Incontro con il Clero, i Religiosi, le Religiose e il Consiglio Ecumenico delle Chiese della Cattedrale di Rabat - Viaggio Apostolico in Marocco (30-31 marzo 2019) - Foto © Servizio Fotografico - Vatican Media

"Essere cristiano è un incontro"

Incontro con il Clero, i Religiosi, le Religiose e il Consiglio Ecumenico delle Chiese della Cattedrale di Rabat – Viaggio Apostolico in Marocco (30-31 marzo 2019)

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Alle ore 10.35 di oggi (11.35 ora di Roma), il Santo Padre Francesco arriva alla Cattedrale di Rabat per l’incontro con il Clero, i Religiosi, le Religiose e il Consiglio Ecumenico delle Chiese. Al Suo arrivo è accolto, all’ingresso della Cattedrale, dal Parroco e da tre sacerdoti incaricati della pastorale che gli porgono il crocifisso e l’acqua benedetta per l’aspersione. Poi percorre la navata centrale mentre la corale intona il canto. Dopo un momento di preghiera silenziosa davanti al Santissimo, introdotto dalle brevi testimonianze e dai saluti di un sacerdote e di una religiosa, Papa Francesco pronuncia il discorso che riportiamo di seguito:
Discorso del Santo Padre
Cari fratelli e sorelle,
sono molto felice di potervi incontrare. Ringrazio specialmente padre Germain e suor Mary per le loro testimonianze. Desidero anche salutare i membri del Consiglio Ecumenico delle Chiese, che mostra visibilmente la comunione vissuta qui in Marocco tra cristiani di diverse confessioni, sulla via dell’unità.
I cristiani sono un piccolo numero in questo Paese. Ma questa realtà non è, ai miei occhi, un problema, anche se riconosco che a volte può diventare difficile da vivere per alcuni. La vostra situazione mi ricorda la domanda di Gesù: «A che cosa è simile il regno di Dio, e a che cosa lo posso paragonare? […] È simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata» (Lc 13,18.21).
Parafrasando le parole del Signore potremmo chiederci: a che cosa è simile un cristiano in queste terre? A che cosa lo posso paragonare? È simile a un po’ di lievito che la madre Chiesa vuole mescolare con una grande quantità di farina, fino a che tutta la massa fermenti. Infatti, Gesù non ci ha scelti e mandati perché diventassimo i più numerosi! Ci ha chiamati per una missione. Ci ha messo nella società come quella piccola quantità di lievito: il lievito delle beatitudini e dell’amore fraterno nel quale come cristiani ci possiamo tutti ritrovare per rendere presente il suo Regno.
Questo significa, cari amici, che la nostra missione di battezzati, di sacerdoti, di consacrati, non è determinata particolarmente dal numero o dalla quantità di spazi che si occupano, ma dalla capacità che si ha di generare e suscitare cambiamento, stupore e compassione; dal modo in cui viviamo come discepoli di Gesù, in mezzo a coloro dei quali noi condividiamo il quotidiano, le gioie, i dolori, le sofferenze e le speranze (cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 1). In altre parole, le vie della missione non passano attraverso il proselitismo, che porta sempre a un vicolo cieco, ma attraverso il nostro modo di essere con Gesù e con gli altri. Quindi il problema non è essere poco numerosi, ma essere insignificanti, diventare un sale che non ha più il sapore del Vangelo, o una luce che non illumina più niente (cfr Mt 5,13-15). Penso che la preoccupazione sorge quando noi cristiani siamo assillati dal pensiero di poter essere significativi solo se siamo la massa e se occupiamo tutti gli spazi.
Voi sapete bene che la vita si gioca con la capacità che abbiamo di “lievitare” lì dove ci troviamo e con chi ci troviamo. Anche se questo può non portare apparentemente benefici tangibili o immediati (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 210). Perché essere cristiano non è aderire a una dottrina, né a un tempio, né a un gruppo etnico. Essere cristiano è un incontro. Siamo cristiani perché siamo stati amati e incontrati e non frutti di proselitismo. Essere cristiani è sapersi perdonati e invitati ad agire nello stesso modo in cui Dio ha agito con noi, dato che «da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35).
