Dieci parole per la musica liturgica: “Espandente”

di Aurelio Porfiri*

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ROMA, martedì, 1 febbraio 2011 (ZENIT.org).- Espandente. Al termine di queste dieci parole per la musica liturgica, ci troviamo a che fare con il termine “espandente”, che in effetti le sintetizza e riassume tutte. Ex-pandere, viene dal latino e significa praticamente “stendere, dilatare”. Certo, visto così il significato si approssima a quello di eccedente, ma io li vedo in modo diverso. Eccedere è uno scarto fra la cosa e quell’in più di cui possiamo godere, espandente è un processo di estensione interno alla cosa. In che senso la musica liturgica è espandente? Nel senso che la musica liturgica allarga gli spazi della nostra anima, quando essa è vera musica liturgica. La musica liturgica non ci deve confermare, come già detto innumerevoli volte, ma essa deve essere un porto da cui la nostra anima possa salpare verso altri approdi. La musica liturgica, nel suo intimo, è escatologica, è verso l’altrove. Non è il “qui” che ne costituisce l’animus, piuttosto è il “non ancora”.

Qualche volta mi capita di ascoltare musica con testi cristiani, specie di gruppo americani. C’è un gruppo molto popolare chiamato “Point of Grace”. Queste donne cantano (anche bene) testi ispirati dal Vangelo, con musiche di chiara impronta pop. Le canzoni sono molto orecchiabili e piacevoli e trovano un vasto pubblico: ma non è musica liturgica, sarebbe fuori posto durante una liturgia. La musica delle “Point of Grace” (come molti altri gruppi) parla all’uomo e alla donna nel loro quotidiano, cerca di fare in modo che essi possano ascoltare messaggi diversi da quelli passati dallo stesso tipo di musica, ma con testi diversi. La musica liturgica vera ci porta via dal quotidiano, ci permette di affacciarci in una dimensione che ancora non ci appartiene. La musica liturgica ci permette di toccare il cielo, anche se solo per pochi momenti. Con la vera musica liturgica l’anima è sempre in viaggio. Ma c’è il problema vero: come fare perché questa musica liturgica possa essere sempre espandente? E qui entrano in gioco fattori legati molto alla quotidianità che rendono difficile il viaggio se non, a tratti, impossibile.

Nella musica liturgica, si è passati improvvisamente dal professionismo al volontariato, proprio quando l’apporto di professionisti preparati sarebbe stato ancora più necessario per accompagnare la svolta. Professionisti formati alle nuove richieste che provenivano dai documenti conciliari e dai successivi aggiustamenti. Il musicista liturgico, così come chiunque opera in questo ambito, deve avere una preparazione veramente profonda non soltanto nel campo suo proprio, ma anche in altri, così da poter partecipare e contribuire più profondamente alla celebrazione. Ecco perché si richiede una preparazione professionale al musicista e come tale deve essere trattato. Questo è uno dei grandi mali della mentalità ecclesiale moderna: il musicista non deve essere pagato, figuriamoci chi suona in chiesa. Ma perché? Quando si fa questa domanda ti tirano fuori tutti i discorsi che si va in chiesa per fede, non per soldi e via dicendo. Ma tutti capiamo che questo discorso è molto mal posto. Certo nessuno deve pagarmi per pregare in chiesa, ma se io presto un servizio alla comunità, è giusto che la stessa mi metta nelle condizioni di poterlo fare liberamente.

Tutti coloro che hanno studiato musica sanno quanto sia anche costoso dal punto di vista economico e come comporti un notevole dispendio di energie e tempo. In Italia la mentalità, specie, devo dire, in molto clero, non accenna a cambiare. Diverso è in altri paesi. Nei paesi di area anglosassone per esempio non è un problema il fatto che chi svolge un servizio professionale, anche nell’ambito della musica, deve essere stipendiato. Negli Stati Uniti molti vivono facendo questo mestiere (cosa da noi impensabile, me compreso). Sono pagati e pienamente coinvolti nella vita della loro parrocchia o cattedrale. Hanno spesso più di un coro e la musica che cantano è sovente di autori contemporanei. In Italia questo è quasi impensabile. Ogni autore è un’isola a sé, sempre pronto a giudicare con la parola “musicaccia” quello che non è fatto da lui. O nella migliore delle ipotesi mostra rispetto per altri autori ma sempre mantenendosene ben lontani. Credetemi, le eccezioni sono poche. Io penso ci voglia coraggio nel fare delle scelte e degli investimenti nella liturgia. Investimenti anche materiali. Allora occorrerà quel cambiamento di qualità della nostra musica liturgica, si creerà un repertorio (in parte esistono già molte composizioni di ottimo livello di vari autori, laici e sacerdoti) che potrà un giorno forse essere considerato un modello qualora anche il progetto rituale suggerito dal Concilio sarà modificato (magari da un altro Concilio, tra molti molti anni) per rendere la liturgia sempre più fedele al mandato di Gesù Cristo. A quel punto, forse, la musica liturgica sarà espandente. Ma purtroppo c’e’ sempre tanta ipocrisia che rende difficili i cambiamenti.

