Due consigli di San Tommaso d’Aquino

ROMA, sabato, 14 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo dell’omelia pronunciata dall’Arcivescovo Jean-Louis Bruguès, Segretario della Congregazione per l’Educazione Cattolica, durante la messa tenutasi il 28 gennaio scorso alla Pontificia Università San Tommaso “Angelicum” per la festa di San Tommaso d’Aquino.

 

 

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        Ancora una volta, il Vangelo ci ha fatto udire l’invito solenne del Signore a diventare il sale della terra e la luce del mondo. Questo passo appartiene al Discorso della montagna, di cui costituisce una sorta di conclusione: dopo aver tratteggiato, con le otto beatitudini, il ritratto del discepolo della nuova legge, egli fissa il suo statuto sociale. La “Giornata mondiale dei giovani”, che si è svolta a Toronto nel 2002, aveva scelto questo stesso tema. In una catechesi che mi era stata chiesta, io avevo invitato i giovani alla fierezza. Sì, è un onore essere battezzati, e questo onore deve diventare visibile agli occhi di tutti. Il sale rimanda alla sapidità, a tutto ciò che dà gusto, dunque alla saggezza. Il discepolo di Cristo ama la vita. Egli sa goderne sotto lo sguardo di Dio: questo gusto, questa gioia di vivere, questa saggezza giovane, gli viene richiesto di farla partecipe attorno a sé. Così facendo egli diventa una luce per il mondo. Io non ho mai creduto che esistano cristiani anonimi, non ho mai pensato che si possa essere cristiani senza saperlo; il discepolo non si nasconde, né si lascia confondere con la massa. Per il suo modo d’essere  – la sua saggezza – e la sua maniera luminosa di pensare, egli rifiuta ogni sorta di conformismo. Che questa differenza costi, lo sappiamo tutti molto bene: alcuni potranno meravigliarsi di questo comportamento così particolare, prenderlo in giro o criticarlo, ma nulla saprà spegnere la fierezza del discepolo scelto per testimoniare l’amore di Dio.

        Saggezza, luce: sono queste le parole che vengono spontaneamente alla mente quando si parla di San Tommaso d’Aquino. La prima lettura inseriva il maestro domenicano nella lunga lista dei saggi, che attraverso i secoli, o anche i millenni, hanno illustrato il timore del Signore. «Ho pregato e mi è stata donata l’intelligenza»: queste parole iniziali avrebbero potuto trovarsi sulle labbra stesse del nostro santo. Preparando questa omelia, ho voluto rileggere il decreto con il quale, il 25 maggio 1727, il Papa Benedetto XIII erigeva lo Studium dei Domenicani, antenato diretto dell’Università in cui noi ci troviamo. Esso presenta la dottrina di colui che sarebbe diventato il dottore comune della Chiesa, come una luce destinata a illuminare non solo la Chiesa, ma anche tutta la società. Una luce che ha permesso di denunciare gli errori del passato, una luce per meglio comprendere gli errori dei tempi presenti (n. 30). 1727: in molti paesi d’Europa, una nuova visione dell’uomo e del mondo comincia a nascere nell’intellighenzia, sotto l’influsso degli Enciclopedisti. La secolarizzazione della società fa i suoi primi passi. Verso chi si rivolge la Chiesa? Non certo verso i teologi del momento – si sarebbe fatta molta fatica a trovarli! -, ma verso un Antico che aveva anticipato l’Europa intellettuale e studiato, poi insegnato a Colonia, Parigi, Orvieto, Roma e in ultimo a Napoli.

            In questo inizio di millennio, quando la secolarizzazione si è imposta in più continenti, mi sembra che l’atteggiamento della nostra Chiesa deve rimanere lo stesso: rivolgersi, non tanto verso un riferimento storico peraltro molto lontano dalla nostra cultura, ma verso un maestro, nel senso assoluto di questo termine, il cui fascino trascende i secoli. Nova et vetera: Tommaso d’Aquino ebbe il genio di radicarsi nella Tradizione più solida (lo testimoniano la sua conoscenza dei Padri e il suo debito verso Sant’Agostino molto più forte di quanto lo si sembra riconoscere, da appena qualche decennio), al fine di cogliere dall’interno le sfide della modernità. L’assimilazione del passato prepara sempre il futuro. Sentiamolo allora darci due grandi consigli per oggi.

