Giobbe: la fede rivela l'Amore nel dolore

Vangelo della V Domenica del Tempo Ordinario

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di padre Angelo del Favero*

ROMA, giovedì, 2 febbraio 2012 (ZENIT.org).- Gb 7,1-4.6-7

Giobbe parlò e disse: “L’uomo non compie forse un duro servizio sulla terra e i suoi giorni non sono come quelli di un mercenario? Come lo schiavo sospira l’ombra e come il mercenario aspetta il suo salario, così a me sono toccati mesi di illusione e notti di affanno mi sono state assegnate. Se mi corico e dico: “Quando mi alzerò?”. La notte si fa lunga e sono stanco di rigirarmi fino all’alba. I miei giorni scorrono più veloci di una spola, svaniscono senza un filo di speranza. Ricordati che un soffio è la mia vita: il mio occhio non rivedrà più il bene”.

Mc 1,29-39

In quel tempo, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva. Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demoni; ma non permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano. Al mattino presto si alzò quando era ancora buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: “Tutti ti cercano!”. Egli disse loro: “Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!”. E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demoni.”.

Gesù ci parla oggi di sofferenza e di guarigione, di malati e di indemoniati, di preghiera notturna e solitaria.

Per due volte l’evangelista Marco accosta demonio e malattia, quasi ad indicare che la fede in Gesù, venuto a rivelare l’amore del Padre e a distruggere le opere del diavolo, ha il potere di guarire ogni male dell’anima e del corpo.

Dunque, da considerare sono tre: Dio-Amore, satana e la sofferenza, ed hanno tutti a che fare con Gesù, venuto a salvare l’uomo tutto intero.

Di questi tre “Dio aveva già parlato molte volte, nei tempi antichi” (Eb 1,1), specialmente nel libro di Giobbe (prima Lettura), ma solo nel Vangelo (in particolare in quello di Marco) nel mistero del dolore si è rivelato il volto nascosto del Figlio di Dio (Mc 15,39). 

Giobbe è forse il testo più alto che la Rivelazione biblica ci offre sul mistero del male e di Dio, tra loro “scandalosamente” intrecciati nella storia. Ma il senso ultimo del libro è proprio quello di approdare a Dio, proprio passando attraverso la strada drammatica della sofferenza”. (G. Ravasi, Opere e giorni del Signore, p. 753).

Sappiamo che il giusto Giobbe, sul quale si abbatte un uragano di sofferenze, è figura di Cristo, “il quale è stato consegnato alla morte a causa delle nostre colpe ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione” (Rm 4,25).

Commentando l’angoscia di Gesù nell’imminenza della Passione, san Tommaso Moro scrive: “Infatti, una mole immensa di afflizioni si abbatté sul delicato e tenero corpo del santissimo Salvatore. Egli sentiva come ormai imminenti, anche se non ancora presenti, l’infido traditore, gli implacabili nemici, le catene, le calunnie, gli oltraggi, le sferze, le spine, i chiodi, la croce e le atroci sofferenze che si sarebbero protratte per molte ore. Più di questo lo angosciava il terrore dei discepoli, la perdizione dei Giudei e persino la stessa morte del perfido traditore; infine, l’indicibile dolore della diletta madre. Queste sofferenze, tutte insieme, gli piombavano addosso come un uragano, inondando il suo cuore colmo di pietà come l’oceano una volta che ha rotto le dighe” (T. Moore, Gesù al Getsemani, I, n. 4).

Marco racconta che Gesù“guarì molti che erano affetti da varie malattie”, tra i quali la prima fu la suocera di Simone poiché “subito gli parlarono di lei” (Mc 1,34.30).

Se in questo primo giorno di ministero, avessero parlato a Gesù del povero Giobbe (la seguente descrizione biblica del suo stato pietoso è omessa dal lezionario odierno: “Ricoperta di vermi e di croste polverose è la mia carne, raggrinzita la mia pelle e si dissolve” – Gb 7,5), mosso a compassione Egli lo avrebbe subito toccato e guarito, come inducono a credere anche i versetti seguenti a Mc 1,39 che leggeremo Domenica prossima: “Venne da lui un lebbroso che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi puoi purificarmi”. Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, sii purificato”. E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato” (Mc 1,40-42).

