Dopo Verona: le prospettive per le Caritas

MONTECATINI, sabato, 7 luglio 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo la relazione pronunciata da monsignor Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova e Presidente della Conferenza Episcopale Italiana in occasione del XXXI Convegno nazionale delle Caritas diocesane, tenuotsi a Montecatini Terme il 25 giugno scorso.

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Questo mio intervento si colloca nell’imminenza della pubblicazione della Nota pastorale dei Vescovi italiani dopo il quarto convegno ecclesiale nazionale. Mi ispirerò a questo testo, non trascurando di richiamare alcuni passi dell’enciclica Deus caritas est perché le prospettive della Caritas dopo il Convegno di Verona non possono prescindere dalle preziose indicazioni del Santo Padre. Allo stesso modo, la Nota pastorale, che rilancia le linee emerse al quarto convegno ecclesiale nazionale, si inserisce perfettamente nel solco dell’enciclica «sull’amore cristiano».

Soffermandosi sull’apporto più originale del Convegno, la Nota pastorale si articola in «tre scelte di fondo». La mia relazione si organizza precisamente intorno ad esse, cercando di delineare come ciascuna delle tre prospettive si declini nel campo dell’attività caritativa della Chiesa in Italia.

1. Il legame tra Eucaristia e carità

La prima delle tre scelte di fondo è «il primato di Dio nella vita e nella pastorale della Chiesa». L’impegno caritativo ha tutto da guadagnare da questa impostazione. La centralità dell’Eucaristia e della vita interiore è qui posta in grande rilievo. Il cuore è pieno di carità quando si lascia invadere dalla carità di Dio e ne diviene così canale per tutti. Penso che noi continuiamo a scontare il paradossale dissociare e opporre l’aspetto “spirituale” della vita del singolo e della comunità e l’aspetto dell’impegno “attivo” nel servizio. Il problema è antico – basta pensare a Marta e Maria – ma oggi si propone in maniera nuova, per il fatto che noi uomini di questo tempo siamo abituati a considerare solo quel che si vede, i “risultati”, gli “interventi”, lasciandoci irretire e rinchiudere in una sorta di immanentismo pratico: quello delle “nostre” opere. Si rischia così di perdere lo spazio dell’apertura alla trascendenza: se si parla sempre di noi a partire da noi, se si considera tutto a partire dal “nostro” impegno e dalla “nostra” iniziativa, allora non si va mai dentro l’uomo al di là dell’uomo, in quella sede profonda in cui ciascuno di noi può avvertire quell’«amore di Cristo» che dall’interno «ci spinge» (2Cor 5,14) all’azione.

Nell’enciclica Deus caritas est Benedetto XVI si è ampiamente soffermato sull’impegno delle «Organizzazioni caritative della Chiesa, a cominciare da quelle della Caritas (diocesana, nazionale, internazionale)» (n. 31). Il lungo excursus sul tema non può essere letto indipendentemente dalla prima parte dell’enciclica, nella quale si gettano le fondamenta di quanto viene sviluppato in seguito. Scrive dunque il Papa nella prima parte della Deus caritas est: «Il passaggio che Gesù fa fare dalla Legge e dai Profeti al duplice comandamento dell’amore verso Dio e verso il prossimo, la derivazione di tutta l’esistenza di fede dalla centralità di questo precetto, non è semplice morale che poi possa sussistere autonomamente accanto alla fede in Cristo e alla sua riattualizzazione nel Sacramento: fede, culto ed ethos si compenetrano a vicenda come un’unica realtà che si configura nell’incontro con l’agape di Dio. La consueta contrapposizione di culto ed etica qui semplicemente cade. Nel “culto” stesso, nella comunione eucaristica è contenuto l’essere amati e l’amare a propria volta gli altri. Un’Eucaristia che non si traduca in amore concretamente praticato è in se stessa frammentata. Reciprocamente — come dovremo ancora considerare in modo più dettagliato — il “comandamento” dell’amore diventa possibile solo perché non è soltanto esigenza: l’amore può essere “comandato” perché prima è donato» (n. 14).

