Europa, immigrazione, futuro

NAPOLI, sabato, 27 ottobre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’intervento dell’Arcivescovo Agostino Marchetto, Segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, in occasione di un panel tenutosi il 22 ottobre scorso nel contesto dell’Incontro Internazionale per la Pace ospitato dalla città di Napoli e promosso dalla Comunità di Sant’Egidio.

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Con richiamo alla 9ª sinfonia di Beethoven, un pubblicista ha denominata la “Pacem in Terris” la “sinfonia della pace”. Infatti si nota in essa un tema fondamentale, 4 movimenti ed un finale. Il tema torna per 9 volte, come un leitmotiv: la pace fra tutti i popoli esige la verità come fondamento, la giustizia come regola, l’amore come motore, la libertà come clima. Il tema accompagna ciascuna delle 4 parti, che formano come i 4 movimenti della sinfonia: la pace nell’armonia delle persone tra loro; tra le persone e le comunità politiche; tra le diverse comunità politiche; tra le persone e i gruppi politici con le comunità umane.

Ebbene i migranti in Europa, in prospettiva di futuro, io li vorrei anzitutto presentare come fattore di pace fra le persone, i popoli e le nazioni, in favore dello sviluppo integrale. In effetti il I° Forum Mondiale sulle migrazioni, tenutosi quest’anno a Bruxelles, aveva come tema “Migrazioni e Sviluppo”. Questo abbinamento, tale binomio, fino a 2-3 anni fa era impensabile. E ora, giustamente, non lo è più anche perché “La sfida dell’immigrazione e il modo in cui verrà gestita è uno dei test più importanti per l’Unione Europea allargata negli anni e nei decenni futuri. Se le società europee saranno all’altezza di questa sfida, l’immigrazione le arricchirà e le rafforzerà. In caso contrario, il risultato potrà essere una riduzione dei livelli di vita e divisione sociale”.

È affermazione, di fine Gennaio 2004, dell’allora Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan, che aggiungeva. Tutti i Paesi hanno il diritto di decidere se ammettere o meno gli immigrati volontari (contrapposti ai rifugiati bona fide, che in base alla legge internazionale hanno diritto di protezione). Ma chiudere le porte sarebbe insensato per gli europei… Spingerebbe anche sempre più gente a tentare di entrare dalla porta di servizio.

L’immigrazione illegale é un problema reale, e gli Stati hanno bisogno di collaborare nei rispettivi sforzi per fermarla… Combattere l’immigrazione illegale dovrebbe però essere parte di una strategia più ampia. I Paesi dovrebbero fornire veri e propri canali per 1’immigrazione legale, e cercare di coglierne i benefici nella salvaguardia dei diritti umani fondamentali degli emigrati… Gestire l’immigrazione non é soltanto una questione di porte aperte e di unione di forze a livello internazionale. Richiede anche che ciascun Paese faccia di più per integrare i nuovi arrivati. Gli immigrati devono adattarsi alle nuove società e le società devono adattarsi a loro volta. Soltanto una strategia creativa di integrazione garantirà ai vari Paesi che gli immigrati arricchiscano la società ospite più di quanto la disorientino… Gli immigrati sono parte della soluzione, non parte del problema… In questo ventunesimo secolo, gli emigranti hanno bisogno dell’Europa. Ma anche l’Europa ha bisogno degli emigranti. Un’Europa chiusa sarebbe un’Europa più mediocre, più povera, più debole, più vecchia. Un’Europa aperta sarà un’Europa più equa, più ricca, più forte, più giovane, purché sia un’Europa che gestisce bene l’immigrazione”. Qui sta il futuro di speranza e di pace che io intravedo, e che troviamo anche nella nostra Istruzione Erga migrantes caritas Christi ( n. 101-103).

In effetti il nuovo volto dell’umanità, oggi, ha i colori della globalizzazione, e i problemi che nascono sono ormai tutti planetari. Nessuna Nazione, per quanto potente, è in grado ad esempio, di garantire la pace, di risolvere appunto il problema delle migrazioni e delle minoranze etniche, di salvare l’equilibrio dell’ecosistema, compromesso dallo sfruttamento insensato delle risorse naturali, ecc.

Sul tema della pace Giovanni Paolo II ha richiamato più volte l’attenzione. Nel Messaggio per la Giornata della Pace 2001 così disse: “All’inizio del nuovo millennio, più viva si fa la speranza che i rapporti tra gli uomini siano, sempre più, ispirati all’ideale di una fraternità veramente universale. Senza la condivisione di questo ideale la pace non potrà essere assicurata in modo stabile”. E proseguì: ciò “è esigito, come mai prima d’ora, dal processo di globalizzazione che unisce in modo crescente i destini dell’economia, della cultura e della società”.

