Don Pino Puglisi - ©Edizioni Ares

Don Pino Puglisi. Portare speranza, anche pagando di persona

La gioia è il sentimento distintivo di chi vive il Vangelo e lo comunica agli altri, con il viso illuminato, sereno, come accadde a don Pino fino alla morte

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«Venti, sessanta, cento anni… la vita. A che serve se sbagliamo direzione? Ciò che importa è incontrare Cristo, vivere come lui, annunciare il suo Amore che salva. Portare speranza e non dimenticare che tutti, ciascuno al proprio posto, anche pagando di persona, siamo i costruttori di un mondo nuovo».
Così parlava don Pino Puglisi, martire di mafia. E con le sue parole indicava una strada: quella della gioia del Vangelo, che riempie il cuore e la vita intera di coloro che incontrano e si lasciano afferrare da Gesù perché si sentono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento.
Con Gesù Cristo nasce e rinasce la gioia, perché attinge sempre alle sorgenti della grazia, della verità, della bontà, della bellezza divina. La gioia è il sentimento distintivo di chi vive del Vangelo e lo comunica agli altri, con il viso illuminato, sempre sereno, come accadde a don Puglisi fino alla morte.
Chi ha il cuore che canta non può non sentire – scrive Papa Francesco in Evangelii Gaudium – «la dolce e confortante gioia di evangelizzare, di credere nella Buona Novella, di credere in Gesù Cristo portatore del Regno di Dio, nella sua irruzione nel mondo, nella sua presenza vittoriosa sul male, nell’assistenza dello Spirito Santo che guida la Chiesa, Corpo di Cristo e prolungatrice del dinamismo dell’Incarnazione».
Ed è con la forza del Vangelo che si illuminano le menti degli uomini e  si costruisce il mondo, e non  con la sola ragione. È la differenza tra la fede autentica convinta, entusiasta, sicura, innamorata, ed una fede narcisistica e individualistica, che mette il Vangelo a servizio di se stessi attancandosi alle ricchezze ed ai piaceri del mondo.
E di qui la “Chiesa in uscita”, che deve contrastare la “mondanità spirituale” che può trarre linfa, ai nostri giorni, da nuove eresie, lo gnosticismo e il pelagianesimo, strettamente interconnesse.
La mondanità spirituale, di cui parla l’Evangelii Gaudium – è tipica di chi cerca nella fede solo una conferma dei propri sentimenti o ragionamenti, o di chi si sente superiore agli altri in forza dell’adesione a un certo stile cattolico; essa significa in definitiva contare su se stessi, sul proprio profilo religioso, più che su Dio (EG 94).
Significa anche cercare la propria gloria e non quella del Signore. È ciò che Gesù rimproverava ai Farisei: «E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?» (Gv 5,44).
Quando la vita interiore si chiude nei propri interessi, allora, non vi  può essere spazio per gli altri, segnatamente i poveri. Non si ascolta più la voce di Dio, non si gode più della dolce gioia del suo amore, non palpita più l’entusiasmo di fare il bene. Si tratta di un modo sottile di cercare «i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo» (Fil 2,21). Dal momento che è legata alla ricerca dell’apparenza, non ha niente a che fare con la vita nello Spirito che sgorga dal cuore del Cristo risorto» (EG 2).
Tornando alle due “nuove” eresie, il  (neo) gnosticismo si rifà alla sapienza filosofica ed alla concezione dualistica della realtà: il male (che deriva dalla materia) ed il bene, che però non proviene dal Dio supremo e perfetto, ma  stravolge tutta l’opera redentiva di Gesù, che è venuto solo a rendere gli uomini partecipi della gnosi (conoscenza).