Nel n. 22 Benedetto XVI ricorda il martire Giustino. Egli, parlando della celebrazione domenicale dei cristiani, insiste anche sulla loro attività caritativa, collegata con l’Eucaristia in quanto tale. Da queste premesse scaturisce poi una decisa raccomandazione della preghiera come mezzo per attingere sempre nuova forza da Cristo. «Chi prega – scrive il Papa – non spreca il suo tempo, anche se la situazione ha tutte le caratteristiche dell’emergenza e sembra spingere unicamente all’azione. La pietà non indebolisce la lotta contro la povertà o addirittura contro la miseria del prossimo. […] È venuto il momento di riaffermare l’importanza della preghiera di fronte all’attivismo e all’incombente secolarismo di molti cristiani impegnati nel lavoro caritativo» (nn. 36-37).

Vorrei porre in rilievo quanto il Papa dice con la consueta chiarezza e profondità sulla connessione tra Eucaristia e carità. Nella comunione eucaristica è già contenuto in germe il gesto del servizio. L’Eucaristia, quindi, si prolunga nelle opere che da essa sgorgano come dalla loro imprescindibile e incomparabile sorgente. Molto illuminante, a riguardo, è la sottolineatura della «riattualizzazione nel Sacramento» della «fede in Cristo». L’adesione esistenziale al Risorto, il vivere se stessi in un continuo riceversi da Colui che è la nostra Vita e che vive in noi si riproduce nella partecipazione attiva all’Eucaristia: il gesto di amore supremo di Gesù “innesca” in noi la capacità di vivere lasciando che quel gesto ci percorra, ci attraversi, ci ispiri e passi attraverso di noi. La preghiera accoglie in profondità quanto l’Eucaristia rende presente e così rende possibile che «l’amore di Cristo» – e non più la nostra sola iniziativa – ci spinga dall’interno (cfr 2Cor 5,14).
Le parole del Papa divengono vibranti quando sottolinea con audacia «l’incombente secolarismo di molti cristiani impegnati nel lavoro caritativo». Credo che questo appunto riguardi tutti noi senza distinzioni. Chiediamoci onestamente quanto del nostro operare, anche come Vescovi e sacerdoti, lasci scorgere a chi ci osserva e spesso ci scruta la presenza e l’iniziativa, l’impegno e l’azione di Dio nel mondo. Siamo noi effettivamente finestre aperte sulla realtà del «Dio vicino», dell’Oltre e dell’Altro che opera in mezzo a noi, capaci – noi – di nutrire in questo modo – e solo in questo modo – la domanda di senso di moltissimi nostri contemporanei? Oppure chi ci accosta misura la nostra generosità e apprezza la nostra dedizione, ma non ne coglie la radice teologale e rimane perciò insoddisfatto di fronte alla sete del suo cuore? E se questa sete non si impone prontamente nella coscienza di alcuni, non sarà forse nostra responsabilità l’aver contribuito a spegnerla o quantomeno a disorientarla, assecondando – come se ce ne fosse bisogno – la pressione del secolarismo che tutti respiriamo?

La prima delle tre scelte di fondo del convegno di Verona diviene qui concreta e ci sollecita ad esaminare la qualità della nostra presenza e del nostro servizio. Il nostro arduo compito è di abitare pienamente il presente senza smarrire il nesso con le realtà “invisibili”. L’Eucaristia, con la sua visibilità e tangibilità, ci aiuta immensamente a coniugare apertura alla trascendenza del Dio vicino e impegno attivo a servizio di tutti e soprattutto dei più deboli.

2. La “differenza cristiana” nell’esercizio della carità

La seconda scelta di fondo che ci lascia il Convegno di Verona consiste nella testimonianza. La scelta degli ambiti esistenziali come luoghi di esercizio della testimonianza – una scelta fortemente condivisa e confacente all’oggi – conferma che non è possibile dire la novità che proclamiamo in Gesù risorto, se non dentro le forme culturali dell’esperienza umana, che costituiscono la trama di fondo delle esperienze di prossimità. Tale novità operata dal Risorto – oppure, per dirla altrimenti, la “differenza cristiana” o lo “specifico cristiano” – è massimamente evidente in riferimento al grande tema del Convegno di Verona: la speranza. Si legge al n. 8 della Nota, ormai in via di pubblicazione: «Custodire e proporre senza timore la “differenza” della speranza cristiana, portando nel cu
ore l’anelito di vita di ogni uomo, appartiene alla testimonianza del credente».

