Diritti umani e Bioetica (Prima parte)

Analisi e approfondimenti del presidente della Commissione Affari Costituzionali del Parlamento Europeo

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Nella prima metà del secolo scorso le guerre hanno cominciato a chiamarsi “mondiali”. L’inimicizia e la violenza esplose in un punto del globo hanno contagiato l’intero pianeta. Finita la seconda guerra mondiale è iniziato il terrore di una terza guerra mondiale. Talmente “mondiale” da poter determinare la fine dell’intera umanità nel caso di uso di armi atomiche. È in questo contesto che nasce l’idea dei diritti umani, intesi come diritti universali, cioè globali, validi, cioè, in ogni tempo ed in ogni luogo.

Nella prima settimana di dicembre è stato celebrato l’anniversario della dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo (10 dicembre 1948). La sua reale universalità sembra provata dal fatto che questo atto, oggi firmato da tutti i popoli della Terra [1], è stato trasferito in decine di trattati internazionali di portata normativa mondiale [2] o regionale [3] ed è richiamato in quasi tutte le costituzioni nazionali [4].Si è soliti rintracciare i suoi precedenti in norme del percorso costituzionale inglese (dalla Magna Carta libertatum del 1205, all’ Habeas corpus del 1679) fino alla dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America del 1776 ed alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino nel pieno della Rivoluzione francese del 1789.

Ma proprio il confronto con questi precedenti mostra la novità della Dichiarazione del 1948. Questa ultima si autoproclama “universale”, mentre gli atti precedenti pretendevano di essere applicati nel limite territoriale degli Stati in cui erano stati emanati. Inoltre l’idea fondamentale era quella del limite da porre al potere del Sovrano e della autorità governativa: c’è uno spazio di libertà dell’individuo in cui potere pubblico non può entrare.

Questa idea è certamente presente anche nella Dichiarazione del 1948, ma la sua ispirazione fondamentale, il suo obiettivo finale e la sua causa iniziale è l’idea della pace. Il contesto, nel tempo a metà del secolo scorso che separa l’epoca delle guerre combattute da quella in cui la pace è garantita dall’equilibrio del terrore, è quello di rovine ancora fumanti, di lacrime che scendono ancora, dei missili che si accumulano negli arsenali con testate atomiche di una potenza distruttiva enormemente più grande di quelle lanciate su Hiroshima e Nagasaki.

In tale contesto di memoria dolente e di paura, i popoli della Terra affidano la loro speranza ad un atto della mente. Tale è il “riconoscimento” della sempre somma e quindi sempre uguale dignità umana. Lo dicono le prime parole della Dichiarazione: il fondamento della libertà, della giustizia e della pace consiste nel riconoscimento della dignità di ogni essere appartenente alla famiglia umana e dei suoi uguali ed inalienabili diritti”. Più che su un ragionamento filosofico tale “riconoscimento” si fonda su una esperienza. Lo dichiara il secondo capoverso del preambolo (“il disconoscimento ed il disprezzo dei diritti dell’uomo hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità”). L’uso della parola “fede” nel quinto capoverso (“i popoli delle Nazioni Unite hanno riaffermato nello statuto la loro fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della personaumana”)consente di qualificare la Dichiarazione del 1948 come un atto di religiosità “laica”. Non si nomina Dio, ma si fa riferimento ad una misteriosa sacralità dell’uomo: la sua dignità.

La titolarità dei diritti umani

Qual è il rapporto della bioetica con la dottrina dei diritti umani? Giovanni Paolo II nella enciclica “Evangelium vitae”, al n. 18, ha scritto: “giunge ad una svolta dalle tragiche conseguenze un lungo processo storico, che dopo aver scoperto l’idea dei «diritti umani» — come diritti inerenti a ogni persona e precedenti ogni Costituzione e legislazione degli Stati — incorre oggi in una sorprendente contraddizione: proprio in un’epoca in cui si proclamano solennemente i diritti inviolabili della persona e si afferma pubblicamente il valore della vita, lo stesso diritto alla vita viene praticamente negato e conculcato, in particolare nei momenti più emblematici dell’esistenza, quali sono il nascere e il morire.

Da un lato, le varie dichiarazioni dei diritti dell’uomo e le molteplici iniziative che ad esse si ispirano dicono l’affermarsi a livello mondiale di una sensibilità morale più attenta a riconoscere il valore e la dignità di ogni essere umano in quanto tale, senza alcuna distinzione di razza, nazionalità, religione, opinione politica, ceto sociale.

Dall’altro lato, a queste nobili proclamazioni si contrappone purtroppo, nei fatti, una loro tragica negazione. Questa è ancora più sconcertante, anzi più scandalosa, proprio perché si realizza in una società che fa dell’affermazione e della tutela dei diritti umani il suo obiettivo principale e insieme il suo vanto. Come mettere d’accordo queste ripetute affermazioni di principio con il continuo moltiplicarsi e la diffusa legittimazione degli attentati alla vita umana? Come conciliare queste dichiarazioni col rifiuto del più debole, del più bisognoso, dell’anziano, dell’appena concepito? Questi attentati vanno in direzione esattamente contraria al rispetto della vita e rappresentano una minaccia frontale a tutta la cultura dei diritti dell’uomo.