In un mondo sempre più globalizzato il Papa indicava poi il fenomeno migratorio come un fattore capace di assicurare la pace nel mondo e l’incontro delle culture: “Non meno pericoloso per il futuro della pace sarebbe l’incapacità di affrontare con saggezza i problemi posti dal nuovo assetto che l’umanità, in molti Paesi, va assumendo a causa dell’accelerazione dei processi migratori e della convivenza inedita che ne scaturisce tra persone di diverse culture e civiltà”.

Unità e diversità in Europa, di fronte alle migrazioni

Naturalmente si può dire che ogni Paese d’Europa ha i suoi immigrati, dove sono ripartiti inegualmente. In valori assoluti, la Germania è in testa (7.300.000, ovvero l’8,9% della popolazione totale), seguita dalla Francia (7%), poi dal Regno Unito. Le proporzioni sono a volte più forti in Paesi più piccoli. Per esempio, il 30% nel Lussemburgo e il 19% in Svizzera. Ogni Paese ha un po’ i suoi immigrati, frutto dell’eredità coloniale, dei legami storici o della vicinanza geografica.

La caduta del Muro di Berlino, nel 1989, e l’accelerazione della globalizzazione fanno comparire naturalmente nuovi poli di migrazione nell’Europa dell’Est e in Asia. I nuovi arrivi non sono più solamente lavoratori poco qualificati, che aspirano a contratti a tempo indeterminato, ma membri delle classi medie istruiti, studenti, turisti, stagionali, donne o bambini isolati, rifugiati, “clandestini”, persone che arrivano per ricongiungimento familiare (la maggioranza degli ingressi) con una moltiplicazione dei canali utilizzati.

Dagli anni ‘90, le politiche d’ingresso e di soggiorno dei Paesi europei oscillano tra l’ammissione selettiva (si comincia a rendersi conto che l’Europa ha bisogno di lavoratori qualificati), la repressione degli ingressi illegali e la regolarizzazione. Durante gli ultimi 25 anni la Francia, il Belgio, la Grecia, l’Italia (quattro volte), il Lussemburgo, il Portogallo (due volte), il Regno Unito e la Spagna (tre volte) hanno regolarizzato 4 milioni d’immigrati, grazie a 20 programmi di regolarizzazione. Ma ovunque sono messe all’opera legislazioni dissuasive. I Paesi d’Euopa hanno anche modi diversi di fronteggiare i problemi del « vivere insieme », ponendo più o meno l’accento sull’integrazione degli individui o su quella delle comunità.

Verso l’europeizzazione

La politica dell’immigrazione è sempre più chiamata a europeizzarsi. Il 1985 ha visto l’adozione, negli Stati membri della Comunità Economica Europea, dell’Atto Unico che definisce uno spazio comunitario europeo senza frontiere. Lo stesso anno, sono firmati da un certo numero di Paesi gli Accordi di Schengen. Essi sono integrati nell’Unione Europea nel 1997 con il Trattato di Amsterdam. I suoi principali strumenti sono l’adozione di un visto unico di tre mesi per gli extra-comunitari che vogliono entrare e circolare nello Spazio Schengen, la libertà di circolazione all’interno delle frontiere europee per gli Europei e per i detentori di un visto Schengen, la solidarietà dei Paesi europei nei controlli alle frontiere esterne dell’Unione. Il Trattato di Amsterdam prevede tuttavia l’attuazione di una politica comune sull’immigrazione e si potrà vedere la creazione di una polizia delle frontiere europee. Riguardo ai Paesi d’emigrazione non europei, la comune politica sull’immigrazione rischia di rimanere tra le più restrittive.

Il fattore islam

Da qualche tempo un altro fattore caratterizza non solo il movimento migratorio, ma la storia stessa del mondo contemporaneo, destando preoccupazione e paura in molte persone. Il fatto, cioè, che non pochi immigrati sono musulmani e c
iò fa temere addirittura una “invasione” dell’islam e della sua cultura.

Le complicazioni della storia recente e presente hanno acuito non poco la percezione per molti di una opposizione radicale o di una frattura insanabile tra “mondo cristiano” e “mondo islamico”. Tenuto conto che questo conflitto, in realtà, maschera spesso contenuti di altra natura (soprattutto economica e politica), oggi è più che mai necessario cercare un confronto sereno, lucido e pacato tra i membri delle due religioni, senza però superficialità e con richiesta di reciprocità.

Dunque, se alcuni Paesi islamici, grazie alle loro risorse, sostengono di fatto movimenti integralisti, che giungono a forme di terrorismo motivato da fanatiche considerazioni (nelle quali si mescolano citazioni del Corano ed espressioni di vendetta per “secolari soprusi subiti dai colonizzatori e sfruttatori occidentali”), non dovremmo commettere l’errore di considerare l’integralismo come espressione univoca dell’islam. Così, infatti, rinforzeremmo gli stessi integralisti che vogliono apparire come coscienza di tutto il mondo musulmano.