In che cosa consiste la “differenza cristiana”? Questo punto è di fondamentale importanza per la comprensione della fede cristiana, della sua efficacia, dello stile del suo porsi nel mondo. Non esiste una pastorale che non debba innanzitutto, anche implicitamente, rispondere a questa domanda. Significa forse la “differenza cristiana” un atteggiamento di separazione dal mondo, una sorta di elitarismo coltivato nel fondo della coscienza personale ed ecclesiale? Potrebbe essere accettabile un cristianesimo che si ponesse sotto il segno di una “differenza” intesa come un fossato tra coloro che sono toccati dall’annuncio e vi aderiscono e coloro che, almeno visibilmente, non sono toccati e non vi aderiscono? La tentazione di erigere una simile classificazione tra buoni e non-buoni è da sempre presente. Gesù l’ha identificata e ci ha messo in guardia: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,43-48). Si vede chiaramente in questo brano del Discorso della Montagna che non è questione di separare giusti e malvagi, ma di centrarsi tutti sulla Persona del Padre e sulla sua Bontà.

Interessante è notare il seguito del brano evangelico: «Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 6,1). La tentazione del fariseismo, elitario e ignaro della giustizia più alta che viene dal Cuore paterno di Dio, è esattamente quanto va rifuggito e scongiurato. Il parallelo lucano apporta alla nostra riflessione un ulteriore elemento illuminante: «Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato; date e vi sarà dato; una buona misura, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con cui misurate, sarà misurato a voi in cambio» (Lc 6,37-38). Al posto del giudizio, della condanna e della mancanza di misericordia, Gesù indica nella magnanimità la vera “differenza”: nell’inclusione di tutti gli uomini e non nell’esclusione dei non-buoni o non-osservanti sta la logica del Vangelo, che culmina nell’abbraccio del Crocifisso a tutti gli uomini che Egli da allora non cessa di attirare a sé (cfr Gv 12,32).

Se la “differenza cristiana” non consiste nello scavare fossati o nell’erigere steccati, in che cosa allora consiste? A me sembra che sia proprio il grande tema di Verona a darci la chiave interpretativa dello “specifico cristiano”. La speranza, vale a dire Gesù Cristo Risorto – come puntualizza fin dal suo titolo il capitolo secondo della Nota pastorale – è la “differenza cristiana”. È in rapporto a Lui, alla sua centralità nella storia personale di ogni uomo o donna che viene nel mondo (cfr Gv 1,9), che si può parlare di una “differenza”. Eppure – occorre sempre ribadirlo – tale “discernimento” tra coloro che si radicano nel Risorto e coloro che non affondano in Lui le sorgenti del proprio vivere è interamente sottratto alle nostre prese. È qualcosa che riguarda la coscienza del singolo e l’Assoluto di Dio. A noi spetta solo il registrare la realtà della grazia del Risorto operante effettivamente nel mondo a beneficio di tutti, nessuno escluso: ecco il fondamento della nostra speranza, ecco lo “specifico cristiano”.

L’impegno caritativo è una testimonianza proprio per il fatto che ci aiuta a inquadrare la “differenza cristiana” evitando gli errori cui ho fatto cenno. Infatti, il Vangelo di Matteo, nel capitolo 25, ci offre nella famosissima scena del giudizio universale il documento più incisivo dell’universalismo cristiano. «Lo avete fatto a me» o «non lo avete fatto a me»: tutto si decide in rapporto a questa discriminante: il gesto concreto della carità, a prescindere da etichette o appartenenze. In quel gesto si colloca l’efficacia della grazia del Risorto, che ha vinto nel singolo uomo o nella singola donna il ripiegamento egoistico dovuto al peccato. Qui ci rendiamo conto quanto sia importante l’aver messo in chiaro, nel punto 1 di questa relazione e ancor più nella prima scelta di fondo della Nota pastorale, il primato di Dio. La “differenza cristiana” riguarda tutti perché tutti sono invitati ad assumerla, a farla propria. L’universalismo cristiano della carità non è un ricadere nel secolarismo che molto opportunamente Benedetto XVI denuncia. Proprio perché il gesto della carità è visto in partenza come un’azione che scaturisce dall’efficacia della grazia del Risorto nella vita di colui o colei – cristiano o no – che pratica l’amore, questo universalismo non dà adito ad una versione immanentistica e secolarizzata dell’impegno caritativo. Al contrario, tutto si comprende a partire dal primato di Dio che storicamente si attua nella centralità del Risorto, l’Unico che con la forza sanante del suo Spirito ci libera dall’egoismo e ci ispira la santità nell’amore.