Consapevole del contesto in cui siete chiamati a vivere la vostra vocazione battesimale, il vostro ministero, la vostra consacrazione, cari fratelli e sorelle, mi viene in mente quella parola del Papa San Paolo VI nell’Enciclica Ecclesiam suam: «La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio» (n. 67). Affermare che la Chiesa deve entrare in dialogo non dipende da una moda, tanto meno da una strategia per aumentare il numero dei suoi membri. Se la Chiesa deve entrare in dialogo è per fedeltà al suo Signore e Maestro che, fin dall’inizio, mosso dall’amore, ha voluto entrare in dialogo come amico e invitarci a partecipare della sua amicizia (cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Dei Verbum, 2). Così, come discepoli di Gesù Cristo, siamo chiamati, fin dal giorno del nostro Battesimo, a far parte di questo dialogo di salvezza e di amicizia, di cui siamo i primi beneficiari.
Il cristiano, in queste terre, impara ad essere sacramento vivo del dialogo che Dio vuole intavolare con ciascun uomo e donna, in qualunque condizione viva. Un dialogo che, pertanto, siamo invitati a realizzare alla maniera di Gesù, mite e umile di cuore (cfr Mt 11,29), con un amore fervente e disinteressato, senza calcoli e senza limiti, nel rispetto della libertà delle persone. In questo spirito, troviamo dei fratelli maggiori che ci mostrano la via, perché con la loro vita hanno testimoniato che questo è possibile, una “misura alta” che ci sfida e ci stimola. Come non evocare la figura di San Francesco d’Assisi che, in piena crociata, andò ad incontrare il Sultano al-Malik al-Kamil? E come non menzionare il Beato Charles de Foucault che, profondamente segnato dalla vita umile e nascosta di Gesù a Nazaret, che adorava in silenzio, ha voluto essere un “fratello universale”? O ancora quei fratelli e sorelle cristiani che hanno scelto di essere solidali con un popolo fino al dono della propria vita? Così, quando la Chiesa, fedele alla missione ricevuta dal Signore, entra in dialogo con il mondo e si fa colloquio, essa partecipa all’avvento della fraternità, che ha la sua sorgente profonda non in noi, ma nella Paternità di Dio. Tale dialogo di salvezza, come consacrati siamo invitati a viverlo anzitutto come intercessione per il popolo che ci è stato affidato.
Ricordo una volta, parlando con un sacerdote che si trovava come voi in una terra dove i cristiani sono minoranza, mi raccontava che la preghiera del “Padre nostro” aveva acquistato in lui un’eco speciale perché, pregando in mezzo a persone di altre religioni, sentiva con forza le parole «dacci oggi il nostro pane quotidiano». La preghiera di intercessione del missionario anche per quel popolo, che in una certa misura gli era stato affidato, non da amministrare ma da amare, lo portava a pregare questa preghiera con un tono e un gusto speciali. Il consacrato, il sacerdote porta al suo altare, nella sua preghiera la vita dei suoi conterranei e mantiene viva, come attraverso una piccola breccia in quella terra, la forza vivificante dello Spirito. Che bello è sapere che, in diversi angoli di questa terra, nelle vostre voci il creato può implorare e continuare a dire: “Padre nostro”! È un dialogo che, pertanto, diventa preghiera e che possiamo realizzare concretamente tutti i giorni in nome «della “fratellanza umana” che abbraccia tutti gli uomini, li unisce e li rende uguali. In nome di questa fratellanza lacerata dalle politiche di integralismo e divisione e dai sistemi di guadagno smodato e dalle tendenze ideologiche odiose, che manipolano le azioni e i destini degli uomini» (Documento sulla fratellanza umana, Abu Dhabi, 4 febbraio 2019). Una preghiera che non distingue, non separa e non emargina, ma che si fa eco della vita del prossimo; preghiera di intercessione che è capace di dire al Padre: «venga il tuo regno». Non con la violenza, non con l’odio, né con la supremazia etnica, religiosa, economica, ma con la forza della compassione riversata sulla Croce per tutti gli uomini. Questa è l’esperienza vissuta dalla maggior parte di voi.