Il Papa Benedetto XVI ci indica i documenti conciliari, quindi anche quello sulla liturgia, in continuità con la tradizione della Chiesa (vedi il famoso discorso alla Curia Romana del 2005). Tradizione che non va vista, parlando ancora di musica liturgica, come una collezione di repertori e brani mirabili ma piuttosto come la presenza di una costante che dà vita e senso a quello che si va svolgendo. Se gli autori della grande polifonia rinascimentale sono considerati parte della tradizione non è perché loro eseguissero solo i brani di gregoriano ma perché nei loro stessi brani, avevano trovato un criterio che garantiva la continuità con la tradizione precedente. La continuità attuale va quindi cercata nella riscoperta di questo criterio fondamentale che informerà tutti i tentativi che si fanno nel campo. Qual è questo criterio? È l’aderenza piena e assoluta al rito che si va svolgendo. Ma allora la bontà della composizione non è importante? Lo è proprio perché aderisce a questo criterio. I linguaggi liturgici (non solo quello verbale) comunicano per via emozionale qualcosa del mistero della celebrazione, ecco perché ci “espandono”. Non è la musica ma il suo contatto con il mistero che si celebra, la sua forte unione. Per essere a servizio di questa comunicazione, bisogna essere esperti e in grado di piegare la materia (sonora, visiva…) ad esigenze così alte. Quindi la bontà della composizione è importante non in se stessa ma in rapporto a questo discorso. Ci può essere un brano che è scritto benissimo ma che non è adatto alla celebrazione e non rappresenta quindi una continuità con la tradizione precedente. Pensiamo a certi salmi barocchi che durano più di mezz’ora. Quando li ascolto penso che sono bellissimi ma non possono avere oggi un ruolo nelle nostre celebrazioni. Sono stati composti per una diversa idea del rito, rispettabile ma non più attuale. Un’idea che anche tradiva l’essenza del rito romano straordinario (come lo chiamiamo oggi). Ma a che punto è la nostra ricerca di “un canto nuovo” da affiancare a quelli della grande tradizione che ancora rispondono alle esigenze attuali?

Se gli operatori musicali nostrani provano a pensare ad autori contemporanei entrati effettivamente nell’uso delle comunità che celebrano l’eucarestia, penso che non possano non constatare la rarità. Togliendo i canti immediatamente successivi al Concilio, che andavano a riempire un vuoto per chi voleva celebrare in lingua vernacolare, pochi altri si sono imposti negli ultimi vent’anni. Certo, ci sono anche quegli autori che si esprimono con un linguaggio molto simile, se non uguale a quello della musica cosiddetta “leggera”, e le composizioni emanate dai movimenti ecclesiali. E gli autori più accademicamente preparati? Questi non brillano in genere per la loro diffusione. Onestà intellettuale vorrebbe che ci si domandasse: perché? Cosa non va in chi fruisce di queste musiche? E, soprattutto, cosa non va in chi le compone? Fors
e non riescono a farsi rappresentanti del senso orante di una comunità che prega nell’oggi e non rappresentano che se stessi? E già, perché sarebbe ora che onestamente ci si ponesse la domanda sul perché alcuni autori, pur ricolmi di sapienza accademica, non funzionano molto, non passano. Non è qui da dimenticare come ammonimento la massima napoleonica secondo cui spesso i popoli si governano facendo leva sui loro vizi più che sulle loro virtù. Ma alla fine dei conti, questa frase non toglie tutti i problemi che provengono da quell’interrogativo. Certo, è vero che ricalcando certi modelli musicali che si rifanno a quella che, prendendo a prestito la definizione data da un celebre semiologo, viene definita la “competenza musicale comune”, si ottiene un accesso più immediato alla massa delle persone. Ma noi che crediamo che la musica liturgica debba avere una funzione espandente, un arricchimento di chi la fruisce (arricchimento emotivo visto nella prospettiva di quello che si diceva sopra), ci chiediamo se questo stesso arricchimento viene lo stesso garantito facendo leva su facili emozionalismi. L’emozione non è il fine della liturgia ma un vettore fondamentale che ti permette di accedere ad altro. Suscitare un facile emozionalismo superficiale, senza un approfondimento compositivo, spirituale ed estetico è ugualmente utile a chi frequenta a vario titolo le celebrazioni? Le emozioni, in se stesse, sono un terreno pericoloso e molto scivoloso, bisogna maneggiarle con cura.

