Essere riflesso dell’amore di Gesù dopo il genocidio del Ruanda

Sabina Iragui Redín, Figlia della Carità

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MADRID, martedì, 14 giugno 2005 (ZENIT.org).- Sabina Iragui Redín, Figlia della Carità, nata a Navaz (Navarra), in Spagna, è andata in Ruanda insieme ad un’altra sorella spagnola. Erano le prime Figlie della Carità giunte in quella zona. Oggi sono ancora lì, a Kigali, in una terra che cerca di superare il trauma del genocidio.

Come siete arrivate in Ruanda e Burundi?

Sabina Iragui Redín: Nel 1973 siamo andate lì, a fondare la missione e a vivere con la gente. Le Figlie della Carità in quell’epoca avevano aperto 6 missioni in Burundi e 3 in Ruanda. Inizialmente eravamo state chiamate dai Vescovi per portare avanti un servizio sanitario come infermiere e ci siamo dedicate soprattutto ad assistere i centri medici.

Gradualmente si sono unite a noi alcune sorelle del luogo, tanto da consentire un ampliamento dei servizi che prestavamo. Tuttavia, tra il 1985 e il 1987, il Presidente del Burundi ha negato il permesso di soggiorno a tutti i missionari. Le sorelle che erano in Burundi sono dovute andar via. Molte sorelle del luogo sono venute con noi in Ruanda, dove abbiamo aperto missioni ad Est del Congo, nella parte dei laghi.

Poi è arrivato il genocidio del 1994…

Sabina Iragui Redín: Quando ha avuto inizio ci siamo spostate a Goma, in Congo, per dare assistenza ai rifugiati e ci siamo messe a lavorare nei campi. A noi si sono aggiunte circa 35 sorelle. Inizialmente abbiamo organizzato un campo profughi insieme ai salesiani ed un altro insieme a Medici senza frontiere. Questi ultimi ci fornivano i sieri e le medicine necessarie ai malati, perché non avevamo nulla se non le nostre braccia.

Poi è divampata l’epidemia di colera. È esplosa di colpo, a causa dei cadaveri della gente assassinata che venivano buttati nel lago Kivu e la gente ne beveva l’acqua. L’epidemia è stata di una violenza terribile. I soldati francesi inviati nel luogo ci portavano l’acqua, perché non disponevamo neanche dell’acqua potabile. Ricordo che un soldato ci disse: “Che lavoro state compiendo, sorelle! Cosa posso fare io, perché non posso fare nulla?”. Allora tirò fuori tutti i soldi che portava con sé e me li diede. Quei soldi li utilizzammo per dare da mangiare alla gente, perché era molto triste vedere come queste persone arrivavano in Ruanda prive di tutto.

Poi sono andata a lavorare in un campo profughi gestito in collaborazione con l’UNICEF. Era un campo di bambini orfani. Ce n’erano circa 5.000. Venivano presi dalle strade e dalla foresta dove venivano trovati abbracciati alle loro madri morte. Era straziante. Poi sono tornata in Ruanda, a Kivuyu, in alta montagna.

E non correva pericoli lì?

Sabina Iragui Redín: Sì. Anche in montagna era pericoloso, tanto che siamo dovute fuggire per un’altra strada verso il Congo. Ma anche lì la situazione non era facile. Delle due case che avevamo in Congo una è stata chiusa perché una notte hanno ucciso il sacerdote della parrocchia del paese e le sorelle sono state evacuate per forza. L’altra casa, che si trovava a Goma, l’abbiamo dovuta chiudere quando la guerra è scoppiata anche in Congo. Poi si è verificata l’eruzione del vulcano Yiragongo e la lava l’ha sepolta. Questo quindi l’ha sistemata una volta per tutte. È la Provvidenza.

Come avete affrontato la missione dopo tali catastrofi?

Sabina Iragui Redín: Dopo il 1996, in seguito al genocidio del Ruanda, abbiamo avuto un’assemblea per affrontare le nuove povertà che erano emerse nel Paese, e ci siamo messe al lavoro. Adesso lavoriamo in diversi ambiti. Il primo è quello con i bambini della strada. Sono numerosissimi, soprattutto ragazze. Poi ci sono le carceri alle quali portiamo da mangiare.

Le carceri sono molto affollate?

Sabina Iragui Redín: Sì, e lo saranno sempre di più perché si continua a processare la gente. Attualmente vi sono più di 100.000 persone nelle carceri, ma queste potranno anche raggiungere la cifra di 700.000. Noi non sappiamo chi sia colpevole e chi innocente. Sappiamo solo che vi sono molti malati di AIDS e di tubercolosi.

Ci dedichiamo anche a lavorare con la donne, poiché è soprattutto un Paese di donne. Molti uomini sono morti e molti altri sono in carcere. Abbiamo organizzato associazioni di donne e si lavora con ognuna di esse senza alcuna discriminazione. Si tengono riunioni, si legge il Vangelo, si condivide la parola di Dio, le si aiuta, si chiedono terre perché le possano coltivare e così mantenere i propri figli negli studi e farli andare avanti. Le donne sono molto coraggiose e vale la pena aiutarle perché hanno molta forza e superano tutto. Lavoriamo anche con gli orfani, l’AIDS…

“Missione: pane spezzato per la vita del mondo” è il tema che Giovanni Paolo II aveva proposto per la prossima Giornata Missionaria Mondiale…

Sabina Iragui Redín: Gesù è il vero pane spezzato per il mondo. Facendomi povera con i poveri, cerco anch’io di essere pane e condividere la mia vita e il mio entusiasmo con i poveri, in un Paese di vera povertà, per essere così riflesso dell’amore misericordioso di Gesù, perché ciò che conta di più è l’amore.

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ZENIT Staff

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