Giordania, laboratorio di convivenza religiosa

Mons. Twal: “La Chiesa non la sottovaluti, l’80% dei nostri seminaristi arriva da qui”

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di Mariaelena Finessi

ROMA, martedì, 19 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Ignorata da molte agenzie di viaggio, che erroneamente non la considerano parte della Terra Santa escludendola dunque dai pellegrinaggi organizzati, la Giordania è insieme a Israele, Palestina e Cipro uno dei Paesi sui cui ha invece giurisdizione il Patriarcato latino di Gerusalemme.

A ricordarlo – in uno degli appuntamenti di “Sguardi sui cristiani del Medio Oriente”, lo spazio culturale promosso dalla Custodia di Terra Santa, dall’Azione cattolica italiana, da Edizioni Terra Santa e dal Forum internazionale di Azione cattolica in occasione del Sinodo dei vescovi sul Medio Oriente – è proprio il Patriarca, primo per nazionalità giordana, monsignor Fouad Twal. 

«Nel regno giordano si trova anzi la porzione più consistente della nostra comunità cristiana locale, cresciuta numericamente con l’aggiungersi, nel 1948 e nel 1967, dei tanti profughi palestinesi», spiega Twal, a Roma per raccontare – insieme al suo vicario episcopale per la Giordania, monsignor Selim Sayegh e a Huda Muhasher, presidente della Caritas giordana – la complessa realtà mediorientale.

Il risultato è che oggi il Paese conta 65 parrocchie e 77 mila fedeli e, dato non marginale, «l’80% dei nostri seminaristi è d’origine giordana». Ecco perché per il Patriarca il tema dei cristiani in Terra Santa deve essere un centro di attenzione per la Chiesa universale: si tratta «dei discendenti della prima comunità formata da Gesù Cristo stesso» e mai come ora è «Chiesa del Calvario» tanto che la presenza dei cristiani in Terra Santa può leggersi come «una missione, una vocazione», chiamati da Dio a «portare questa croce». 

Esempio di dialogo e di convivenza religiosa, la «stabilità di cui gode la Giordania» può essere letta in termini politici come pure nelle tante opere sociali messe in piedi dalla minoranza cristiana (3-4%) in questo angolo di mondo. Paese che accoglie e assiste qualcosa come 500mila profughi, soprattutto iracheni, la Giordania aspira ad essere un modello per tutta l’area mediorientale. 

Proprio da qui, ad esempio, è partita la reazione di maggiore apertura nei confronti del Papa dopo le polemiche nate dal discorso di Ratisbona, apertura culminata nella visita di Benedetto XVI alla moschea di Amman, nella quale è stato accolto esplicitamente come successore di Pietro.</p>

Il ruolo decisivo dei cristiani nella società civile della Giordania va trovato in quello che Benedetto XVI ha definito “il dialogo delle opere”: «Sono tante – dice Muhasher -, e come laici abbiamo in esse un grande ruolo». Quanto alla Caritas, sebbene essa sia nata per rispondere ai gravi problemi causati dalla Guerra dei sei giorni, da lì in poi ha fatto fronte a tutte le più gravi emergenze nazionali, compresa quella degli immigrati.

«Abbiamo due fronti caritativi – chiarisce Muhasher -, uno verso i giordani, per i quali la Caritas è stata fondata, e uno verso tutti gli stranieri che arrivano nel Paese e che hanno bisogno di aiuto». Ed essendo un laboratorio di convivenza tra cristiani e musulmani, tra cittadini e stranieri, «la maggior parte dei fondi ricevuti negli ultimi anni è stata destinata ai profughi iracheni e non ai giordani», fatto che non ha indispettito la popolazione locale.

La Caritas giordana – unica organizzazione a poter entrare nelle carceri -, tra i molti progetti che porta avanti con il beneplacito dei politici ne ha uno speciale ed è quello dei centri di cura per bambini disabili o, meglio, «per le loro famiglie», come chiarisce monsignor Sayegh, giacché è ai genitori «che si insegna come affrontare e convivere con l’handicap».

Presso l’Istituto “Regina Pacis” di Amman, ad esempio, i servizi di fisioterapia e di apprendimento sono gratuiti. Vi ricorrono solo 4 mila persone nonostante la percentuale di disabilità tra i giovani (nel 97% dei casi musulmani) sia all’11%. «Superando le diffidenze andiamo allora noi da loro e iniziamo ogni attività pregando insieme, senza gesti plateali ma ciascuno nel silenzio del proprio cuore».

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ZENIT Staff

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