Seraphicum

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Fra Antonio Ramina: Misericordia come scoperta di essere per altri

Al Seraphicum, una lettura della Misericordia da Thomas Merton a Etty Hillesum

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Il 4 novembre scorso, Fra Antonio Ramina, Rettore del seminario di Padova e docente di teologia spirituale della Pontificia Facoltà Teologica del Triveneto, è intervenuto alla Pontificia Facoltà Teologica “San Bonaventura” – “Seraphicum”, con una interessatissima relazione al convegno titolato “Fratelli miei, voglio mandarvi tutti in Paradiso “– 800 anni del Perdono di Assisi nell’Anno della Misericordia”.
Per spiegare La misericordia come concetto chiave della Rivelazione e dell’esperienza cristiana, fra Antonio Ramina, ha preso a riferimento due grandi figure, il monaco trappista Thomas Merton e l’intellettuale ebraica uccisa ad Auschwitz, Etty Hillesum.
Thomas Merton, notissimo soprattutto ai lettori cristiani degli anni Sessanta e Settanta, è stato citato da papa Francesco il 24 settembre 2015, all’Assemblea plenaria del Congresso degli Stati Uniti d’America, ed è stato ricordato come uno dei quattro «grandi Americani» che «hanno dato forma a valori fondamentali che resteranno per sempre nello spirito del popolo americano»”.
Di lui il Papa ha sottolineato lo spirito di preghiera e la determinazione con cui ha sfidato le certezze del suo tempo mettendosi in dialogo con il mondo, facendosi «promotore di pace tra popoli e religioni».
Questo monaco trappista statunitense era nato in Francia nel 1915 e morirà a Bangkok nel 1968, all’età di cinquantatré anni. Conosciuto soprattutto per la sua autobiografia, La Montagna dalle sette balze, è autore di numerosissime opere sulla vita spirituale.
Etty Hillesum, nata nel 1914 nei Paesi Bassi da una famiglia della borghesia intellettuale ebraica, morirà nel campo di concentramento di Auschwitz nel 1943, condividendo consapevolmente le sorti della sua gente. Donna in ricerca, appassionata della profondità, in ricerca spesso commossa di Dio, fu  affascinata dalla Bibbia e, in particolare, dalle pagine del Vangelo. Molto di quanto sappiamo di lei e della sua esperienza ci viene dalla sua stessa testimonianza, raccolta in due volumi in traduzione italiana: uno più poderoso, che riporta le pagine dei suoi diari; e un secondo volume in cui sono pubblicate le sue lettere.
Dopo aver citato e spiegato alcuni brani dei due autori fra Antonio Ramina ha provato a tirare le conclusioni. Riportiamo di seguito l’ultima parte della sua relazione: “Entrambi gli autori Etty Hillesum e Thomas Merton su cui ci siamo cimentati ci consegnano questo nucleo centralissimo: misericordia come scoperta di essere per altri.  A favore di altri. Addirittura di appartenere agli altri e di avere il compito di salvare Dio negli altri. Alla misericordia appartiene dunque questa persuasione urgente: si è sempre in debito con l’altro. Per il semplice fatto che l’altro esiste, sono sempre in debito nei suoi confronti, in debito di un “onore” verso di lui, da rendergli. Sempre. Anche qui, se ci collochiamo al momento della Pasqua di Gesù, non si può fare a meno di cogliere che la trama dei vangeli presenta in modo martellante questa sottolineatura di un’urgenza che è «per voi». La cena è celebrata per tutti. Il pane spezzato è Corpo per tutti. Il calice versato è Sangue per tutti.
La misericordia del cristiano, dunque, si configura originariamente come debito verso tutti: originariamente. Il che significa: sii misericordioso non perché hai tanto pane da dare, ma anche e soprattutto se non hai nulla; come Etty, che non aveva e non poteva più avere nulla; come Merton, che si sa indigente: «Credete che io abbia una vita spirituale? Non ne ho nessuna, io sono indigenza, silenzio, povertà, solitudine, perché ho rinunciato alla spiritualità per trovare Dio».
Questa esperienza di originaria, reciproca appartenenza viene descritta nei termini di una “visione che non è visione”; quasi un esito inevitabile indotto dall’acuirsi di una sorta di sesto senso, un “senso spirituale” nuovo, quello della misericordia “imparata” lasciandosi attraversare, dicevamo.
È una intuizione dell’anima che, a partire dalla constatazione della propria indigente precarietà, in entrambi gli autori coglie di sorpresa. Non si può programmare. Vi è un testo, pasquale per eccellenza, che mi pare interpreti a perfezione la vitalità sorprendente di questo “sesto senso”, ed è la contemplazione del Cristo Risorto, vincitore della morte, così come ce lo consegna il libro dell’Apocalisse, con uno sguardo che pare, esso stesso, appunto profondamente sorpreso: «A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen.  Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto. Sì, Amen!» (Ap 1,5b-7).
Vi è stata una morte, un passaggio cruciale – ci ha liberati con il sangue – e ora vi è quasi una sorpresa che ci viene incontro, in «colui che viene con le nubi»; ma vi è anche un’altra “trafittura”, la trafittura del cuore in coloro che si trovano a contemplare sorpresi il testimone fedele: «battendosi il petto», immagine plastica della compunzione, della compunctio cordis. L’inattesa trafittura che compunge il cuore e che mette in movimento, per forza.