E perciò l’uomo può e deve sbrigarsela da solo, con il suo intelletto. Quanto al (neo) pelagianesimo, contro il quale sant’Agostino polemizzò fieramente, è noto che a partire dal monaco inglese Pelagio, esso attaccava a fondo l’idea del peccato originale e della grazia redentrice: se il male è non essere, allora non può aver corrotto la natura umana. Dalla facoltà, di cui per natura dispone l’uomo, di operare il bene e il male (libero arbitrio), deriva una radicale svalutazione dell’incarnazione di Cristo, della redenzione da lui operata, della grazia di Dio, della facoltà mediatrice della Chiesa, fino a dichiarare  l’inutilità dei sacramenti.
Analogamente allo gnosticismo, dunque, il pelagianesimo attribuiva alle creature umane un’esaltazione della loro capacità, perché addirittura in grado di guadagnare la salvezza senza il bisogno dell’intervento divino (la grazia). Insomma, uno sfoggio di supponenza e di autoreferenzialità prometeica. Gnosticismo e pelagianesimo tendono ad annullare il ruolo salvifico di Cristo perché ritengono l’uomo bastante a se stesso vivendo egoisticamente e narcisisticamente.
Niente di tutto ciò  è riscontrabile in  Puglisi, uomo mite, umile, disinteressato, innamorato di Cristo e del Vangelo. Non confida sulle sue forze, o attività, ma solo in Cristo, che dà senso alla vita. Perciò lo propone come unica direzione ai giovani, in parrocchia, nei riti liturgici, nei campi scuola, negli incontri vocazionali, nei cenacoli del Vangelo, nelle riunioni di impegno civico e sociale.
Già nel cuore della Chiesa, alla quale, nel corso dei secoli, non sono certo mancati grandi spiriti innovatori e riformatori in senso evangelico (san Francesco, Gioacchino da Fiore, san Francesco da Paola, Rosmini, ecc…). Ai nostri giorni possiamo considerare riformatore anche il parroco di Brancaccio, luminoso esempio di evangelizzatore gioioso per i nostri tempi. Fu sempre un “missionario in uscita” senza chiusure, pure verso la mafia e la mafiosità, ma soprattutto verso le persone deviate dalla zizzania criminale.
Vangelo nel cuore e in mano, ritrasmise ai suoi parrocchiani l’ottimismo della fede proprio attraverso – da un lato – la “gioia del Vangelo”, e dall’altro con un approccio alla vita basato sulla valorizzazione della dignità delle persone, consapevole che il vento dello Spirito non può che indirizzare a Cristo e a lui soltanto.
Come se avesse letto l’Evangelii gaudium, egli visse ed operò per riportare la  gioia e la forza del Vangelo al centro del mondo, cominciando dal suo piccolo, povero mondo.
Egli fu capace di trasmettere la bellezza di Dio, la bontà di una vita spesa nel segno della fede: altro che neognosticismo e neopelagianesimo generatori di mondanità spirituale! Anzi anticipò di fatto ciò che l’EG dirà delle tentazioni da cui la Chiesa deve guardarsi. Puglisi è espressione bella di una Chiesa che sa immedesimarsi nei «sentimenti di Cristo,dell’umiltà, del disinteresse e delle beatitudini, «sa riconoscere l’azione del Signore nel mondo, nella cultura, nella vita quotidiana della gente, nei poveri», non é narcisistica, né egoista, né autoreferenziale, che ama e confida in Gesù Cristo.
In una simile chiesa don Pino non si sente superiore ad alcuno, si lascia guidare dallo Spirito di Dio ed annuncia Cristo, l’unico che dà senso alla vita dell’uomo e salvarlo. Sa che senza la Grazia divina l’uomo non si salva, combatte il peccato, anche quello di credendosi il “padrino”, ritiene di sostituirsi a Dio Padre.
Coerente con lo stile della sua non lunga esistenza, l’ultima espressione sul suo volto fu il sorriso, cornice, anche nella tragica circostanza, della sua umiltà e della sua mitezza evangelica. E questo non fu certamente un caso.
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Per ogni approfondimento è possibile acquistare il libro “Don Pino martire di Mafia” (edizioni Ares) di mons. Vincenzo Bertolone, a cura di Salvatore Cernuzio, con prefazione del presidente del Senato, Pietro Grasso

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Vincenzo Bertolone

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