Fabrice Hadjadj: la certezza è qualcosa di inevitabile e apocalittico

di Luca Marcolivio

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RIMINI, domenica, 28 agosto 2011 (ZENIT.org).- Oltre che immensa, la certezza è qualcosa di inevitabile e apocalittico. Al Meeting di Rimini proseguono le dissertazioni sul tema conduttore di quest’anno.

Questo giovedì è stato il turno del filosofo francese Fabrice Hadjadj, relatore dell’incontro “L’inevitabile certezza: riflessione sulla modernità”.

Hadjadj, già noto da alcuni anni al pubblico del Meeting, è stato presentato da don Stefano Alberto, docente di Introduzione alla Teologia all’Università Cattolica di Milano.

“La parola certezza – ha osservato il professor Alberto – è spesso equivocata come veicolo di intolleranza. Invece anche chi fa del dubbio una professione non può non avere almeno una certezza: quella della propria incertezza. La certezza è qualcosa che riceviamo, che ci genera e che in qualche modo può diventare nostra”.

Certezza è una parola “che può fare paura”, ha osservato Fabrice Hadjadj. Oltretutto “l’uomo riempito di certezze ci appare come un uomo irrigidito dall’intolleranza e dall’orgoglio”, e la certezza rinvia a “immagini tratte da un mondo minerale e statico”, quando il vivente “si trasforma, cambia da se stesso, si apre in scambi incessanti col mondo esterno e attraverso di questi sempre si adatta e si modifica”.

“La vita sta piuttosto dal lato del respiro e dell’acqua, fresca ed inafferrabile, fluente e sfavillante, instabile e capricciosa, come la donna secondo il duca di Mantova, mobile qual piuma al vento…”, ha proseguito il filosofo.

La certezza “sembra tre volte maledetta” in quanto “è obsoleta (giacché siamo al tempo dell’incertezza); è pericolosa (giacché genera il totalitarismo); è mortifera (giacché cambia il nostro cuore di carne in un cuore di pietra)”. La certezza, dunque, paradossalmente, “è incerta, questo è certo”.

C’è tuttavia una certezza che non potremo mai confutare e che, come afferma lo slogan del Meeting, deriva dall’esistenza. Rovesciando l’impostazione citata precedentemente, Hadjadj ha presentato la certezza come “la solidità del suolo che ci permette di avanzare”, mentre “ciò che impedisce la marcia, ciò che soffoca la vita, non è la mia certezza, ma il dubbio”.

Certamente tutti passiamo per l’incertezza, ma non è certo quest’ultima che ci permette di progredire. “Un uomo incerto della solidità di un ponte non si sognerà mai di attraversarlo”, ha osservato Hadjadj, aggiungendo con una punta di ironia che “ho la certezza che il mio uditorio non è esclusivamente composto di polli…”.

La certezza è ciò che “ci mette in movimento”, ma essa è qualcosa che non ha nulla a che vedere con un “sentimento interiore”, né con l’“autosuggestione”. Al contrario, si basa “su un’evidenza obiettiva”, ovvero qualcosa che “non abbiamo deciso noi, che non abbiamo costruito noi, che ci è data e ci salta agli occhi”.

L’aggettivo inevitabile, evidenziato nel titolo della conferenza, mette in luce che, quantunque possiamo essere tentati di fuggire dalla certezza, “bisognerà un giorno o l’altro guardarla in faccia”, che piaccia o meno. Come afferma San Paolo, “Non abbiamo infatti alcun potere contro la verità” (2Cor 13,7).

Grande è pertanto la provocazione della certezza nell’epoca post-moderna, un’epoca in cui, per usare le parole di Hadjadj, si ha “l’impressione che oramai bisogna dire: l’Uomo è morto”, laddove “Dio è morto” era lo slogan dell’età moderna che ancora “si rallegrava del regno dell’Uomo”.

L’aggettivo modernus, in latino, vuol dire “recente”, ha osservato Hadjadj, con il risultato che la modernità ha comportato la “rottura con gli antichi, con la tradizione di un tempo”. La modernità si è quindi ridotta a pura “moda”, qualcosa di costantemente effimero, caduco, in quanto “la moda va continuamente fuori moda. Ciò che era alla moda ieri oggi è antiquato”.

