Donne, diagnosi preimpianto e libertà

ROMA, domenica, 29 maggio 2005 (ZENIT.org).- Di seguito pubblichiamo per la rubrica di Bioetica la risposta alla domanda di una lettore da parte della dottoressa Claudia Navarini, docente della Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum.

Print Friendly, PDF & Email
Share this Entry

* * *

Cara dottoressa,

come donna (forse anche come madre) non crede che sia un’assurda malvagità imporre, come fa la legge 40, il trasferimento in utero di embrioni, anche se malati?

Mi è sembrato cogliere bene il punto un manifesto diffuso dal “Comitato per il sì” di Treviso, il quale, a proposito del quesito referendario n. 2, quello a tutela della salute delle donne, dice: “modificando questa parte della legge, sarà possibile abolire il divieto di congelare gli embrioni, ma soprattutto l’obbligo per le donne di impiantarsi tutti gli embrioni anche se esiste la certezza che sono portatori di malattie genetiche. Se questa parte della legge non sarà modificata, la possibilità di successo di qualsiasi intervento di procreazione assistita sarà irrimediabilmente ridotta; ma soprattutto, LA VERA BARBARIE : le coppie portatrici di malattie genetiche, che desiderano avvalersi della procreazione assistita, saranno obbligate ad impiantarsi un embrione anche se la diagnosi reimpianto ha accertato la presenza di malattie, con la conseguente certezza di mettere a mondo figli affetti da gravi malformazioni non curabili.”.

Grazie in anticipo per la risposta.

Patrizia T.

Cara patrizia,

come bioeticista, come donna e come madre non posso che dissentire. La legge 40 non impone assurde malvagità alle donne, ma riduce anzi i problemi e i danni per le donne che la fecondazione artificiale inevitabilmente porta con sé, dal momento elimina l’esigenza di effettuare pesanti stimolazioni ormonali e scongiura le gravidanze plurigemellari di quattro, cinque, sei, anche otto embrioni, come è avvenuto ad esempio a Trapani nel 2000.

Qualcuna delle aberrazioni della “provetta selvaggia” nei confronti delle donne è raccontata con dovizia di particolari da Chiara Valentini, fautrice convinta dei referendum, nel suo libro La fecondazione proibita (Feltrinelli, 2004): “Chi operava nel privato non aveva regole specifiche da rispettare… Non c’era alcun obbligo di far verificare la scientificità e la sicurezza dei propri metodi agli ispettori del ministero” (p. 100).

Proprio la Valentini riporta un caso italiano di impianto di ben dieci embrioni, a Reggio Emilia, terminato con la nascita di quattro minuscoli gemelli che pesavano meno di otto etti. Riporta poi le dichiarazioni di cinquanta donne, da lei intervistate, che si erano sottoposte a tecniche di fecondazione artificiale: “quasi la metà ha riferito episodi di malasanità in genere” (p. 101), fra cui “scambi” di embrioni, impianto di troppi embrioni, dosaggio sbagliato dei farmaci, stimolazioni ovariche eccessive. Tutti questi abusi tornerebbero legali se i referendum vincessero.

L’articolo 6 della legge 40 afferma che la donna non può revocare il suo consenso al trasferimento dell’embrione dopo che l’embrione è stato generato. Tale raccomandazione non rappresenta tuttavia un’imposizione, intanto perché non ha implicazioni penali, e poi perché, in realtà, deriva da un consenso liberamente espresso e sottoscritto dalla donna prima di sottoporsi alle tecniche.

La legge intende cioè richiamare i genitori “artificiali” alle loro responsabilità di padre e di madre, equiparando, come è ragionevole, il piccolo esserino in provetta al figlio naturalmente concepito e a lungo desiderato.

Inoltre, non c’è un obbligo di produrre e di trasferire tre embrioni, ma di non superare il numero di tre. È perfettamente lecito produrne e trasferirne uno o due, come avviene già in altri paesi e come sarà sempre più consigliabile fare con il progredire della ricerca e della tecnologia.

Dunque, chiedere il trasferimento di più di tre embrioni non è prudente: causa alla donna e ai bambini rischi eccessivi. La buona pratica clinica non consente un simile comportamento nemmeno se a chiederlo è la donna stessa.

Chiedere di produrre molti embrioni e trasferirne pochi, poi, è fonte di problemi ineliminabili. In primo luogo, ciò richiederebbe, come già osservato, di stimolare pericolosamente le ovaie per produrre molti ovuli, con il rischio di ingenerare una vera e propria sindrome da iperstimolazione ovarica, che può essere mortale. In secondo luogo, pone il problema degli embrioni soprannumerari, soggetti umani vivi e indifesi che restano “sospesi”, in attesa di assurgere al ruolo di “veri” figli.

Crioconservarli per destinarli ad un impianto futuro non facilita le cose: inevitabilmente aumenterebbe il numero degli embrioni “abbandonati”, cioè di quelli che, ottenuto il figlio desiderato, non interessano più. Non solo: fra gli embrioni “scongelati” per il trasferimento in utero molti morirebbero nel processo, altri avrebbero patologie che ne potrebbero causare precocemente la morte, oppure che si porterebbero per tutta la vita. In vari paesi che hanno legiferato prima dell’Italia, i problemi aperti dalla crioconservazione embrionale hanno via via scoraggiato la pratica, che risulta complessivamente in calo nel mondo occidentale.

Dunque, le donne sono meglio tutelate dalla legge 40 di quanto non fossero prima, e di quanto non sarebbero se il referendum abrogativo dovesse passare. Stupisce francamente che tante donne ancora non lo riconoscano.

Infine, il divieto “oscurantista” di revocare il trasferimento per embrioni provatamente malati, grazie alla diagnosi preimplantatoria. Questo caso semplicemente non si dà, perché la diagnosi preimplantatoria, sul modello di svariati paesi europei, è vietata.

Ed è vietata sia perché poco efficace sia perché non etica. Non è efficace perché molti embrioni muoiono per effetto delle stesso tecniche (sani o malati che siano), altri sembrano sani e invece sono malati (poiché la tecnica permette di indagare pochissime malattie e può produrre falsi negativi), altri ancora sembrano malati e invece sono sani, per la fisiologica presenza di falsi positivi.

La diagnosi preimplantatoria, dal punto di vista etico, non è poi ammissibile perché non previene la malattia ma sopprime il malato. Tale comportamento viene giustificato con il diritto di “autodeterminazione”, con l’appello alla libertà individuale.

Eppure accade una cosa curiosa: una società che elimina esseri umani – gli embrioni in vitro – solo perché malati, perché deboli, istituisce un principio di prevaricazione e di ingiusta discriminazione che si risolve nel dominio del più forte. E un mondo in cui i più forti schiacciano i più deboli non è una civiltà, ma un totalitarismo, cioè la negazione di quella stessa libertà strenuamente inseguita dai referendari.

[I lettori sono invitati a porre domande sui differenti temi di bioetica scrivendo all’indirizzo: bioetica@zenit.org. La dottoressa Navarini risponderà personalmente in forma pubblica e privata ai temi che verranno sollevati. Si prega di indicare il nome, le iniziali del cognome e la città di provenienza]

Print Friendly, PDF & Email
Share this Entry

ZENIT Staff

Sostieni ZENIT

Se questo articolo ti è piaciuto puoi aiutare ZENIT a crescere con una donazione