È una minaccia capace, al limite, di mettere a repentaglio lo stesso significato della convivenza democratica: da società di «con- viventi», le nostre città rischiano di diventare società di esclusi, di emarginati, di rimossi e soppressi. Se poi lo sguardo si allarga ad un orizzonte planetario, come non pensare che la stessa affermazione dei diritti delle persone e dei popoli, quale avviene in alti consessi internazionali, si riduce a sterile esercizio retorico, se non si smaschera l’egoismo dei Paesi ricchi che chiudono l’accesso allo sviluppo dei Paesi poveri o lo condizionano ad assurdi divieti di procreazione, contrapponendo lo sviluppo all’uomo? Non occorre forse mettere in discussione gli stessi modelli economici, adottati sovente dagli Stati anche per spinte e condizionamenti di carattere internazionale, che generano ed alimentano situazioni di ingiustizia e violenza nelle quali la vita umana di intere popolazioni viene avvilita e conculcata?”

Nella stessa linea di pensiero Papa Francesco nella recentissima esortazione apostolica “Evangelii Gaudium” al n. 214 ha scritto: “La difesa della vita nascente è intimamente legata alla difesa di qualsiasi diritto umano. Suppone la convinzione che un essere umano è sempre sacro e inviolabile, in qualunque situazione e in ogni fase del suo sviluppo. È un fine in se stesso e mai un mezzo per risolvere altre difficoltà. Se cade questa convinzione, non rimangono solide e permanenti fondamenta per la difesa dei diritti umani, che sarebbero sempre soggetti alle convenienze contingenti dei potenti di turno. La sola ragione è sufficiente per riconoscere il valore inviolabile di ogni vita umana…”.

In realtà fino a quando non è emersa la “questione antropologica”, cioè la questione della titolarità dei diritti umani, il magistero della Chiesa cattolica aveva guardato con sospetto la dottrina dei diritti umani. In questo aveva certamente giocato un ruolo la memoria delle persecuzioni subite nella Rivoluzione francese proprio ad opera di coloro che avevano proclamato i diritti dell’uomo [5]. Ma a partire da Giovanni XXIII (Pacem in terris) l’invocazione e la celebrazione dei diritti umani da parte della Chiesa si sono fatte sempre più forti. Paolo VI, parlando all’assemblea dell’ONU, nel 1965 disse che la Dichiarazione del 1948 è “quanto di più alto vi è nella saggezza umana”.

Ma, indipendentemente dal pensiero della Chiesa, bisogna riconoscere che la questione del soggetto, cioè del titolare dei diritti umani, in altre parole
la risposta alla domanda “chi è l’uomo” è decisiva sia nell’ambito della bioetica, sia della dottrina dei diritti umani. Tale questione è strettamente collegata al tema della pretesa universalità dei diritti umani e del loro rapporto con il diritto positivo. Come garantire il “riconoscimento”? Da un lato la “relativizzazione dei diritti umani”, farli dipendere, cioè, da ciò che ciascuno pensa – sia pure ciò che pensa una maggioranza in una data epoca- toglie ogni efficacia ai diritti umani, dall’altro la certezza e quindi la positività scritta delle norme è condizione di universalità, cioè di uguale applicazione da parte di tutti.

La relativizzazione dei diritti umani

La relativizzazione dei diritti umani è evidente nella giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, organo del Consiglio d’Europa, con sede a Strasburgo. E’ opportuno parlarne, perché si introduce così anche il tema della globalizzazione nell’ambito della giurisprudenza sui diritti dell’uomo e sulla bioetica. Vi sono le decisioni dei singoli Stati, ma le loro sentenze, specie quando sono di rango costituzionale, non sono più delle monadi. Vi sono influenze reciproche tra Stato e Stato. Capita sempre più spesso che la sentenza di uno Stato citi come argomento la decisione di un altro Stato. Inoltre si sono costituiti organismi giudiziari sopranazionali, dal Tribunale penale dell’AIA, alle varie Corti preposte all’interpretazione dei vari atti che proclamano i diritti dell’uomo. La loro stessa esistenza è un effetto della globalizzazione. Una di queste Corti è quella di Strasburgo. Chiamata più volte a giudicare sull’inizio della vita umana in materia di aborto e di procreazione artificiale, essa ha affermato il “principio dell’ampio margine di apprezzamento degli Stati” [6].

Questo principio in materia di aborto e di procreazione artificiale umana è servito a salvare in certi casi sia la legislazione statale restrittiva sia quella permissiva. Data l’attuale cultura egemone in questi due campi il principio della riserva statale ha fino ad ora evitato che la negazione del diritto alla vita del concepito e della sua stessa individualità umana venisse imposta ovunque. Tuttavia il ragionamento della Corte è chiaramente di stampo relativistico. Nelle sue sentenze si osserva che in materia di vita umana non vi è un giudizio comune nei vari Stati e che la coscienza dei popoli è divisa, cosicché manca una valutazione univoca. Perciò è meglio che ogni stato la pensi come meglio crede.

Questa posizione, la quale, come già detto, è l’ultima trincea per chi oggi difende il diritto alla vita dei concepiti nelle sedi internazionali, è chiaramente in contrasto con la dottrina dei diritti dell’uomo, se la si intende come espressione di valori umani universali, cioè oggettivamente validi per tutti in ogni tempo e luogo. I diritti dell’uomo precedono e giudicano le leggi scritte e i comportamenti dei singoli, quali che siano le loro opinioni. Naturalmente è comprensibile che anche sul contenuto e sulle implicazioni pratiche dei singoli diritti umani vi siano diversità di opinioni, ma meno accettabile è che sulla titolarità dei diritti dell’uomo il dubbio sia ritenuto invincibile e persino doveroso al punto da affidare alla sola forza della legge scritta il potere di definire l’uomo, secondo criteri che possono essere variabili a seconda della opportunità e degli obiettivi pratici perseguiti. Qui, dunque, al centro dei diritti umani, della bioetica e della globalizzazine si pone la questione antropologica.

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Carlo Casini

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