia della modernità (europea) sembra caratterizzarsi, sotto il

profilo che qui interessa, per quella che una grande filosofa novecentesca ha definito come

progressiva evanescenza dell’ordine ontologico della vita sociale a vantaggio della libertà personale2, cioè per l’erosione del fondamento tradizionale e religioso dei comportamenti a prò della coscienza individuale, con la graduale riduzione dello spessore “oggettivo” di tutte le istituzioni sociali, le “nozze, tribunali ed are” di cui parlava il poeta.

Ci è stato insegnato che la validità di un sacramento dipende dall’osservanza delle norme liturgiche e non dal fatto che il ministro del culto sia degno; che il matrimonio è efficace in sé a prescindere dalle vicende dei coniugi; che le sentenze del giudice sono valide se questi ha seguito le norme del codice, quale che sia – se vi sia – un’appartenenza politica, religiosa, culturale del magistrato. Ora, posto che sembra auspicabile una corrispondenza

fra ciò che la coscienza avverte e ciò che la norma (morale, religiosa o giuridica) impone, l’accennato processo di “personalizzazione”, come pretesa di verifica della “realtà” delle cose coerente con un mondo “adulto”, informato alla libertà e responsabilità degli individui e con la progressiva estensione delle opzioni soggette al giudizio della ragione, sembra costituire ormai l’unica via per fondare oggettivamente le norme.

Sennonché, c’è un lato “oscuro” di questa “razionalizzazione” della vita, che consiste in ciò che Max Horkheimer definiva la “malattia” della ragione, ovvero la sua riduzione a ragione strumentale, utile “per qualunque scopo, buono o cattivo” ma incapace in quanto tale di “stabilire le norme della vita sociale o individuale, che si suppone siano stabilite da altre forze”. Questo determinismo, che consegna la vita delle persone nelle mani del potere, sarebbe figlio della distinzione (comune da Hume in poi) fra essere e dover essere e della conseguente non derivabilità delle norme – morali o giuridiche – dai fatti. Se dunque la validità di una norma, morale o giuridica, non è soggetta a verifica empirica, non si può, come diceva il mio professore di filosofia del diritto, far prendere l’ascensore ai fatti, facendoli passare dal piano dell’essere a quello del dover essere. Per questo, di fronte al dilagare della corruzione, prima ancora di indignare, offende la logica, sentir ripetere l’argomento “così fan tutti”. Il fatto che la norma sia violata non significa che così dev’essere, ché altrimenti la sorte delle nostre società non sarebbe diversa da quella del tacchino induttivista di Bertrand Russel, quello che, avendo constatato nei fatti che il contadino aveva aumentato le dosi di mangime ne aveva ricavato la regola per cui ci si può fidare degli uomini che sono all’evidenza buoni, per poi finire sulla tavola di Natale.

Tuttavia, dall’impossibilità di inferire norme dai fatti alla tesi che allora nessuna norma può essere razionalmente giustificata, ce ne corre. Kant infatti accetta la tesi di Hume nel senso di una irriducibilità delle questioni di diritto a questioni di fatto, ma non la tesi dell’ingiustificabilità razionale delle norme stesse.

Questo passo ulteriore lo fa invece la filosofia successiva. Basti pensare a Nietzsche e a Weber per giungere al politeismo dei valori e allo scetticismo pratico, cioè alla radicata e radicale convinzione che non sia possibile una fondazione razionale – e perciò specificamente umana – della ragion pratica.

Non sorprende allora che lo stesso Zagrebelsky, uno dei giuristi più sensibili al tema, a proposito della possibilità di “riconoscere” un fondamento oggettivo della giustizia, arrivi ad affermare che “un progetto di questo genere presupporrebbe la restaurazione della verità nel mondo dei valori, cosicché il vero bene, la vera giustizia, ecc., potessero essere riconosciute o dimostrate dalla ragione. Ma chi si sentirebbe di appoggiarsi oggi su un simile presupposto? Oggi: cioè in un tempo in cui – come tante volte e in piena ragione si è detto – la ragione di cui disponiamo è solo ragione strumentale, che non conosce la verità dei suoi fini”.

Ora, a prescindere dall’inciso, che facendo appello alla ragione (della quale peraltro si dubita) risulta in sé autocontraddittorio, ciò che qui interessa è appunto il considerare un’ovvietà, ciò che ovvio non è affatto, cioè appunto il disconoscimento della ragione come filosofia, come abitudine a chiedere perché e come disponibilità a cercare di dar conto di ogni decisione, giudizio o convinzione che abbia a che fare con ciò che più ci sta a cuore, ciò per cui si vive e si è disposti a morire o a giocarsi l’anima.

In effetti, se si ammette che “altro è l’anelito alla giustizia, inseparabile da ogni persona umana, altro è il definire in astratto che cosa si intenda per giustizia, altro ancora è l’accordarsi unanimemente su ciò che è giusto qui e adesso”, anche senza aver fatto esperienza di ingiustizia – cosa di per sé assai improbabile -, possiamo senz’altro riconoscere, per es., la bontà del “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”, regola aurea che esprime la reciprocità di prospettive che caratterizza la giustizia, lo spostamento del centro fuori dall’io, la necessità di considerare l’io e l’altro come termini di un rapporto improntato al criterio della pari dignità. “Di qui la persuasione che la giustizia, anche se non riusciamo a definirla è più forte del conflitto delle interpretazioni”, sicché “la difficoltà di individuare che cosa è giusto in concreto e la difficoltà di definire la giustizia astrattamente non dovrebbero oscurare l’evidenza di quel senso di giustizia da cui tutto nasce e che è percepito da ciascuno di noi come valore assoluto, non negoziabile”3.

Tutti ricordiamo, d’altra parte, il celebre passo della Città di Dio, dove Sant’Agostino, traendo spunto da una storiella riferita nella Repubblica di Cicerone, racconta del pirata fatto prigioniero da Alessandro Magno, il quale alla domanda in base a che cosa ritenesse di poter infestare i mari rispose con franca impertinenza: “la stessa per cui tu infesti il mondo. Solo che io, con la mia misera nave, vengo chiamato ladro, mentre tu, con la tua grande flotta, imperatore”. Remota iustitia, commenta Sant’Agostino, “cosa sono gli stati se non società di ladroni?”

(La prima parte è stata pubblicata giovedì 10 gennaio. La terza ed ultima parte verrà pubblicata domani, sabato 12 gennaio).

*

NOTE

2 J. HERSCH, Idéologie et réalité: essai d’orientation politique, Paris, 1956, 102-106.

3 Le citazioni che precedono sono tratte da C.M. MARTINI, La giustizia della croce, in C.M. MARTINI, G. ZAGREBELSKY, La domanda di giustizia, Torino, 2003,67.

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ZENIT Staff

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