Questa volontà divina di guarire l’uomo è una consolante certezza anche per coloro alla cui sofferenza, non ostante accorate e lunghe suppliche, il Signore non sembra voler porre fine.

Il cristiano, infatti, si sforza di credere che il dolore accettato è artefice di un’opera di salvezza tanto grande e necessaria da giustificare il paradossale desiderio di soffrire come via per una misteriosa, reale pienezza di vita fin su questa terra.

La sofferenza umilia l’uomo, ma ha il potere di avvicinarlo alla verità di se stesso in rapporto a Dio. Lo esprime bene Blaise Pascal con questo pensiero: “La conoscenza di Dio senza la propria miseria produce l’orgoglio. La conoscenza della propria miseria, senza la conoscenza di Dio, produce la disperazione. La conoscenza di Gesù Cristo sta nel mezzo, perché vi troviamo Dio e la nostra miseria”.

Giobbe si trova esemplarmente in questo mezzo: conosce la generosità di Dio e sperimenta drammaticamente il proprio stato pietoso.

Come Gesù, l’innocente Giobbe sa bene cos’è il peccato, ma non vi entra con l’azione. Non conosce il peccato come disobbedienza a Dio, ma solo come tentazione.

Il peccato, infatti, è una forza maligna presente anche nel raggio esistenziale dei giusti; per questo satana può metterli alla prova, dominandoli se cedono.

Gesù non è mai stato contagiato dal peccato, ma ha annientato il peccato nella sua dimensione oggettiva portandolo su di Sé mediante l’amore e la volontà di soffrire per noi, essendo Egli “l’agnello di Dio” (Gv 1,36). La sofferenza dell’uomo è perciò sacramento della presenza del Signore.

Ora ci chiediamo: dov’è Dio nel momento della prova?

La prova è il tempo intermedio tra la condizione iniziale di felicità (Giobbe prima dell’uragano) e quella finale di felicità restituita e moltiplicata: “Il Signore benedisse il futuro di Giobbe più del suo passato” (Gb 42,12).

Nel tempo della prova Dio si nasconde e tace, come si nasconde il sole durante un uragano, e Si fa conoscere solo “per sentito dire” (Gb 42,5). Dio parla quando compare l’arcobaleno, ma il suo silenzio precedente non dimostra che Egli non c’era durante la prova. Assenza non vuol dire non-esistenza: “l’assenza di Dio è il modo della presenza di Dio che corrisponde al male” (Simone Weil).

Giobbe sa che l’aspetto sconvolgente del dolore copre il volto provvidente di Dio come un velo impenetrabile (l’uragano che copre il sole dal basso), e cerca in tutti i modi di respingere le tesi razionali degli amici, basate sull’idea della giustizia divina retributiva, ma i suoi tentativi falliscono.

Senza la fede, infatti, la ragi
one non può andare oltre l’uragano, dove il sole rimane al suo solito posto, poiché solo la fede può mettere la sofferenza in rapporto salvifico con Dio, facendola entrare nel mistero di verità e di amore, che Cristo crocifisso e risorto ha rivelato.

Ciò vuol dire che accettare o rifiutare la sofferenza, equivale ad accettare o rifiutare Gesù stesso. La carne non è portata ad accettare il dolore, ma lo Spirito che abita la carne, sì.

Per la grazia e la libertà di una simile scelta è necessario che la coscienza entri in intima relazione di amicizia con il Padre mediante la preghiera notturna, come Gesù ci ha insegnato a fare:“Al mattino presto si alzò quando era ancora buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava” (Mc 1,35).

Il beato Giovanni Paolo II ha scritto: “La sofferenza sembra appartenere alla trascendenza dell’uomo: essa è uno di quei punti, nei quali l’uomo viene in un certo senso “destinato” a superare se stesso, e viene a ciò chiamato in modo misterioso.” (Lettera apostolica sul senso cristiano della sofferenza “Salvifici doloris”, n. 2).

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* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

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ZENIT Staff

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