"Don, cosa dici della Comunione ai divorziati risposati?"

Un sacerdote risponde ai dubbi e i quesiti di alcuni parrocchiani sul tema di forte attualità, alla luce del Magistero della Chiesa

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I divorziati risposati non possono ricevere la Comunione perché sono più peccatori degli altri?

No. Il problema è la dimensione pubblica: il divorziato risposato vive pubblicamente in contraddizione con il sacramento del matrimonio. Tutti i sacramenti, e la Comunione in particolare, manifestano (rendono pubblica) la piena appartenenza a Cristo e alla Chiesa; il divorziato risposato di fatto nega pubblicamente questa comunione, indipendentemente dalle intenzioni soggettive che ha, perché vive in contrasto con il sacramento che lui stesso ha liberamente celebrato: questa contraddizione dipende esclusivamente dai suoi comportamenti e non da qualche intervento disciplinare della Chiesa. Concedere i sacramenti in queste condizioni comporterebbe una negazione della missione salvifica della Chiesa, che è necessariamente pubblica. Questo però non esclude affatto i divorziati risposati da tutti quegli atti che non comportano un impegno pubblico nella comunità cristiana, né costituisce un giudizio sullo stato della loro anima.

Quindi il sacerdote non può assolvere un divorziato risposato che si confessa?

Deve sicuramente assolverlo se il penitente ha deciso di vivere con il nuovo “coniuge” come fratello e sorella, non più come marito e moglie, e questo anche qualora ci sia stata qualche caduta per debolezza, perché è l’intenzione che conta. Inoltre va assolto anche se manifesta segni autentici di pentimento riguardo alle seconde nozze, sebbene non si senta ancora in grado di prendere la decisione suddetta, perché si sta aprendo alla grazia e quindi va sostenuto. Il ruolo del confessore è importante: da un lato deve valutare la consistenza del pentimento, dall’altro con la sua carità e una parola illuminante può indurre il peccatore al pentimento. I confessori santi riescono ad  assolvere quasi sempre, non perché siano “lassisti”, ma perché sanno suscitare il dolore per i peccati.

I divorziati risposati non possono mai ricevere la Comunione?

Possono riceverla se hanno ricevuto l’assoluzione sacramentale, come nei casi ricordati prima, specie quando abbiano deciso di vivere come fratello e sorella per amore a Cristo, il che è auspicabile e pienamente realizzabile con l’aiuto della grazia. In questo caso, tutt’altro che raro o impossibile, il loro stesso rapporto si rasserena e diventano un esempio edificante per i propri figli. Per evitare di creare confusione nel popolo di Dio è importante che frequentino i sacramenti in comunità dove la loro situazione di divorziati risposati non è conosciuta.

Il sacerdote può negare la Comunione a chi si presenta pubblicamente a riceverla?

No. Si nega la Comunione solo nel caso in cui ci sia una sentenza pubblica che esclude dalla possibilità di ricevere i sacramenti (scomunica, interdetto) e il sacerdote è sicuro che non sia stata cancellata, oppure quando chi si presenta a riceverla lo fa apertamente per scherno o come sfida alla comunità cristiana. Accostarsi o meno all’Eucaristia in realtà dipende dalla coscienza di chi si comunica: un divorziato risposato che non si è pentito dovrebbe valutare da solo l’inopportunità di accostarsi ai sacramenti. Il sacerdote non dovrebbe sostituirsi alla coscienza dei fedeli: non sa se sia intercorso un pentimento serio (contrizione) e comunque deve assolutamente evitare di ferire pubblicamente una persona, dato che provocherebbe un danno spirituale maggiore.

Allora che può fare un sacerdote per impedire che un divorziato risposato non pentito riceva la Comunione?

Sul momento, nulla. Se conosce la persona può, nei modo e nelle forme opportune, istruirlo sulla disciplina della Chiesa, che è esercizio di misericordia anche quando deve dire no.

Che senso ha ricevere la Comunione per un divorziato risposato non pentito?

Non ha senso, ed è spiritualmente nocivo. Riceviamo i sacramenti per vivere come Figli di Dio, nella santità, o perlomeno per incamminarci in quella direzione; non si tratta di un diritto soggettivo, né serve a confermarci nelle nostre scelte, come una sorta di certificato di buona condotta («che faccio di male?») e tantomeno per soddisfare bisogni “mistici”. Un tale atteggiamento svaluta i sacramenti, riducendo la vita cristiana alla dimensione delle miserie umane e nulla più, e i sacramenti a una “consolazione” solo psicologica che copre le ferite senza curarle: un pietismo illusorio che finisce per rubare la speranza in una vita nuova.

Allora perché si è acceso il dibattito sulla Comunione ai divorziati risposati?

Perché esistono problemi veri. La causa principale va riconosciuta nel fatto indiscutibile che stiamo celebrando troppi matrimoni nulli: “cerimonie” in chiesa, non un vero sacramento, perché gli sposi, che sono i celebranti, spesso, nell’attuale contesto culturale, non hanno maturato la consapevolezza minima di cosa sia il matrimonio. Benedetto XVI nel 2011 sottolineò questo problema, ma finora è rimasto inascoltato. Così non di rado si presenta la situazione paradossale di chi si era sposato in chiesa in modo solo apparente e in seguito ha contratto matrimonio civile, stavolta però con le intenzioni giuste, ma ovviamente senza la forma canonica, quindi rimanendo escluso dai sacramenti. Il ricorso ai tribunali ecclesiastici oggi è l’unica soluzione, ma non dovrebbe essere la via normale, la via della maggioranza! Infatti in questo caso solo la legge ecclesiastica impedisce di ricevere i sacramenti. La forma canonica è un obbligo introdotto dal Concilio di Trento per evitare gli abusi di allora, oggi però non di rado la legge finisce per essere in contrasto con la realtà. Per questo è urgente ripensare tutta la questione. 

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Antonio Grapppone

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