La testimonianza dei credenti, nel contesto che ho cercato di disegnare, non è un’attestazione della propria bravura. Sarebbe ancora una volta, tragicamente, un fariseismo strisciante e generalizzato. La testimonianza cristiana, al contrario, è l’attestazione dell’efficacia di Gesù Risorto nelle nostre vite. Il Papa lo ha scritto chiaramente: «Questo giusto modo di servire rende l’operatore umile. Egli non assume una posizione di superiorità di fronte all’altro, per quanto misera possa essere sul momento la sua situazione. Cristo ha preso l’ultimo posto nel mondo — la croce — e proprio con questa umiltà radicale ci ha redenti e costantemente ci aiuta. Chi è in condizione di aiutare riconosce che proprio in questo modo viene aiutato anche lui; non è suo merito né titolo di vanto il fatto di poter aiutare. Questo compito è grazia. Quanto più uno s’adopera per gli altri, tanto più capirà e farà sua la parola di Cristo: “Siamo servi inutili” (Lc 17, 10). Egli riconosce infatti di agire non in base ad una superiorità o maggior efficienza personale, ma perché il Signore gliene fa dono» (Deus caritas est n. 35).

Ciononostante, anche chi opera la carità è esposto alla tentazione dello scoraggiamento e all’esperienza della delusione. Proprio allora però «gli sarà d’aiuto il sapere che, in definitiva, egli non è che uno strumento nelle mani del Signore; si libererà così dalla presunzione di dover realizzare, in prima persona e da solo, il necessario miglioramento del mondo. In umiltà farà quello che gli è possibile fare e in umiltà affiderà il resto al Signore. È Dio che governa il mondo, non noi. Noi gli prestiamo il nostro servizio solo per quello che possiamo e finché Egli ce ne dà la forza. Fare, però, quanto ci è possibile con la forza di cui disponiamo, questo è il compito che mantiene il buon servo di Gesù Cristo sempre in movimento: “L’amore del Cristo ci spinge” (2Cor 5, 14)» (Ivi).

A ragione, dunque, il Convegno di Verona indica come luoghi ove esercitare la testimonianza cristiana quelle forme dell’esistenza comuni ad ogni persona, che costituiscono la trama di fondo della vita quotidiana. Nelle esperienze umane più vere, come sono le situazioni di bisogno, laddove si concretizzano oppure si smentiscono gli ideali professati col pensiero e con la bocca, si rende presente la forza di Gesù Risorto. È alla forza di questa presenza che l’impegno caritativo intende dare testimonianza. Per questo motivo, esso è e sarà sem
pre un segno luminoso di speranza.

3. L’evangelizzazione come servizio alla persona

La terza scelta di fondo è quella di una evangelizzazione e un’azione pastorale intese come servizio alla persona. La Nota inserisce l’impegno caritativo all’interno del compito missionario della Chiesa: «Lo spirito di accoglienza e la testimonianza della carità delle nostre comunità cristiane hanno in sé una forte valenza evangelizzatrice, che può produrre anche in questo campo frutti di grazia inaspettati» (n. 9). Non c’è dubbio che la proposta cristiana sia da sempre passata, come indicano gli Atti degli Apostoli e la storia della Chiesa e della santità, attraverso un’attività di grande sollecitudine verso gli uomini e donne più in difficoltà. L’impegno caritativo permette che la luce del Vangelo risplenda davanti al mondo e che il Vangelo stesso si mostri non come un giogo, ma come il servizio più grande reso all’uomo, alla sua promozione, alla sua dignità.

