Essere cattolici in Albania, incarnando l’amore per la libertà

Intervista a monsignor Angelo Massafra, arcivescovo di Scutari

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di Elvira Zito – Segretariato Italiano “Aiuto alla Chiesa che Soffre”

ROMA, mercoledì, 16 luglio 2008 (ZENIT.org).- Da san Paolo agli slavi, dai turchi al regime comunista di Henver Hoxha: dal punto di vista religioso, la storia dell’Albania è caratterizzata da una lunga strada, spesso molto difficile, cominciata nei primi anni dopo Cristo.

«Se qualcuno non crede alla risurrezione di Cristo, venga in Albania», ha affermato monsignor Angelo Massafra, OFM, dal 1998 arcivescovo di Scutari, una diocesi eretta nel IV secolo. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare la Chiesa e l’Albania di ieri e di oggi.

Eccellenza, cominciamo da una riflessione sul cattolicesimo: origini antichissime, sopravvissuto a una delle più feroci persecuzioni dei regimi in Europa Orientale, oggi religione di circa il 10-15% della popolazione. Cosa vuol dire essere cattolico nel suo Paese?

Sì, le origini del cattolicesimo in Albania sono molto antiche. Il primo evangelizzatore fu san Paolo che nella sua Lettera ai Romani (Rm 15,19) fa esplicito riferimento all’Illiria; anche le strutture ecclesiastiche – i vescovi erano allora già 50 – risalgono ai primi secoli dopo Cristo e sono citate nei Concili di Nicea e di Costantinopoli che si tennero alla fine del IV secolo. Percorrendo ancora la nostra storia, nei secoli VIII-IX giunsero gli slavi che conquistarono i Balcani e, alla fine del 1400, l’Albania divenne parte dell’Impero Ottomano fino al 1912. Poi, dal 1946 al 1990, il Paese ha vissuto uno dei periodi più bui della sua storia, con il regime comunista. Proprio alla luce di questo excursus, posso dire che qui essere cattolici vuol dire incarnare anche l’amore per la libertà, perché – mai e, in particolare, sotto il regime comunista – i cattolici albanesi si sono arresi e hanno saputo eroicamente far fronte alla persecuzione.

Nonostante l’Albania nel 1967 sia stata dichiarata da Henver Hoxha “Stato ateo”, Gesù Cristo è riuscito però a rimanere nel cuore dei credenti…

È vero, la gente ha dato prova di attaccamento a Cristo e alla sua Chiesa, anche perché la nostra cultura è profondamente legata al cattolicesimo. Ne è prova il fatto che i primi libri in lingua albanese sono libri sacri, come il “Messale di Gjon Buzuky” che risale al 1555. Voglio dire che – nonostante sotto il comunismo la Chiesa sia stata costretta a “scomparire” dalla vita pubblica – è anche in virtù di questo forte radicamento culturale del cristianesimo che la gente ha continuato a credere e a celebrare clandestinamente i sacramenti e le festività più significative.

Anton Luli e Mikel Koliqi sono le due figure di sacerdoti albanesi perseguitati più conosciuti, ma l’elenco sarebbe lunghissimo. Anche in Albania il sangue dei martiri è stato seme di nuovi cristiani?

L’elenco è molto lungo perché il comunismo ha voluto tagliare la testa della Chiesa. Ne ha ucciso i vescovi, i sacerdoti e laici e, anche coloro che non sono stati uccisi, hanno subito torture gravissime (negli archivi è stata recentemente scoperta una lista che ne elenca più di 30 tipi) che li hanno resi dei veri e propri martiri del XX secolo. «Viva Cristo Re!» erano le ultime parole che pronunciavano… Il loro esempio di dignità e di perdono è continuato anche dopo la caduta del regime. Ricordo che monsignor Frano Illia – condannato a morte nel 1968, condanna che gli venne poi commutata nei lavori forzati – mi raccontò che un suo carceriere, un giorno, nel reincontrarlo, gli chiese: «Mi riconosci?». Lui gli rispose: «Ti riconosco e ti ho già perdonato». Aggiungo che la memoria del martirio è molto importante: proprio a Scutari, nel luogo dove venivano interrogati, torturati e condannati i nostri “martiri” insieme agli altri, proprio questo luogo – una ex-scuola dei Francescani – è stato trasformato in monastero ed è abitato dalle monache Clarisse che lo custodiscono gelosamente come “una piccola Auschiwitz” nella quale ci sono ancora le tracce delle torture che il regime comunista praticava a coloro che venivano reclusi lì. Sono la testimonianza di una fede incancellabile.