Primo consiglio: mai separare il lavoro intellettuale dalla vita di unione con Dio. Certamente, per San Tommaso la teologia ha una funzione speculativa e sistematica ben definita, che consiste nel proporre una “intelligenza” della fede, dando delle ragioni certe o probabili, per eliminare gli errori. Altrettanto, egli non separa mai questa prospettiva immediata da una finalità più spirituale, che si potrebbe riassumere in una parola: l’elevazione dello spirito. A proposito di una questione trinitaria delicata, San Tommaso rileva: «Una tale ricerca non è inutile, perché attraverso di essa lo spirito è elevato per cogliere qualcosa della verità [cum per eam elevetur animus ad aliquid veritatis capiendum]» (De pot., q. 9, a. 5). Questa elevazione è percepita come anticipazione o preparazione della visione beatifica. Rimaniamo sempre nella prospettiva aperta dalle beatitudini proclamate nel Discorso della montagna. Ecco perché il lavoro speculativo, secondo Tommaso è fonte di gioia. «E’ utile, egli spiega all’inizio della Summa contro i Gentili, che lo spirito umano si eserciti a queste ragioni anche se sono deboli, a condizione che non abbia la pretesa di comprendere o di dimostrare. Perché poter percepire qualcosa delle realtà più alte, anche se soltanto con uno sguardo debole e limitato, procura la più grande gioia [jucundissimum] » (SCG, L. I, cap. 8, n. 49).

            Mi pare che questo primo consiglio ci difenda contro quello che io chiamerei il rischio di una auto-secolarizzazione rampante presso quelli che hanno ricevuto l’incarico di insegnare nella Chiesa: guardando le «cose dall’alto», come se si mettesse l’obbiettivo fotografico sull’infinito, questi ultimi dovrebbero vedere meglio ordinarsi i diversi piani della realtà. Commemorando il centesimo anniversario del teologo Hans Urs von Balthasar, nel 2005, colui che era appena stato eletto Papa sotto il nome di Benedetto XVI, gli rendeva questo omaggio: «Egli aveva profondamente compreso che la teologia può soltanto svilupparsi nella preghiera, che coglie la presenza di Dio e che si affida a Lui nell’obbedienza».

            Il secondo consiglio che ci lascia il dottore angelico raggiunge con molta precisione una proposizione fatta dai Padri dell’ultimo Sinodo tenutosi a Roma nell’ottobre scorso: «Superare il dualismo tra esegesi e teologia» (Proposizione 27). Il testo riprendeva così le stesse parole del Papa Benedetto XVI: «Dove l’esegesi non è teologia, la Scrittura non può essere l’anima della teologia e, viceversa, dove la teologia non è essenzialmente interpretazione della Scrittura nella Chiesa, questa teologia non ha più fondamento» (martedì 14 ottobre 2008). San Tommaso ci dona un esempio meraviglioso di questa unità tra la meditazione della Parola di Dio e la riflessione sistematica. La Summa teologica propone un andare e venire costante tra questa Parola, essa stessa riletta nella Tradizione e alla luce del Magistero, e la costruzione teologica. Sappiamo che nel Medio Evo, il primo compito del maestro di teologia era di commentare la Scrittura ogni giorno. Il titolo più elevato all’epoca era quello di Magister in sacra Pagina o Doctor sacrae scripturae. Legere, cioè commentare, disputare delle questioni più ardue e infine praedicare: Tommaso ci ha lasciato così meravigliosi commentari della Scrittura. Sono almeno la metà dei testi del Nuovo Testamento e diversi libri dell’Antico che egli ha meditato ed esposto ogni giorno. Commentando, per esempio, la parola di Gesù: «Io sono mite e umile di cuore» (Mt 11, 29), il nostro Dottore spiega nel modo più luminoso: «Tutta la nuova legge consiste in queste due cose: nella mitezza e nell’umiltà. Per la mitezza, l’uomo si avvicina al prossimo secondo la parola del Salmo: “Ricordati, Signore, di Davide, di tutta la sua mitezza” (Sal 131, 1). Per l’umiltà, egli si avvicina a sé e a Dio: “Su chi riposa il mio Spirito se non sull’uomo di pace e d’umiltà?” (Is, 66, 2)» (Super Evangelium S. Matthaei Lectura, n. 970).

    E’ normale, è necessario, mi sembra, che le Uni
versità pontificie romane si interroghino sulla loro specificità. La vostra, cari amici, non lascia posto ad alcuna incertezza: fare che Tommaso d’Aquino diventi oggi, come fu nel passato, il sale della nostra dottrina e la luce degli uomini di buona volontà.     

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ZENIT Staff

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