La Nota pastorale non manca di operare una rapida e tuttavia accurata presentazione della «fragilità umana» nel nostro contesto culturale e della possibilità, per l’evangelizzatore, di intercettare questo ambito “cruciale” dell’esperienza umana, in cui riconosciamo anche una risorsa e un valore. L’uomo del nostro tempo coltiva il mito dell’efficienza fisica e subisce la tentazione di una libertà svincolata da ogni limite. Di conseguenza, non è raro che la condizione di fragilità, nelle sue molteplici espressioni, sia spesso nascosta e rimossa. In questo contesto – ricorda la Nota – «la Chiesa è consapevole di avere una parola di senso e di speranza per ogni persona che vive la debolezza delle diverse forme di sofferenza, della precarietà, del limite, della povertà relazionale». Se l’esperienza della fragilità mette in luce la precarietà della condizione umana, la stessa fragilità è anche occasione per prendere coscienza del valore che l’uomo riveste davanti a Dio. La Pasqua del Signore, infatti, mostra come la verità dell’amore sa trasfigurare anche l’oscuro mistero della sofferenza e della morte nella luce della risurrezione. La vera forza nella debolezza, dunque, è l’amore di Dio che si è definitivamente rivelato e donato a noi in Cristo. Per questo, «all’annuncio evangelico si accompagna l’opera dei credenti, impegnati ad adattare i percorsi educativi, a potenziare la cooperazione e la solidarietà, a diffondere una cultura e una prassi di accoglienza della vita, a denunciare le ingiustizie sociali, a curare la formazione del volontariato. Le diverse esperienze di evangelizzazione della fragilità umana, anche grazie all’apporto dei consacrati e dei diaconi permanenti, danno forma a un ricco patrimonio di umanità e di condivisione, che esprime la fantasia della carità e la sollecitudine della Chiesa verso ogni uomo».

Il pregio di questo approccio risiede nel collegamento tra l’annuncio evangelico e l’opera dei credenti nelle sue diverse e concrete forme di intervento. Questi due aspetti si compongono, diventando un tutt’uno, quando si comprendono entrambi e reciprocamente come un servizio alla persona “integrale”: alla sua fame di «una parola di senso e di speranza» e insieme alla sua «debolezza», alla sua «sofferenza», alla sua «precarietà», alla sua esperienza del «limite» e della «povertà relazionale». Alla centralità della persona, intesa come destinataria di parola e di cura, è simmetricamente associata – nel testo della Nota pastorale appena citato – la «vera forza» che è l’amore di Dio. L’umanesimo che l’evangelizzazione e l’impegno caritativo insieme attuano è allora davvero completo: esso coglie la persona nella sua dimensione di apertura al Trascendente e nella sua dimensione di creatura in relazione con le altre persone e con il mondo.

Nella composizione di questi due aspetti dell’unico servizio alla dignità della persona nella sua interezza, la Nota pastorale si muove nella scia dell’enciclica Deus caritas est, che a proposito delle «iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali e uniscono spontaneità e vicinanza agli uomini bisognosi di aiuto» scrive: «La Chiesa è una di queste forze vive: in essa pulsa la dinamica dell’amore suscitato dallo Spirito di Cristo. Questo amore non offre agli uomini solamente un aiuto materiale, ma anche ristoro e cura dell’anima, un aiuto spesso più necessario del sostegno materiale» (n. 28). E prosegue con grande incisività: «L’affermazione secondo la quale le strutture giuste renderebbero superflue le opere di carità di fatto nasconde una concezione materialistica dell’uomo: il pregiudizio secondo cui l’uomo vivrebbe “di solo pane” (Mt 4,4; cfr Dt 8,3) – convinzione che umilia l’uomo e disconosce proprio ciò che è più specificamente umano» (n. 28).

Si vede bene che con la parola «carità» il Papa addita non una semplice filantropia o la solidarietà tra gli esseri umani che abitano sulla superficie terrestre alle prese con un destino comune, ma «la dinamica dell’amore suscitato dallo Spirito di Cristo». La radice teologale della prospettiva del Papa è evidente ed è motivata – mi preme sottolinearlo – non dall’importanza di assicurare alla fede uno spazio e una visibilità, nel peggiore dei casi una sorta di “pubblicità” o addirittura un deprecabile «proselitismo» (cfr n. 31 dell’enciclica) all’interno e per mezzo dell’attività caritativa, ma dalla percezione chiara di «ciò che è più specificamente umano»: l’essere spirituale intrinsecamente orientato all’Origine e al Fondamento di tutto.