Un simbolo di questa incancellabilità è la devozione alla Madonna del Buon Consiglio. Il Santuario, che venne distrutto la prima volta nel 1467 durante l’invasione ottomana e poi nuovamente dal regime, è meta incessante di pellegrinaggi…

Il Santuario della Madonna del Buon Consiglio ha una storia incredibile, di distruzioni e risurrezione. In particolare durante il mese di maggio, migliaia di cattolici lo raggiungono per esprimere la loro devozione alla Madonna che è anche protettrice e patrona dell’Albania. La sua icona si trova a Genazzano dal 1468, anno in cui le famiglie cattoliche la portarono via dal Santuario che era prossimo alla distruzione, per metterla “in salvo”… A proposito di devozioni forti, voglio ricordare anche quella a San Nicola e a Sant’Antonio, particolarmente amato anche dagli ortodossi e dai musulmani che spesso si recano al santuario di Laç Kurbini.

Come risponde la Chiesa al vuoto morale lasciato dalla dittatura comunista? E quali sono quindi le priorità della vostra azione pastorale?

Il comunismo non ha prodotto soltanto un vuoto morale, ma ha compiuto una vera e propria disumanizzazione della persona. La rilettura della storia ci fa dire che quello albanese è stato il più feroce dei regimi comunisti in Europa dell’Est e non soltanto per la violenza fisica praticata nei confronti degli esponenti delle religioni – che fu particolarmente feroce verso i cattolici – ma anche per la vera e propria derisione del sacro che venne fatta. Le chiese furono distrutte, chiuse o destinate ad altro uso; la cattedrale di Scutari, ad esempio, venne convertita in un palazzetto dello sport… Tutto questo ha generato uno svuotamento interiore che, con la ritrovata libertà, le persone tentano spesso di riempire con il consumismo e con il denaro, un’avidità che sta producendo una diffusa corruzione, oltre che un mancato rispetto dell’altro. Per questo, nella nostra azione pastorale, partiamo spesso dalla base, dai Comandamenti e insistiamo molto su valori come la famiglia e la tutela della vita per la quale noi vescovi albanesi abbiamo recentemente deciso di fare una Lettera pastorale comune.

Aiuto alla Chiesa che Soffre”, sia durante la persecuzione che all’indomani della caduta del regime, ha sostenuto la sopravvivenza e la rinascita della Chiesa albanese. Quali sono oggi le vostre necessità più urgenti?

Abbiamo bisogno di sostenere le vocazioni, soprattutto quelle sacerdotali. Tra le priorità c’è sicuramente anche quella di una maggiore “comunicazione” sui temi religiosi. È necessario avere a disposizione non solo libri per la catechesi, ma anche i documenti del Magistero del Papa, come le Encicliche, affinché si formi la nuova generazione di cattolici; sono progetti spesso molto onerosi, anche per il costo delle traduzioni. Poi, dobbiamo preparare personale per il settore degli audiovisivi religiosi, perché questa è la via di comunicazione nuova. Così come per le istituzioni cattoliche è utile avere una pagina web che renda possibile e rapido il contatto… So che “Aiuto alla Chiesa che Soffre” è impegnata in questi ambiti, per cui l’aiuto che ci arriva dalle organizzazioni della Chiesa per noi è preziosissimo.

La ritrovata libertà religiosa ha dato nuovo impulso anche alle vocazioni?

Nel 2000 abbiamo avuto le prime ordinazioni di seminaristi locali e posso dire che, attualmente, le vocazioni non sono nè molte nè poche… Negli anni immediatamente successivi alla caduta del regime, ci siamo resi conto che era necessario “filtrare” gli ingressi in seminario, perché il sacedozio era considerato da molti giovani una specie di corsia preferenziale per andare all’estero. Le vocazioni femminili sono distribuite tra le numerose Congregazioni presenti in Albania, alle qu
ali va un grande e caloroso ringraziamento.

