"Essere discepoli di Cristo"

Seconda catechesi del cardinale Giuseppe Betori a Rio

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Riportiamo di seguito la seconda catechesi  pronunciata giovedì 25 luglio dal cardinale arcivescovo di Firenze, Giuseppe Betori, alla GMG di Rio 2013.

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All’inizio della prima enciclica Benedetto XVI scrisse alcune parole che ritengo possano aiutarci a entrare nella catechesi odierna: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Deus Caritas est, n. 1).

Sta qui la differenza di fondo tra una qualsiasi visione del mondo e l’esperienza della fede cristiana. Ciò che rileva Benedetto è anche ciò che distingue la fede del cristiano da una qualsiasi altra fede religiosa, perfino quella che ci è più vicina, in quanto nostra stessa radice, la fede ebraica. Il rapporto storico e personale in cui consiste il fatto religioso ha infatti la sua attuazione piena ed unica nella persona del Figlio di Dio fatto uomo.

Credere è incontrare Gesù, riconoscere in lui l’evento che sta al centro della storia umana, accoglierlo come presenza nella nostra vita, entrare in dialogo con lui facendo interagire la nostra vita con la sua, assumere la sua esistenza come l’orientamento decisivo della nostra. Un progetto che non chiede di rinunciare ad alcunché della nostra realtà umana, ma che la valorizza in tutte le sue potenzialità, coinvolgendo mente e cuore, intelligenza e volontà, razionalità e libertà.

Sarebbe però un errore pensare questo incontro come un rapporto tra eguali. Lo scarto tra il divino e l’umano segna di sé già tutta la storia d’Israele con il suo Signore. L’alleanza con cui questi si lega al suo popolo è un atto di grazia, in cui Dio si impegna con fedeltà nella libertà, senza che la fedeltà chiesta al popolo possa per questo costituire un credito verso di lui. Sta a dimostrarlo il fatto che la fedeltà di Dio si esercita proprio a fronte dell’infedeltà del popolo, svelando quindi che il patto non è tra eguali, ma ha una sola sorgente, che è l’amore di Dio.

Non cambiano le cose nel legame con sé che Gesù offre a quanti rispondono alla sua parola. L’immagine che traduce la natura del legame è il discepolato, l’andare con e dietro il Maestro. All’origine della fede c’è una chiamata a condividere la vita con Gesù e ad accettare di seguirne i passi: «Passando lungo il mare di Galilea, [Gesù] vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: “Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini”. E subito lasciarono le reti e lo seguirono» (Mc 1,16-18).

Andare con lui, stare con lui, seguirlo, è quanto Gesù chiede a coloro a cui egli si accosta chiamandoli. Credere significa farsi discepoli. Solo il discepolato può aprire alla missione, perché non si potrà testimoniare se non ciò che si è vissuto e condiviso con il Signore.

E se l’entusiasmo della scoperta, se la gioia di sentirsi chiamati può indurre a una decisione coraggiosa e senza esitazioni – “subito” –, con un gesto che segna per sempre la vita, passo dopo passo i discepoli si dovranno misurare con la radicalità della scelta proposta da Gesù: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 16,24-25). La strada del discepolo non può essere diversa da quella del Maestro, e la strada di Gesù è la strada della croce, una croce illuminata dalla futura risurrezione, ma pur sempre una croce: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani perché venga deriso e flagellato e crocifisso, e il terzo giorno risorgerà» (Mt 20,18-19).

Come discepoli ci attendiamo di ricevere da Gesù un’illuminazione decisiva sul cammino della nostra vita. E la sua parola non manca di essere luce per noi. Anzi, egli stesso ci ricorda che l’ascolto della sua parola è ciò che qualifica la nostra condizione di discepoli e ci fa sua famiglia: «Mia madre e miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 8,21).

Ha scritto Benedetto XVI in vista della GMG di Rio de Janeiro: «Un discepolo, in effetti, è una persona che si pone all’ascolto della parola di Gesù (cfr Lc 10,39), riconosciuto come il Maestro che ci ha amati fino al dono della vita. Si tratta dunque, per ciascuno di voi, di lasciarsi plasmare ogni giorno dalla parola di Dio: essa vi renderà amici del Signore Gesù e capaci di far entrare altri giovani in questa amicizia con Lui» (Messaggio per la XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù 2013, 18 ottobre 2012, n. 2). Lasciarsi plasmare dalla parola di Gesù è il modo con cui la nostra identità di discepoli si rafforza giorno dopo giorno.

