E' lecito incoraggiare ricerche prenatali che possono indurre ad abortire?

Il prof. Carlo Bellieni* risponde alla domanda di un lettore

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ROMA, domenica, 7 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Si fanno sempre più presenti, come in altri campi di ricerca, metodi medico/scientifici per diagnosticare nei primi mesi di vita intrauterina i bambini che avranno la sindrome di Down. Non sempre, ma almeno il 25% delle mamme decide di abortire. Vista la finalità, che pare semplicemente informativa per i genitori, o al massimo prepartiva a livello psicologico, fino a che punto è lecito incoraggiare queste ricerche o manifestazioni pubbliche a favore di esse?

G.B.

* * *

 

Risponde il prof. Bellieni*:

La diagnosi prenatale può essere ti tipo genetico e non genetico. La diagnosi genetica prenatale si esegue in via diretta (amniocentesi, villocentesi) o in via indiretta (con particolari ecografie mirate o con l’analisi del sangue materno alla ricerca di certi metaboliti). E’ bene distinguere la diagnosi genetica prenatale dalla diagnosi prenatale in generale, sapendo che lo scopo della prima è di verificare l’assetto cromosomico del bambino, mentre la seconda comprende anche la prima, ma si estende a cercare malattie situazioni di tipo medico (ritardo di accrescimento, malformazioni, sofferenza fetale), molte delle quali sono curabili.

La ricerca in sé è sempre una cosa buona; il problema è valutare in prima cosa che a fronte di una imponente investimento di denaro per la diagnosi prenatale genetica, non c’è assolutamente altrettanto investimento per la ricerca della terapia di malattie come la sindrome Down. La pubblicizzazione di tecniche di diagnosi genetica prenatale può essere utile per evitare l’uso eccessivo di quelle invasive, ma può anche creare una mentalità in cui la coppia si senta obbligata a farla.

La preoccupazione del lettore è giustificata, perché non esiste nulla di eticamente neutro in medicina così come in altri aspetti della vita: tutto ciò che facciamo deve passare al vaglio del nostro giudizio; abdicare a questo è abdicare al governo di sé; di questo argomento ci siamo già occupati su ZENIT (25 maggio 2008) e con un recente documento che abbiamo pubblicato a cura di alcuni medici, bioeticisti e associazioni di disabili e cui può accedere cliccando su http://vocabolariodibioetica.splinder.com/post/17193474/Documento+diagnosi+prenatale.

Resta la necessità di avere dei punti di riferimento in questo ambito, in cui la possibilità di fare errori è alta, e per questo suggerisco dei punti per un atteggiamento etico verso la diagnosi prenatale, di cui alcuni rivolti alla famiglia, altri per chi governa la sanità pubblica.

Criteri per la famiglia

1. La diagnosi prenatale dovrebbe avere un intento positivo per la salute del figlio e della madre. La diagnosi genetica prenatale non ha al momento un’utilità curativa per il bambino.

2. Una diagnosi genetica prenatale può, in casi particolarmente densi di tensione, servire a rasserenare la coppia in caso di forte ansia sulla salute genetica del bambino, ma la sua esecuzione non dovrebbe essere routinaria per non creare la mentalità (nella coppia e nella popolazione) che il primo atteggiamento da avere verso il figlio sia “accertarne la normalità” .

3. La diagnosi genetica prenatale non può essere routine (“perché la fanno tutte”) ma semmai deve essere una precisa scelta, perché ogni intervento medico ha alla base il consenso informato e la scelta libera del paziente. In questo caso, inoltre, il paziente su cui si fa l’indagine non è ancora nato e la scelta di fare su di lui/lei una diagnosi è presa per delega dal genitore che ne ha la responsabilità.

4. Intraprendendo la diagnosi genetica prenatale bisogna avere sempre la coscienza che stiamo facendo la diagnosi ad un bambino vero e proprio, anche se non ancora nato.

5. La diagnosi genetica prenatale diretta (amniocentesi, villocentesi) comporta dei rischi per la salute del bambino (rischio di aborto non voluto di circa 1 su 100 o 200 amniocentesi)

Criteri per chi offre la diagnosi

1. La diagnosi genetica prenatale deve essere preceduta da un colloquio che ne spieghi finalità e rischi; deve essere fornito un modulo che li riassuma e deve essere fatto firmare. Il modulo deve contenere anche la percentuale di rischio di aborto non voluto registrato presso la struttura che esegue l’intervento di diagnosi invasiva e la durata stessa del colloquio.

2. In caso di diagnosi di patologia, la donna o la coppia va indirizzata dallo specialista della patologia riscontrata col quale verrà approfondita la possibilità terapeutica e la reale entità del problema. Può essere utile coinvolgere anche associazioni ufficialmente riconosciute di familiari o di malati della patologia in questione.

***

*Dirigente del Dipartimento Terapia Intensiva Neonatale del Policlinico Universitario “Le Scotte” di Siena e membro della Pontificia Accademia Pro Vita.

[I lettori sono invitati a porre domande sui vari temi di bioetica scrivendo all’indirizzo: bioetica@zenit.org. I diversi esperti che collaborano con ZENIT provvederanno a rispondere ai temi che verranno sollevati. Si prega di indicare il nome, le iniziali del cognome e la città di provenienza]

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ZENIT Staff

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