Don Pino Puglisi: un calcio alla mafia

Domani il secondo anniversario di beatificazione del sacerdote siciliano, esempio contagioso di vita vissuta serenamente, senza coperture, prepotenze, loschi affari

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«Il gioco del calcio è un sistema di segni; è, cioè, una lingua, sia pure non verbale».

Pier Paolo Pasolini lo aveva compreso già mezzo secolo fa, quando ancora i palloni erano toppe di cuoio cucite che rotolavano su campi in ruvida terra battuta, presi a pedate da giovani operai e commessi che di mattina lavoravano alla pressa o al banco e poi il pomeriggio correvano allo stadio per allenarsi alla partita della domenica. Il calcio-simbolo era lingua che parlava – ed oggi urla – a milioni di persone, di ogni estrazione, razza, ceto. Inevitabile, allora, che di esso si prendesse cura mamma ‘ndrangheta, come le notizie di cronaca degli ultimi giorni dimostrano.

Lo ricorda il martirio di don Puglisi, di cui domani ricorrerà il secondo anniversario della beatificazione: le mafie indossano vesti che non appartengono loro per poter veicolare, così camuffate, i propri messaggi ed imporre la propria legge. Per questo i mafiosi vanno in processione, o pretendono che la statua della Vergine, o del santo patrono, faccia l’inchino davanti alle loro case: per attestare la loro presunta religiosità, certo. Ma anche e soprattutto per affermare sfacciatamente, grazie a dei segni ben comprensibili, il loro dominio incontrastato, che li fa padroni di vita e di morte. Il parroco di Brancaccio, col suo sacrificio, ha svelato per sempre l’inganno: al prezzo della vita, ha dimostrato che la lotta al male, anche quello delle cosche, si vince con l’esempio personale e con la formazione (soprattutto dei più giovani), mezzi che svuotano il prestigio ed il potere dei boss, senza nascondere sdegno per la realtà delle cose che non vanno e ricorrendo all’impegno coraggioso di cambiarle guardando a quel tipo di uomo e di società che Dio sogna, indica e ci consegna nel Vangelo.

Il beato Puglisi è stato un gigante sulle cui spalle salire per vedere meglio dove andare e cosa fare, un esempio contagioso per le famiglie, i giovani ed i ragazzi, capace di insegnare a vivere serenamente, anche se poveramente, ma senza coperture, comparaggi, prepotenze, loschi affari. Guardare a lui, che svelò la strumentalità del linguaggio religioso usato dai mammasantissima, è probabilmente utile anche per smascherare l’ipocrisia del boss che si fa presidente, allenatore o calciatore, piegando alle logiche del dio denaro – e del potere – anche lo sport più popolare e seguito, che come ha ricordato pochi  giorni or sono anche Papa Francesco, «incide sulla formazione delle persone, sulle relazioni, sulla spiritualità ed assegna agli atleti una missione da compiere: poter essere validi modelli da imitare». Riflessione che vale pure per il calcio, dal momento che, ha sottolineato il Santo Padre, esso contribuisce «al superamento di situazioni di ingiustizia e di disagio umano e sociale, insegnando la lealtà verso contro l’abitudine del tradimento».

Per questo è importante che quanti gravitano a vario titolo nel mondo del calcio, e più in generale gli atleti, siano esempi di integrità, di coerenza, di sereno giudizio, di imparzialità, ma anche di gioia di vivere, di pazienza, di capacità di stima e di benevolenza: anche nelle loro mani è il destino del mondo e di tante giovani vite. I loro atteggiamenti parlano, sono lingua che trasmette messaggi anche quando muta. Le mafie lo sanno bene. Fingere di ignorarlo vuol dire vincere la medaglia d’oro in discipline poco onorevoli: l’ipocrisia e la menzogna.

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Vincenzo Bertolone

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