I “passi” verso la pace

“Le migrazioni – afferma ancora il Papa Giovanni Paolo II nel citato discorso – possono costituire una opportunità se le differenze culturali vengono accolte come occasione di incontro e di dialogo e se la ripartizione disuguale delle risorse mondiali provoca una nuova coscienza della necessaria solidarietà che deve unire la famiglia umana”. In questa affermazione possiamo vedere le coordinate sulle quali è possibile tracciare un ideale “itinerario” verso la pace, oggi, anche in ambiente migratorio.

Il dialogo, anzitutto

Questa parola peraltro è diventata una delle accezioni maggiormente soggette a usura: qualcuno la confonde addirittura con una semplice conversazione. Dialogo è invece, soprattutto, confronto, interazione, capacità di ascoltare e di entrare nella visione dell’altro, disponibilità ad accoglierlo, senza semplicismi e superficialità. E tutto questo non meramente a livello intellettuale, ma soprattutto in quello di vita vissuta. Il vero incontro infatti non avviene tra culture ma tra persone concrete, che pure hanno la loro cultura e la loro religione: parte dal vissuto delle persone stesse, dalla loro esperienza quotidiana nella famiglia, nel lavoro, nella scuola. In questo modo è possibile colmare quel deficit di cittadinanza e di coscienza mondiale, di responsabilità collettiva, che è alla base, oggi, di alcuni movimenti di violenza considerata come unica soluzione di inveterati problemi.
“Lo scontro di civiltà – afferma Huntington – avviene perché il confronto e il mescolarsi delle identità si sviluppano all’interno di fasce culturali e di minoranze che confliggono contro le maggioranze ed esigono una maggiore visibilità”.

La tolleranza

Anche tolleranza è un’altra parola un po’ erosa dall’uso, ma ancora molto importante. Si sta diffondendo oggi, di fatto, l’immagine dell’islam come “monolito intollerante”, una religione di conquista, mentre la maggioranza dei musulmani si sente e si proclama tollerante. E’ questa contrapposizione che rischia di compromettere gli sforzi di dialogo e provoca una reazione che può diventare esplosiva. Da una parte si lascia spazio al razzismo, dall’altra si spinge al ripiegamento su se stessi. Entrambe le religioni, quella cristiana e quella musulmana, hanno invece alla loro base una tradizione di ospitalità e di accoglienza, “mutatis mutandis”.

A proposito del dialogo e della tolleranza, considerati come fattori principali della pace nel mondo, Giovanni Paolo II affermò ancora: “Lo stile e la cultura del dialogo sono particolarmente significativi rispetto alla complessa problematica delle migrazioni. L’esodo di grandi masse da una regione all’altra del pianeta, che costituisce sovente una drammatica odissea umana per quanti vi sono coinvolti, ha come conseguenza la mescolanza di tradizioni e di usi differenti, con ripercussioni notevoli nei vari Paesi di origine e in quelli di arrivo. L’accoglienza riservata ai migranti e la loro capacità di integrarsi nel nuovo ambiente umano rappresentano altrettanti metri di valutazione della qualità del dialogo tra differenti culture”.

Accoglienza e ospitalità

Dove lo straniero diventa ospite e viene accolto, si smonta infatti gradualmente la possibilità di vedere l’altro come un nemico. L’ospitalità come fratellanza, invece, è un concetto purtroppo trascurato dal lessico politico contemporaneo, che tende a privilegiare l’uguaglianza e la libertà, le quali possono poggiare su un fondamento individualista.
Accogliere lo straniero, per il cristianesimo, significa accogliere Dio stesso. Insistendo con la categoria della ospitalità, i testi biblici, in effetti, dell’Antico e del Nuovo Testamento, pongono le basi per la costruzione di una fratellanza proprio universale.

Anche il mondo islamico ha una tradizione di ospitalità che si ritrova nel Corano: in particolare nel mondo della medina, la città “illuminata”, che nasce pluralista e porta agli altri. La tradizione alla apertura è quindi alla base pure della religione islamica, che però conosce oggi frange, anche assai consistenti, purtroppo, estremiste e violente, che rigettano quanto viene dall’esterno. Il compito dei musulmani, a nostro parere, è quello di individuare nuovi processi educativi, capaci di arginare questi estremismi, di isolarli e far prevalere il dialogo vero, autentico, rispettoso della reciprocità.