Un impegno che va contro un modo di pensare diffuso, che spinge a ritenere che la nostra identità si rafforzi con l’affermazione e la crescita della nostra autonomia, fino a non dover dipendere da nessuno, né per le risorse di cui si deve disporre per affrontare i bisogni della vita, materiali e spirituali, né soprattutto per il giudizio di valore che si è chiamati a mettere in atto di fronte alle scelte della vita. Ci troviamo di fronte alla traduzione banale delle teorie nietzschiane del superuomo, che individuano proprio nel cristianesimo il nemico da abbattere, in quanto impedirebbe all’uomo di forgiarsi secondo i propri desideri, seguendo le sue pulsioni vitali. Non sono solo i limiti posti all’affermazione di sé che Nietzsche rifiuta nella visione cristiana della vita, ma anche l’attenzione che essa riserva verso le fragilità e le debolezze dell’umanità. Ma proprio nell’incapacità a cogliere nel gesto dell’amore verso i piccoli il senso stesso del nostro stare al mondo, questa visione della vita tutta centrata su se stessi e sulla propria autoaffermazione svela la sua debolezza e il suo volto illusorio, perché non riesce a rendere ragione di ciò che tutti sperimentiamo, il limite.

Torna allora attuale l’invito ad accogliere la chiamata al discepolato di Gesù come la vera strada per chi non vuole disperdersi dietro i sogni suoi e della mentalità dominante attorno a lui. Gesù infatti è garanzia di vita piena, per sé e per gli altri, perché fondata sulla sua forza di vittoria sul male e sulla morte e illuminata dalla sua esemplarità sfolgorante, quella che neanche chi si rifiuta alla fede riesce a negare.

In questo cammino ci attrae l’esperienza dei primi discepoli, quelli che hanno avuto il privilegio di incontrare l’umanità di Gesù lungo le rive del lago di Galilea e di poterla condividere lungo strade della Palestina, per scavarne il segreto divino che essa nascondeva. Ma senza rifugiarci in un impossibile ritorno indietro nella storia, la nostra esperienza di discepolato deve misurarsi con le condizioni con cui oggi Gesù ci invita a seguirlo; quelle condizioni che trovano un loro modello nella vicenda dei due discepoli sulla strada che va da Gerusalemme a Emmaus. Per noi, come per loro, la domanda su Gesù sta al centro delle considerazioni fondamentali del cammino della vita: «Due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Emmaus… e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto» (Lc 24,13-14). Non voglio dare per scontato questo atteggiamento. C’è troppa gente, anche tra gli stessi credenti, che non si lascia interrogare dalla vita, che vive in una persistente superficialità, con cui cerca di difendersi dai problemi e di allontanare il peso delle decisioni. Quello che ci accade intorno, quello che è accaduto a Gerusalemme duemila anni fa a riguardo del profeta venuto dalla Galilea, non può essere messo da parte come un incomodo fardello che potrebbe ostacolare la nostra spontaneità. Farsi carico della propria vita
e prendere sul serio la sfida che ci si propone a partire dalla vicenda storica di Gesù di Nazaret è il nostro primo impegno, la porta di accesso al vero discepolato. Senza questi interrogativi di fondo ogni risposta rischia di scivolare come l’acqua su una pietra levigata, senza possibilità che essa ci penetri e ci fecondi. Aprire il cuore e la mente alla domanda su chi è Gesù e su chi siamo noi: da qui parte la nostra avventura.

Essa poi va nutrita e sostenuta, altrimenti resteremmo preda delle nostre tristezze. Allo sconosciuto che vuole entrare in dialogo con loro e li interroga, si contrappone questa immagine di sconforto, che è la condizione di chi pur ponendosi gli interrogativi della vita non si è ancora aperto all’ascolto di una parola che possa illuminarli: «Ed egli disse loro: “Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?”. Si fermarono, col volto triste» (Lc 24,17). È la condizione di chi pensa di bastare a se stesso per trovare soluzioni agli interrogativi che lo assillano. Occorre invece uscire da noi stessi e aprirci al dialogo con una voce che sia capace di orientarci in modo nuovo.