Sarebbe un tema interessante, questo, da approfondire. Quello della compunctio cordis come momento in cui, quasi come per una scossa energetica, interiore, non si può più stare fermi. Se ne è trafitti e, sorpresi, ci si pone in cammino. La misericordia pare avere proprio questo tratto: a un certo punto accade qualcosa “dentro”, che ti cambia una volta per sempre, e non è più possibile rimanere nell’inerzia: si compiono gesti che mai avremmo immaginato di poter compiere; ci si scopre con una determinazione e un coraggio che mai avremmo immaginato di poter esprimere. Pensiamo ai due di Emmaus: trafitti dalla parola della croce, sentono il cuore ardere, si stupiscono, si mettono in movimento.
Merton sente la necessità di un “punto vergine”; la Hillesum sente che non si può fare molto, che si è un po’ inutili, ma che si deve lasciare in eredità un orizzonte più vasto: nulla, concretamente. Insomma: a me pare che questi due interpreti ci dicano come alla misericordia, proprio alla misericordia di Dio, appartenga un certo tratto di “inutilità gratuita”. Laddove non puoi fare nulla, capisci ciò che più conta: l’altro. Laddove non vi è spazio per fare cose, capisci che la “cosa” fondamentale è l’altro. Per rimanere nell’ambito dei testi pasquali:
Pensiamo alla scena con cui, in san Marco, si dà avvio al racconto della Passione (Mc 14,1-11). Lì c’è una donna – la donna di Betania – che viene lodata da Gesù, per il suo spreco inutile di profumo. E viene lodata in modo esagerato! È come se Gesù ci dicesse: se volete capire il vangelo, dovete capire quella donna lì. Se non capite lei, non capirete nemmeno mai il vangelo. E il gesto di questa donna è stato lo spreco folle del profumo. Il profumo è inutile per eccellenza, dice lo spreco, la gratuità. Se non capisci la gratuità, la follia della preziosità in-utile, senza utile, non capisci nemmeno Gesù!
Raccolgo questi quattro tratti, e chiudo con qualche traccia “per noi”, per la nostra esperienza, perché non si dica: sì, loro sono stati bravi, ma rimangono per noi irraggiungibili. A noi che rimane? Spero che già qualcosa rimanga per ciò che vi ho già detto, ma vi lascio tre idee finali, riassuntive.
Non si nasce misericordiosi; misericordiosi si diventa, e lo si diventa non perché “si decide” di essere misericordiosi, di fare le opere di carità, ma perché si accetta di lasciarsi attraversare dall’asprezza della vita e dalle oscurità che incontriamo, senza fuggire, senza ubriacarci di compensazioni. Non serve che andiamo in cerca di sofferenze; no. Ma occorre che ci chiediamo, di fronte al buio, al dolore, al “fallimento” che già incontriamo: Cosa posso imparare? Come posso essere paziente? Questo significa essere pazienti: imparare qualcosa da ciò che si patisce.
In questo modo vivo quello che chiamerei una sorta di “scatto ontogenetico”: una nuova nascita. «Vivere umanamente è andare nascendo», scrive Maria Zambrano. E la Misericordia è il frutto di nascite sempre nuove. E forse lo possiamo constatare nella nostra esperienza: mi scopro più capace di gesti di misericordia, nuovi, solo dopo essere stato attraversato da una fatica, una sofferenza, un fallimento. Una misericordia che non nasce da questa trafittura rischia di essere solo ripetizione di gesti meccanici, vuoti e vecchi. Come un disco graffiato che torna e ritorna sui suoi giri. Che dice e fa sempre le stesse cose.
La misericordia è anti-utilitaristica. Il tratto dell’inutilità. A me pare che il contesto in cui viviamo, e forse sempre è stato così, in diversa misura, il contesto in cui viviamo rischia di imprigionarci dentro una sorta di dogma, diffuso, subdolo. E tale dogma dice: “tu vali nella misura in cui produci”; “tu vali nella misura in cui servi a qualcosa”. Il grande mito della visibilità!
A volte credo che per la grande brama di visibilità confondiamo la profezia con l’esibizionismo…
Ma la misericordia del Padre ci dice invece: tu vali, e basta! Vali perché sei prezioso per me. Non perché produci. Ma per imparare questo tratto gratuito della misericordia di Dio occorre che nella mia vita io possa predisporre degli spazi, vergini, dei momenti anti-funzionali, momenti in cui non produco nulla e imparo a stare al mondo gratis.
Esagero un po’ e dico: forse raggiungo la maturità della fede quando scopro che perfino Dio è “in-utile”. Nel senso che avrò un rapporto maturo con Dio quando sperimenterò che vale la pena decidersi per Dio non perché ha da darmi qualcosa; ma perché Dio l’ho scoperto affidabile, e scelgo di volere lui, lo scelgo per me.
Infine la dimensione dell’essere per altri, per tutti gli altri. Lo dico, chiudendo, citando un grande padre orientale, Isacco di Ninive:
“Cos’è un cuore misericordioso? È l’incendio del cuore per ogni creatura: per gli uomini, per gli uccelli, per le bestie, perfino per i demoni, per tutto ciò che esiste.
Al loro ricordo e alla loro vista, gli occhi versano lacrime, per la forza della misericordia che stringe il cuore a motivo di grande compassione. Il cuore si scioglie e non può sopportare di udire o vedere un danno o una piccola sofferenza in qualche creatura.
E per questo egli offre preghiere con lacrime in ogni tempo, anche per gli esseri che non sono dotati di ragione, e per i nemici della verità e per coloro che la avversano, perché siano custoditi e perdonati.
E qual è il segno del fatto che uno è arrivato alla purezza del cuore? Egli si leva veramente in purezza, quando vede buoni tutti gli uomini”.
 
 

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ZENIT Staff

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