Federico Caffè: "Quale costo per la ripresa mondiale?"

Un articolo del 10 maggio 1975 dell’economista misteriosamente scomparso

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di A. d’A.

Nella notte tra il 14 ed il 15 aprile 1987 scomparve l’economista Federico Caffè all’età di 73 anni. Docente di Politica economica e finanziaria dal 1956 alla Facoltà di Economia e Commercio di Roma, sotto la sua guida sono cresciuti importanti economisti e banchieri quali, solo per citare quelli che attualmente ricoprono incarichi prestigiosi, Mario Draghi (Presidente della Banca Centrale Europea) e Ignazio Visco (Governatore della Banca d’Italia).

La casa editrice Castelvecchi ha raccolto, in un libro curato da Giuseppe Amari e intitolato “Contro gli incappucciati della finanza” tutti gli articoli scritti da Caffè sui quotidiani “Il Messaggero” di Roma dal 1974 al 1986 e su “L’Ora” di Palermo dal 1983 al 1987.

Avremo modo di ritornare su quest’opera in maniera più compiuta, recensendola e raccontando anche la presentazione del libro avvenuta il 12 luglio a Roma, nel quartiere Monteverde, dove sono  intitolati a suo nome, un Istituto di Scuola Superiore ed una biblioteca.

Questo percorso di avvicinamento intendiamo effettuarlo pubblicando integralmente alcuni articoli che trattano i temi del lavoro, del precariato e delle retribuzioni, per la loro straordinaria attualità. Partiamo dall’intervento su “Il Messaggero” di Roma di sabato 10 maggio 1975 dal titolo “Quale costo per la ripresa mondiale?”

*  *  *

Pochi mesi or sono, un importante settimanale economico di reputazione e circolazione internazionale, “The Economist”, esaminò attentamente quali pericoli vi fossero che il mondo si incamminasse verso una crisi di proporzioni analoghe a quelle del 1929. Le considerazioni di allora, pur sottolineando le radicali difformità degli assetti economici degli anni trenta e di quelli odierni, erano sostanzialmente improntate al pessimismo. Più di recente, lo stesso periodico s’è posto il problema del prossimo boom mondiale, che sarebbe già in vista e che comporterebbe il pericolo di sfuggir di mano; nel senso di tradursi in generalizzato surriscaldamento e in accentuazione delle spinte inflazionistiche. Non meno dell’economia mondiale, che sembra avviarsi verso un periodo di alternanze ravvicinate di rapide espansioni e di drastiche contrazioni, con conseguenti politiche di freno-spinta, anche le opinioni degli indagatori del futuro immediato sono soggette a fasi di pessimismo e di ottimismo. Già nelle note economiche di questo stesso giornale, del resto, è stato puntualmente rilevato, con riguardo alle vicende congiunturali del nostro Paese, che prevale attualmente la tendenza al rosa.

Dobbiamo ovviamente augurarci che le cose volgano al meglio. Ma faremmo bene a non perdere di vista attraverso quali costi il mondo perverrà alla prevista ripresa e quali elementi perturbatori continueranno ad operare anche quando la ripresa si affermerà.

In primo luogo, l’opzione per la moderazione dell’inflazione anche a costo di un accrescimento della disoccupazione ha portato, ancora una volta nella storia del capitalismo moderno, ad accettare una immensa falange di disoccupati. Dire che questa falange, nel mondo industrializzato, ha raggiunto l’ordine di grandezza di un dieci milioni di unità comporta una deliberata e immotivata sottovalutazione. Sembra quali che il destino delle nuove leve di lavoro che si presentano sul mercato sia quello di essere trascurate a tal punto (purtroppo anche dalle forze sindacali), che esse non rientrano nemmeno nel calcolo degli “effettivi” disoccupati. In secondo luogo, il rilievo eccessivo dato alla problematica dei flussi finanziari (petrodollari, riciclaggio e simili) ha avuto i suoi costi nel determinare – all’interno delle singole economie – frenate più brusche di quelle che sarebbero state strettamente necessarie, pur tenendo conto dell’imperativa esigenza del riequilibrio esterno. La politica economica richiede, per svincolarsi dalla impulsività e tendere alla razionalità, una ragionevole valutazione dei tempi, dei modi e della intensità degli interventi. Non si pretende che questo debba ottenersi con “raffinati dosaggi” che – occorrerebbe avere l’umiltà di riconoscerlo – sono oggi nelle comprensibili ambizioni dei responsabili delle decisioni di politica economica, ma non nelle loro possibilità concrete. Le carte di navigazione tra i pericoli dell’inflazione e la tragedia della disoccupazione (inclusa quella sommersa degli emarginati, dei precari, dei sottoutilizzati) sono ancora incerte e confuse e si procede inevitabilmente, in larghissima misura, per tentativi ed errori.

Che però questi errori debbano sistematicamente tradursi in livelli di attività inferiori a quelli possibili, anche in condizioni nelle quali questi livelli non debbano essere frenati, significa non rendersi conto che, tra tutte le “disaffezioni”, la più grave è quella che può investire il sistema in sé. Perché esso non appaia privo di valore per i lavoratori in parcheggio, per i disoccupati, per le nuove leve di lavoro (ovviamente per le rispettive famiglie). Occorre recuperare l’insegnamento che indicava nella incapacità a fornire sufficienti opportunità di lavoro e nelle sperequazioni distributive  (due fenomeni significativamente interconnessi) i mali insidiosi dei sistemi economici in cui viviamo.

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ZENIT Staff

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