È quanto accade sulla strada verso Emmaus, quando lo sconosciuto comincia a interloquire con i due discepoli e, alla narrazione dei fatti della passione e soprattutto alla confessione della speranza delusa, come pure agli enigmi legati a un sepolcro vuoto e ad apparizioni di angeli, oppone il richiamo alle parole profetiche, le sole in grado di gettare una luce decisiva su quanto era accaduto: «Disse loro: “Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?”. E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Lc 24,25-27). Non ci sono differenze in questo tra noi e i due sulla strada verso Emmaus: anche per noi risuona la voce di Gesù che ci consegna nelle parole della Scrittura, così come ci sono offerte e illuminate dalla Chiesa, la stessa chiave interpretativa della sua e della nostra vita. L’ascolto di queste parole è l’ulteriore passo, dopo quello dell’apertura alla domanda, che ci pone sul cammino del discepolato.

Non si può essere discepoli di Gesù senza essere uditori della Parola, senza nutrire le nostre giornate di ascolto e confronto con la parola di Dio, quella che la Chiesa proclama, leggendo con noi e per noi le pagine della Scrittura sacra. Chiediamoci allora quale spazio diamo nella nostra vita all’ascolto e alla meditazione della parola di Dio, valorizzando in particolare quella pratica di lettura che va sotto il nome di “lectio divina”: un metodo di ingresso nel significato della Parola mediante la lettura, ossia la spiegazione del senso delle parole così come sono proposte dal testo, la meditazione, ossia la collocazione del messaggio del testo nell’insieme della verità della fede, l’orazione, l’entrare in dialogo mediante le nostre parole con la parola che abbiamo ricevuto, e infine la contemplazione, il riflettere su come la Parola illumina la storia e in essa le scelte che ci sono richieste nella prospettiva dell’eterno.

Ma questo non basta ancora, perché come ben sappiamo c’è un altro passo da compiere perché per i due discepoli giunga lo svelamento dell’identità dello sconosciuto compagno di viaggio. È il passo che si compie attorno alla tavola a cui lo hanno invitato: «Essi insistettero: “Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto”: Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero» (Lc 24,29-31). Il gesto che Gesù compie ha un’evidente natura eucaristica e ci dice come solo nella partecipazione sacramentale alla sua stessa vita donata per noi è possibile giungere al compimento e alla pienezza dell’incontro. Solo in forza del dono di grazia del sacramento le parole prima udite svelano il loro pieno valore e diventano verità significativa per la vita: «Ed essi si dissero l’un l’altro: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?”» (Lc 24,32).

La vita sacramentale, percepita non come mero rimando simbolico, ma come efficace presenza del Salvatore alla nostra esistenza, una presenza che è di tutti i sacramenti e si fa propriamente reale nell’Eucaristia. Ne discende l’impegno a curare la nostra vita sacramentale, sia nella partecipazione assidua al gesto liturgico, quello della Messa come quello della Riconciliazione, sia nel prendersi cura degli effetti del sacramento nella vita, per tutti i sacramenti che abbiamo ricevuto, Battesimo e Confermazione, e che riceviamo, Penitenza ed Eucaristia. La vita sacramentale è ciò che ci salva dalla riduzione del cristianesimo a gnosi, a conoscenza, ed è ciò che esprime la consapevolezza che la radice del nostro discepolato è grazia e solo grazia.

Conosciamo tutti quale sia stato l’esito dell’incontro di Emmaus: «Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: “Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!”. Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane» (Lc 24,33-35). Camminare con Gesù, farsi suoi discepoli, accogliere la sua presenza di grazia nella Parola e nei sacramenti produce un’istanza missionaria, che spinge a condividere il dono che si è incontrato. Chi è davvero discepolo di Gesù, non può non esserne anche testimone e annunciatore.

Ma la narrazione evangelica evidenzia come la testimonianza dei due che vengono da Emmaus sia preceduta dalla parola della comunità, la quale fa appello all’esperienza apostolica, quella di Pietro, che è il fondamento e il discernimento di ogni esperienza personale. La fede che precede è la fede della Chiesa, quella che essa condivide come dono ricevuto dagli apostoli, posti da Gesù a suo fondamento. Sulla base di questa fede e filtrata dal raffronto con essa si fa spazio l’esperienza e la testimonianza individuale, che non potrà mai esprimersi in modo da questa dissonante. Testimoni, annunciatori, ma nel grembo della testimonianza ecclesiale e da questa illuminati e ad essa conformati.