La parte dell’enciclica dedicata alle Organizzazioni caritative della Chiesa (n. 31) suggerisce una pluralità di aspetti che arricchiscono il profilo di colui o colei che si impegna nella Caritas. Oltre alla «competenza professionale», il Papa menziona – nell’ottica del servizio alla persona e secondo il suggestivo modello offerto dalla parabola del buon Samaritano – la «formazione del cuore». «Gli esseri umani – scrive Benedetto XVI – necessitano sempre di qualcosa in più di una cura solo tecnicamente corretta. Hanno bisogno di umanità. Hanno bisogno dell’attenzione del cuore». È a partire da questo presupposto che il Papa trae la logica conseguenza: «Quanti operano nelle Istituzioni caritative della Chiesa devono distinguersi per il fatto che non si limitano ad eseguire in modo abile la cosa conveniente al momento, ma si dedicano all’altro con le attenzioni suggerite dal cuore, in modo che questi sperimenti la loro ricchezza di umanità.

Perciò, oltre alla preparazione professionale, a tali operatori è necessaria anche, e soprattutto, la “formazione del cuore”: occorre condurli a quell’incontro con Dio in Cristo che susciti in loro l’amore e apra il loro animo all’altro, così che per loro l’amore del prossimo non sia più un comandamento imposto per così dire dall’esterno, ma una conseguenza derivante dalla loro fede che diventa operante nell’amore (cfr Gal 5, 6)» (n. 31). Penso che questo testo sia da accogliere con grande attenzione. Esso concerne tutti noi. Il cammino di fede, quando è autentico, ci dona questa «formazione del cuore». La salvezza cristiana è in primo luogo, infatti, la trasformazione del cuore dell’uomo, strappato all’egoismo e riempito di carità. Con questa convinzione noi annunciamo il Vangelo, sapendo che l’essere umano ha bisogno di una liberazione profonda, di una giustificazione che si afferma nel fondo più recondito della sua persona, dove si determinano i pensieri, le intenzioni e le opere.

Concludo citando ancora una volta Benedetto XVI: non la sua enciclica «sull’amore cristiano», ma il suo recente Discorso ai Vescovi italiani riuniti in Assemblea Generale lo scorso 24 maggio. Così ci ha parlato il Papa: «La medesima attenzione ai veri bisogni della gente si esprime nel servizio quotidiano alle molte povertà, antiche e nuove, visibili o nascoste; è un servizio nel quale si prodigano tante realtà ecc
lesiali, a cominciare dalle vostre Diocesi, dalle parrocchie, dalla Caritas e da molte altre organizzazioni di volontariato. Insistete, cari Fratelli Vescovi, nel promuovere e animare questo servizio, affinché in esso risplenda sempre l’autentico amore di Cristo e tutti possano toccare con mano che non esiste separazione alcuna tra la Chiesa custode della legge morale, scritta da Dio nel cuore dell’uomo, e la Chiesa che invita i fedeli a farsi buoni samaritani, riconoscendo in ciascuna persona sofferente il proprio prossimo».

L’invito del Santo Padre ad aver «attenzione ai veri bisogni della gente», su alcuni dei quali (crescita del disagio economico di pensionati e famiglie, disoccupazione di genitori oltre i 40 anni con la conseguente piaga dell’alcolismo e di altre dipendenze, il livello basso di retribuzione delle donne e la loro difficoltà economica specialmente quando sono sole e con figli a carico, il mercato immobiliare al di fuori della portata dei giovani che vogliano costruirsi un futuro) ho avuto modo di soffermarmi nella mia prolusione all’Assemblea Generale dei Vescovi italiani lo scorso 21 maggio, ci motiva a vivere il nostro impegno con generosità e realismo, senza soggiacere alla tentazione dello scoraggiamento; al contrario, ravvivando le ragioni della speranza che è in noi (cfr. 1Pt 3,15).

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ZENIT Staff

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