Ringrazio Dio per quello che avete fatto, come discepoli di Gesù Cristo, qui in Marocco, trovando ogni giorno nel dialogo, nella collaborazione e nell’amicizia gli strumenti per seminare futuro e speranza. Così smascherate e riuscite a mettere in evidenza tutti i tentativi di usare le differenze e l’ignoranza per seminare paura, odio e conflitto. Perché sappiamo che la paura e l’odio, alimentati e manipolati, destabilizzano e lasciano spiritualmente indifese le nostre comunità. Vi incoraggio, senza altro desiderio che di rendere visibile la presenza e l’amore di Cristo che si è fatto povero per noi per arricchirci con la sua povertà (cfr 2 Cor 8,9): continuate a farvi prossimi di coloro che sono spesso lasciati indietro, dei piccoli e dei poveri, dei prigionieri e dei migranti. Che la vostra carità si faccia sempre attiva e sia così una via di comunione tra i cristiani di tutte le confessioni presenti in Marocco: l’ecumenismo della carità. Che possa essere anche una via di dialogo e di cooperazione con i nostri fratelli e sorelle musulmani e con tutte le persone di buona volontà. È la carità, specialmente verso i più deboli, la migliore opportunità che abbiamo per continuare a lavorare in favore di una cultura dell’incontro. Che essa infine sia quella via che permette alle persone ferite, provate, escluse di riconoscersi membri dell’unica famiglia umana, nel segno della fraternità. Come discepoli di Gesù Cristo, in questo stesso spirito di dialogo e di cooperazione, abbiate sempre a cuore di dare il vostro contributo al servizio della giustizia e della pace, dell’educazione dei bambini e dei giovani, della protezione e dell’accompagnamento degli anziani, dei deboli, dei disabili e degli oppressi.
Ringrazio ancora tutti voi, fratelli e sorelle per la vostra presenza e per la vostra missione qui in Marocco. Grazie per il vostro servizio umile e discreto, sull’esempio dei nostri anziani nella vita consacrata, tra i quali voglio salutare la decana, suor Ersilia. Attraverso di te, cara Sorella, rivolgo un cordiale saluto alle sorelle e ai fratelli anziani che, a motivo del loro stato di salute, non sono presenti fisicamente ma sono uniti a noi mediante la preghiera. Tutti voi siete testimoni di una storia che è gloriosa perché è storia di sacrifici, di speranza, di lotta quotidiana, di vita consumata nel servizio, di costanza nel lavoro faticoso, perché ogni lavoro è sudore della fronte. Ma permettetemi anche di dirvi: «Voi non avete solo una gloriosa storia da ricordare e da raccontare, ma una grande storia da costruire! Guardate al futuro, nel quale lo Spirito vi proietta» (Esort. ap. postsin. Vita consecrata, 110), per continuare ad essere segno vivo di quella fraternità alla quale il Padre ci ha chiamato, senza volontarismi e rassegnazione, ma come credenti che sanno che il Signore sempre ci precede e apre spazi di speranza dove qualcosa o qualcuno sembrava perduto. Il Signore benedica ognuno di voi e, attraverso di voi, i membri di tutte le vostre comunità. Il suo Spirito vi aiuti a portare frutti in abbondanza: frutti di dialogo, di giustizia, di pace, di verità e d’amore affinché qui, in questa terra amata da Dio, cresca la fraternità umana. E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie! E ora ci mettiamo sotto la protezione della Vergine Maria recitando l’Angelus.

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ZENIT Staff

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