La narrazione del vangelo di Luca a riguardo dei nostri due discepoli si ferma qui e non dice altro circa il futuro della loro vita. Ma è chiaro che l’incontro con Gesù non può agire solo a livello di consapevolezza: esso ha a che fare con l’intera esistenza del credente. Sono soprattutto le lettere neotestamentarie a illustrarci come aver incontrato Cristo esige che ci si conformi a lui nelle diverse dimensioni della nostra esistenza. Il cammino con Gesù è anche cammino di conversione a lui, in lui.

Lo ha illustrato in modo magistrale Benedetto XVI in una sua omelia, facendo riferimento alla frase dell’apostolo Paolo nella lettera ai Galati: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20). Così commentava il Papa: «Vivo, ma non sono più io. L’io stesso, la essenziale identità dell’uomo – di quest’uomo, Paolo – è stata cambiata. Egli esiste ancora e non esiste più. Ha attraversato un “non” e si trova continuamente in questo “non”: Io, ma “non” più io. […] Questa frase è l’espressione di ciò che è avvenuto nel Battesimo. Il mio proprio io mi viene tolto e viene inserito in un nuovo soggetto più grande. Allora il mio io c’è di nuovo, ma appunto trasformato, dissodato, aperto mediante l’inserimento nell’altro, nel quale acquista il suo nuovo spazio di esistenza» (Omelia nella Veglia Pasquale, Roma 25 aprile 2006). Il mutamento tocca la nostra sostanza: non è un problema soltanto etico, ma riguarda la mia identità e la assimila a quella di Gesù, così che io se voglio rimanere suo discepolo devo pensare come lui, scegliere conformement
e alla sua volontà, amare come lui ci ha amato.

Questo perché ormai gli apparteniamo. Ricorro ancora a parole del papa Benedetto: «Testimoni di Gesù risorto. Quel “di” va capito bene! Vuol dire che il testimone è “di” Gesù risorto, cioè appartiene a Lui, e proprio in quanto tale può rendergli valida testimonianza, può parlare di Lui, farLo conoscere, condurre a Lui, trasmettere la sua presenza» (Omelia alla messa in occasione del IV Convegno nazionale della Chiesa italiana, Verona 19 ottobre 2006).

L’appartenenza a Gesù implica due cose su cui, per finire, vorrei attirare la vostra attenzione. La prima riguarda il fatto che ogni dimensione della nostra vita viene da essa toccata: l’unità spirituale e corporale della nostra persona, le nostre relazioni con gli altri, la vita in famiglia, gli affetti, lo studio e il lavoro, il rapporto con i beni materiali, l’impegno nella vita sociale. Può essere utile metterci ancora all’ascolto dell’apostolo Paolo, da cui traggo, tra i molti possibili, un noto testo della lettera ai Galati: «Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne […]. Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne. La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste. Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge. Del resto sono ben note le opere della carne: fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere. Riguardo a queste cose vi preavviso, come già ho detto: chi le compie non erediterà il regno di Dio. Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è Legge. Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri. Perciò se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito» (Gal 5,13.16-25).

La seconda conseguenza del nostro appartenere a Cristo è che la sua presenza tra noi ha avuto un centro ben preciso, da cui non possiamo prescindere: la croce. Qui mi soccorrono le parole di Papa Francesco: «Perché la Croce? Perché Gesù prende su di sé il male, la sporcizia, il peccato del mondo, anche il nostro peccato, di tutti noi, e lo lava, lo lava con il suo sangue, con la misericordia, con l’amore di Dio. Guardiamoci intorno: quante ferite il male infligge all’umanità! Guerre, violenze, conflitti economici che colpiscono chi è più debole [..]. Amore al denaro, potere, corruzione, divisioni, crimini contro la vita umana e contro il creato! E anche – ciascuno di noi lo sa e lo conosce – i nostri peccati personali: le mancanze di amore e di rispetto verso Dio, verso il prossimo e verso l’intera creazione. E Gesù sulla croce sente tutto il peso del male e con la forza dell’amore di Dio lo vince, lo sconfigge nella sua risurrezione. Questo è il bene che Gesù fa a tutti noi sul trono della Croce. La croce di Cristo abbracciata con amore mai porta alla tristezza, ma alla gioia, alla gioia di essere salvati» (Omelia alla messa della Domenica delle Palme, 24 marzo 2013, n. 2). Dunque, consapevolezza del mistero del male, ma anche certezza di un amore, quello di Dio, che è capace di vincere ogni male, aprendo anche a noi la prospettiva del dono di sé come strada per la vera vita: con Gesù e come Gesù.

Giuseppe card. Betori
Arcivescovo di Firenze

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ZENIT Staff

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