Antidoto a questa degenerazione del “presentismo” è la “novità assoluta”, una “sorgente zampillante che ci abbaglia sempre”. Se da un lato un I-phone 4 o 5 è un “futuro fossile”, una corona del rosario o un crocifisso saranno “sempre d’attualità”.

C’è però un ulteriore paradosso: la modernità, con il suo sguardo sull’uomo e sull’avvenire, “proviene sicuramente dalla cristianità”, in un certo senso ne rappresenta una distorsione di tanti elementi in se stessi positivi.

La modernità “isola certi dati della fede cristiana, e li separa da Dio: la storia, la comunione, la salvezza, la libertà, tutte cose riprese dal comunismo, ad esempio, ma si tratta oramai di valori orizzontali, che l’uomo può realizzare con il suo lavoro – ha proseguito Hadjadj -. Ciò stupisce per un po’ di tempo, poi finisce per mandare cattivo odore”.

La modernità ha portato agli incubi totalitari, a Kolyma, a Auschwitz, ad Hiroshima, al punto che Arthur Koestler, citato da Hadjadj, definì il 6 agosto 1945, data della prima bomba atomica sul Giappone, come il giorno a partire dal quale l’umanità “deve vivere nella prospettiva della sua scomparsa in quanto specie”.

Siamo giunti ad un post-umanesimo che assume tre peculiari forme: “Ci sono difatti tre modi per abbandonare l’uomo – ha spiegato Hadjadj -. O si va verso il superuomo, e avete il tecnicismo; o si pretende di tornare alla natura, ed avete l’ecologismo; o si predica il dissolversi in Dio, e avete il fondamentalismo”.

La distruzione delle speranze mondane è però “l’occasione di attraversare la disperazione e di aprirsi più in profondità alla speranza teologale”. Non si tratta di disprezzare ciò che è terreno, come fanno i fondamentalisti, bensì di “rischiarare la terra, non a partire da un avvenire utopico, ma a partire dall’eterno”.

E l’Eterno non è così intangibile, al punto che il buon ladrone incontra Cristo in croce proprio dopo un’intera vita trascorsa a “fuggire il bene, a fuggire Dio”. Il ladrone, dopo essersi “sforzato di sprofondare all’inferno, nella misura in cui accoglie questa misericordia inattesa, diventa il primo ad entrare in Paradiso”. La Croce, quindi, “si erge all’orizzonte per dirci con non arriveremo mai alla felicità. Ma anche per rivelarci che valiamo più della felicità”.

Di qui l’immensa certezza, indicata da Hadjadj, sulla scia di don Giussani: ripartire dalla propria esperienza più concreta e dal semplice fatto dell’esistenza. “Io sono qui, tu sei qui, e abbiamo sotto i nostri occhi queste cose semplici ma misteriose per il solo fatto che sono qui, giusto davanti a noi, questo tavolo, questo bicchiere, queste luci elettriche e, soprattutto, all’esterno, la luce del giorno”.

Non solo esisto, ma la mia esistenza non la creo da me stesso. “Ho ricevuto la mia esistenza da un altro. E l’ho ricevuta per darla a un altro”. Il dono della vita “esige una speranza che vada oltre questo mondo e attraversi la sua oscurità”. E Dio non si limita a rischiararci, ma “vuole anche che facciamo noi stessi chiarore”.

Per concludere, agli aggettivi immenso e inevitabile Hadjadj ha aggiunto l’attributo apocalittico. La certezza della nostra esistenza è definibile come apocalittica non nel senso ormai banalizzato di “catastrofe”, quanto come relativo alla rivelazione.

Scomparse le false speranze e superate le vere disperazioni, sbarazzatasi dagli “orpelli di tutte le immature ‘innovazioni’”, la nostra vita si ritrova “ben più grande dei nostri bei sogni devastati”.

La certezza dell’apocalisse risiede quindi nella “necessità di una speranza che attraversa la notte oscura, l’esigenza di una vita chiamata a darsi più fortemente della morte, la novità di un’esistenza feconda che apre cammini nuovi nella strada senza uscita, che manifesta la gloria attraverso la croce, che porta una rivelazione fine nel cuore della catastrofe”, ha con
cluso Hadjadj.

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ZENIT Staff

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