Dunque perché alcuni non funzionano, pur se ottimamente preparati tecnicamente e preparati liturgicamente? Io credo sia dovuto a un corto circuito comunicativo. Se noi siamo appassionati di archeologia e frequentiamo le lezioni di un dottissimo professore che ci parla delle prime case sul Palatino con dovizia estrema di particolari ma con linguaggio ridondante, lungo nel periodare, baroccheggiante, noi, pur se interessati sconteremmo la pena di dover seguire un’esposizione percepita genericamente come “pesante”. Ma se lo stesso professore dicesse proprio le stesse medesime cose, con un linguaggio chiaro, coinvolgente e che, soprattutto, tiene bene a mente chi lo ascolta, che poi è lo scopo fondamentale per cui quel tizio sta lì a parlare, non ci sembrerebbe tutto ciò più invitante? Certamente, ne sono sicuro. Così per molti compositori. Talvolta sembrano non dare attenzione a chi poi, praticamente, dovrà fruire del loro lavoro. Io credo che un bravo compositore ai giorni nostri, per capire la gente che dovrà fruire del suo lavoro, debba guardare la televisione, andare al cinema, capire come i cantautori più interessanti costruiscono i loro testi, debba leggere i giornali, insomma debba essere un’esegeta del momento presente, l’unico che ci è dato vivere e che sconteremo per tutta la vita. Certo non deve fare solo quello, ma quello non gli deve essere ignoto. Io invece conosco molti musicisti per la liturgia chiusi all’esterno e alle sollecitazioni culturali dell’oggi, assolutamente contrari ad ogni contaminazione con la musica moderna e popolare. Molti grandi compositori del passato, fortunatamente non la pensavano come loro. Insomma, per molti è meglio dire che la massa è ignorante. Invece, cogliendo le sollecitazioni del mondo che ci circonda, con l’abilità di farle divenire arte, laddove possibile, si renderà quel servizio che ci qualificherà, oltre che come bravi artisti, anche come i servi “fedeli e saggi” (Vangelo di Luca 12, 41-48), citati dal Papa nel discorso alla Curia Romana del 2005. Si badi bene: io non dico che bisogna copiare da cinema o cantautori, ma credo sia interessante capire come essi comunichino e cosa possono insegnarci sulle persone che concretamente vanno ad assistere alle nostre liturgie. Talvolta chiudiamo la musica liturgica in un ghetto soffocante per paura di rovinarla con il risultato di farle mancare l’aria.

Come far sì che la musica liturgica favorisca ancora quell’incontro mirabile tra il cielo e la terra che solo nella liturgia trova la sua massima espressione? Innanzitutto con l’adesione piena e completa al rito e alle sue dinamiche funzionali, come più volte ripetuto. Quando un giovane mi chiederà un consiglio e io sarò abbastanza vecchio da darglielo, su cosa sia la cosa più importante nella musica liturgica, forse gli dirò: “osserva e medita il rito”. E’ straordinario pensare a quante profonde implicazioni ci siano dietro alla dinamica rituale. La musica liturgica e il rito sono unite intimamente. Se solo avessimo occhi puri per guardare cosa vuol dire la forza di un rito, avremmo tutto quello che ci è necessario per esserne trasformati.

[Conclusa la serie sulle “Dieci parole per la musica liturgica”, la rubrica riprenderà ora il suo normale ritmo quindicinale. Il prossimo articolo uscirà il 15 febbraio]

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*Aurelio Porfiri vive a Macao ed è sposato, con un figlio. E’ professore associato di musica liturgica e direzione di coro e coordinatore per l’intero programma musicale presso la University of Saint Joseph a Macao (Cina). Sempre a Macao collabora con il Polytechnic Institute, la Santa Rosa de Lima e il Fatima School; insegna inoltre allo Shanghai Conservatory of Music (Cina). Da anni scrive per varie riviste tra cui: L’Emanuele, la Nuova Alleanza, Liturgia, La Vita in Cristo e nella Chiesa. E’ socio del Centro Azione Liturgica (CAL) e dell’Associazione Professori di Liturgia (APL). Sta completando un Dottorato in Storia. Come compositore ha al suo attivo Oratori, Messe, Mottetti e canti liturgici in latino, italiano ed inglese. Ha pubblicato al momento quattro libri, l’ultimo edito dalle edizioni san Paolo intitolato “Abisso di Luce”.

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ZENIT Staff

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