La stessa chiave di lettura universalista

La tradizione cristiana e quella musulmana hanno quindi una matrice culturale e religiosa universalista, che costituisce una chiave di lettura – e anche una fonte di contrasto – con cui leggere le nuove sfide e che contribuisce a creare una maggiore serenità nelle relazioni internazionali, a cominciare dall’Europa. L’11 Settembre è stato però sicuramente uno spartiacque, una “rivelazione” che ha evidenziato grandi contraddizioni nel ruolo delle religioni nella costruzione della pace. Questa “rivelazione” comporta la necessità di un salto di qualità nell’incontro interreligioso: siamo tutti invitati ad ascoltare e a metterci in gioco per l’altro.

Se è vero che il tema dello scontro passa all’interno di ogni singola comunità, è altrettanto vero che vi sono molte persone che questo scontro non vogliono, che praticano la convivenza, che si riconoscono nei valori della persona, della pace, dei diritti umani, della coesistenza, del pluralismo. Chi dunque vi si riconosce è chiamato a lavorare insieme e a testimoniare concretamente la sua opposizione legittima a ogni forma di violenza, fatte le debite distinzioni.

Qualcuno ha chiamato questa disponibilità la “riscoperta della piazza”. Piazza intesa come punto d’incontro, di scambio di idee, come luogo di composizione di una vera democrazia, in cui tutti godano piena cittadinanza e in cui tutti possano far sentire la propria voce. Papa Giovanni parlava poi della fontana della piazza del villaggio, che per noi è la Rivelazione di Dio.

Desidero chiudere con l’osservazione che la ricerca di un equilibrio soddisfacente tra un codice comune di convivenza e l’istanza della molteplicità culturale pone problemi delicati e di grossissimo spessore. Non dobbiamo nasconderci che le domande identitarie incutono sempre paura in coloro ai quali esse vengono rivolte. Talora, queste paure prendono la via dell’annientamento o negazione dell’identità dell’altro; talaltra, esse conducono all’adozione di pratiche meramente assistenziali, che umiliano coloro che ne sono i destinatari perché annullano la stima che essi hanno di sé. Eppure, come ci ricorda Giovanni Paolo II nel già citato messaggio: “il dialogo tra le culture… emerge come un’ esigenza intrinseca alla natura stessa dell’uomo e della cultura” (n. 10). Il compito da assolvere è allora quello di gettare sul tavolo del dibattito la proposta di una via capace di scongiurare la Scilla dell’imperialismo culturale, che porta all’assimilazione delle culture diverse rispetto a quella
dominante, e il Cariddi del relativismo culturale, che conduce alla balcanizzazione della società.

Il modello di integrazione interculturale di cui ho detto brevemente è fondato sull’idea del riconoscimento del grado di verità presente in ogni visione del mondo, un’idea che consente di fare stare assieme il principio di eguaglianza interculturale (che è declinato sui diritti universali) con il principio di differenza culturale (che si applica ai modi di traduzione nella prassi giuridica di quei diritti). L’approccio del riconoscimento veritativo, non ha altra condizione se non la “ragionevolezza civica” di cui parla W. Galston: tutti coloro che chiedono di partecipare al progetto interculturale devono poter fornire ragioni per le loro richieste politiche; nessuno è autorizzato a limitarsi ad affermare ciò che preferisce o, peggio, a fare minacce. Non solo, ma queste ragioni devono avere carattere pubblico – in ciò sta la “civicità” -, nel senso che devono essere giustificate mediante termini che le persone di differente fede o cultura possono comprendere e accogliere come ragionevoli, e dunque tollerare, anche se non pienamente rispettabili o condivisibili. Solo così – penso – le differenze identitarie possono essere sottratte al conflitto e alla regressione.

Per concludere, dopo aver parlato di stranieri a casa nostra, in Europa, come rappresentazione di un’utopia, nel senso positivo della parola, vorrei leggervi una bella poesia il cui titolo è

“NON CHIAMARMI STRANIERO”

A causa del grembo materno diverso,
o perchè i racconti della tua infanzia
ti hanno forgiato in un’altra lingua,
non chiamarmi straniero.
Il tuo grano è simile al mio grano,
la tua mano, simile alla mia,
il tuo fuoco, simile al mio fuoco,
e tu mi chiami straniero!
Perchè in un altro popolo sono nato,
perchè altri mari conosco,
perchè un altro porto, un giorno, ho lasciato,
non chiamarmi straniero
E’ lo stesso grido che noi portiamo
è la stessa fatica che trasciniamo,
quella che sfianca l’uomo dalla notte dei tempi,
quando non esisteva nessuna frontiera,
prima che arrivassero quelli
che dividono e uccidono,
quelli che rubano, quelli là, gli inventori
di questa parola: straniero.
Triste parola ghiacciata, tanfo d’oblio e d’esilio.
non chiamarmi straniero.
guardami bene negli occhi,
ben al di là dell’odio,
dell’egoismo e della paura
e vedrai che sono un uomo.
No, non posso essere straniero!

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ZENIT Staff

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