Spesso viene adoperata l’espressione “la religione degli albanesi è l’albanesità” che allude a una sorta di indifferenza religiosa… Lei è arcivescovo di Scutari da dieci anni, qual è la sua esperienza?

L’albanesità è un fattore per lo più positivo, è quasi una fratellanza di sangue, considerato che in Albania il popolo appartiene a un’unica etnia che ha soltanto delle piccole differenze linguistiche. Anche questa “albanesità” ha fatto sì che fosse raggiunta l’indipendenza dai turchi e la mia esperienza mi fa dire che è un aspetto che non è mai andato a scapito dell’attaccamento alla propria religione.

Cattolicesimo, ortodossia, islam. Non solo è un mosaico religioso, ma l’Albania è anche l’unico Paese europeo a maggioranza musulmana: come descriverebbe questa presenza nel cuore del vecchio continente?

Sebbene non sia idilliaca, direi che la convivenza è buona. Recentemente – e questo è senz’altro un elemento molto positivo – abbiamo istituito, anche con i musulmani e gli ortodossi, il “Consiglio Interreligioso Nazionale”, un’iniziativa che mi stava particolarmente a cuore e per la quale, proprio a Scutari, stavamo lavorando dal 2002, anche redigendo una bozza di statuto e ispirandoci a un’analoga istituzione che esiste nella vicina Bosnia-Erzegovina.

Prima dell’avvento del comunismo, la Chiesa cattolica era un punto di riferimento anche per la cultura umanistica e laica. Siete già tornati a dare questo tipo di contributo?

Occorre del tempo per riportare i cattolici a essere punto di riferimento della cultura come nel passato. A noi sta il compito di formare, di far conoscere ai nostri cattolici i valori cristiani, la dottrina sociale della Chiesa (abbiamo tradotto in albanese il «Compendio della Dottrina sociale della Chiesa» e altre Encicliche sociali!), in una parola far conoscere i valori universali.

Rimanendo in argomento, come definirebbe i rapporti tra Stato e Chiesa?

Li definirei molto buoni, perché – già subito dopo la caduta del regime – c’è stato il riconoscimento della libertà religiosa. Nel 2002 è stato firmato un Accordo di base tra la Santa Sede e lo Stato – in cui una delle norme più importanti è stata quella del riconoscimento alla Chiesa della personalità giuridica – e, poco tempo dopo, un accordo economico. Naturalmente, non mancano degli attriti… come quello che sta causando la recente legge secondo cui le scuole private dovranno versare allo Stato, sulle rette di ciascun allievo, il 20% di imposte. Ci stiamo muovendo a tutti i livelli perché tale legge non sia applicata. Nelle nostre scuole cattoliche “non profit” il contributo versato dagli allievi è praticamente simbolico e molti, i più poveri, non pagano; noi non lavoriamo per il profitto, ma per rendere un servizio al Paese, un servizio particolarmente importante anche considerando che in talune zone si sta tornando verso l’analfabetismo.

In conclusione, le chiediamo quali sono le speranze e le prospettive della Chiesa in Albania..

La comunità cattolica è estremamente vitale. Impegnata, desiderosa di vivere il cattolicesimo. Le suore e i sacerdoti sono non solo annunciatori e testimoni del Vangelo, ma anche un fondamentale punto di riferimento per la gente. La mia più grande preoccupazione – come ho detto al Papa durante la recentissima visita ad Limina – è data sia dalla riduzione degli aiuti per i poveri, e soprattutto per le famiglie numerose di figli, sia dalla difficoltà di riperimento di fondi per le spese per la formazione dei seminaristi e per il sostentamento del clero nell’opera di evangelizzazione. I fedeli sono generosi, anche se poveri, però il loro contributo non è sufficiente per l’evangelizzazione… specie nelle zone di montagna, dove le spese per i sacerdoti, i religiosi e le religiose sono molto onerose. Per cui chiediamo ad “Aiuto alla Chiesa che Soffre” e ad altri Enti ecclesiali di continuare a sostenerci nell’opera di evangelizzazione, in questo momento di grazia.

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ZENIT Staff

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