Diagnosi pre-impianto e selezione dei gameti

ROMA, domenica, 26 giugno 2005 (ZENIT.org).- Di seguito pubblichiamo per la rubrica di Bioetica la risposta alla domanda di una lettrice da parte della dottoressa Claudia Navarini, docente della Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum.

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Gent.ma d.ssa,innanzitutto i miei complimenti per la chiarezza delle Sue esposizioni, che leggo regolarmente su ZENIT. Ho avuto due maternità, la seconda delle quali segnata dalla nascita di una figlia con Sindrome di Down. Il quesito è il seguente: è possibile sperare in futuro (non certo per me ormai cinquantenne!) che la tecno-medicina possa facilitare una fecondazione mirata, partendo dalla selezione dei gameti? Se solo fosse stato possibile, avrei cercato il terzo figlio che, invece, ho ligiamente evitato di mettere in cantiere, perchè………ogni concepito è una persona!, ma averne due di Down in famiglia……… E poi: perchè la ricerca punta sugli embrioni anzicchè sui gameti, che la libererebbero di ogni condizionamento etico? Grazie se vorrà rispondermi. – Carla V. :

Cara Carla,

la selezione dei gameti apre spunti di riflessione certamente interessanti. Infatti, attraverso tale selezione (anche genetica) si cercherebbe davvero di prevenire la patologia, ossia di eliminare le cause che possono ingenerare nel concepito anomalie e rischi per la salute, senza toccare vite umane.

Non è così con la diagnosi pre-impianto, che i recenti referendum sulla legge 40 volevano introdurre nell’ordinamento. Mi permetta dunque, prima di passare alla Sua domanda, di ripercorre alcune questioni fondamentali legate alla diagnosi preimplantatoria. Questa diagnosi sarebbe servita soltanto ad individuare i malati allo scopo di eliminarli, commettendo così una grave, ingiusta, inaccettabile discriminazione fra esseri umani in via di sviluppo.

Lasciava esterrefatti, a questo proposito, l’articolo apparso sul “Corriere della Sera” il 9 giugno scorso. Aveva un titolo curioso: “ Embrione, così la ricerca aiuta le nascite”. E il sottotitolo era ancora più intrigante: “ Uno studio USA: con la diagnosi pre-impianto l’80% delle gravidanze ha successo”. Ma nel corpo dell’articolo, c’erano inquietanti affermazioni: “con la diagnosi pre-impianto si è riusciti a curare l’anemia di Fanconi, ad esempio, e la sindrome di Down […]. Adesso si stanno studiando i geni che sopprimono i tumori ereditari e geni legati alla demenza senile, e quelli legati a tante altre malattie del sistema nervoso. Così sarà possibile, un girono, che queste gravi malattie non si trasmettano ai figli”.

Strana cura, quella che risolve il problema “alla radice” eliminando il soggetto affetto. È certo che Loris Brunetta, presidente dell’Associazione Ligure Thalassemici, non avrebbe voluto essere sottoposto a una simile “cura”. Tempo fa, in una sua dichiarazione a “Il Foglio”, Brunetta aveva inquadrato bene il significato di tale ingegnosa “terapia”: “io sono uno di quelli che avrebbero buttato nel cestino”, diceva (cfr. A. Benini, Angelo Loris Brunetta, ritratto di un talassemico, “Il Foglio”, 23 ottobre 2004).

La diagnosi preimplantatoria rivela una mentalità eugenetica che nessuno vuole più vedere nelle leggi di uno stato, dopo che la riflessione sul valore della civiltà ha portato ad abolire e a condannare altre forme di ingiustizia sociale come la schiavitù, le leggi razziali, l’emarginazione delle donne, lo sfruttamento del lavoro minorile. Come in quei casi, anche nella strumentalizzazione dell’embrione si rivela un’errata concezione della dignità umana, che viene attribuita ad “alcuni” uomini dotati di “alcune” caratteristiche, e non agli altri.

Come per l’embrione, anche in quei casi gli individui colpiti venivano considerate “non persone” o “persone di serie B”, con un indebolimento di tutto il corpo sociale, che viene meno al suo compito di proteggere il più debole nei suoi diritti fondamentali (cfr. C. Navarini, Procreazione assisitita? Le sfide culturali: selezione umana o difesa della vita, Portalupi, Casale Monferrato 2005).

Le “nobili” motivazioni addotte dai referendari per la diagnosi e la selezione dell’embrione prima dell’impianto (evitare la nascita di un infelice, soddisfare il desiderio di avere un figlio sano, prevenire gli “aborti terapeutici”, dare una speranza ai portatori di malattie genetiche) svaniscono non appena si rifletta sull’effettivo significato di tali “soluzioni”: usare l’embrione umano – uno stadio di sviluppo che tutti noi, che dibattiamo su questi temi, abbiamo attraversato – come un semplice mezzo.

Accettando di scegliere gli embrioni, infatti, si ripudia il fine proprio della procreazione (anche di quella artificiale), cioè il figlio, e si sostituisce ad esso unicamente il desiderio dei potenziali genitori, che diventa incondizionato. Così incondizionato da non ammettere neppure la minimale condizione di rispettare la vita del figlio ardentemente voluto.

Qui sta il punto: è in gioco la vita di figli in provetta che esistono già, che sono stati violentemente chiamati all’esistenza, e di fronte ai quali la società civile non può chiudere gli occhi scaricando ogni responsabilità sulla “intangibile” scelta della donna o della coppia.

Si levavano voci tranquillizzanti, prima del referendum, che dicevano: “non temete, non stiamo creando un mondo eugenista, non vogliamo il bambino perfetto, con gli occhi azzurri e i capelli biondi; soltanto bambini senza gravi e invalidanti malattie!”.

Se si trattasse di cure o di prevenzione, il discorso non sarebbe sbagliato: è l’obiettivo della medicina. In effetti, applicando simili affermazioni alla selezione dei gameti avremmo, opportunamente tratteggiata, un’etica della ricerca e della medicina che intendono servire l’uomo senza gravarlo del mito della perfezione o dell’immortalità, che non sconfinano nella negazione del limite strutturalmente connaturato all’esistenza umana.

È una strada che i medici più accorti stanno seguendo con attenzione, conformemente alla loro etica professionale, e con buoni risultati. Basti pensare alle ricerche del prof. Licinio Contu, direttore del Centro regionale trapianti a Cagliari, che analizzando il genoma del primo globulo polare – una piccola cellula contenuta nell’ovocita con il suo stesso DNA – è in grado di selezionare gli ovuli che non daranno origine ad un embrione affetto da talassemia (cfr. A. Mura, Diagnosi reimpianto: l’alternativa c’è, “Avvenire”, inserto “È vita”, 6 giugno 2005).

Per altre malattie genetiche, o per le anomalie cromosomiche come la sindrome di Down, o per malattie congenite che insorgono durante la gestazione, la situazione è differente a causa dei meccanismi di trasmissione o di insorgenza delle patologie. Tuttavia, la scelta dei gameti “migliori”, cioè di quelli maggiormente idonei alla fecondazione, fornisce già maggiori probabilità di avere figli sani.

Non si può escludere che negli anni futuri – se le forze si indirizzeranno in questa direzione – si possa diagnosticare un numero sempre maggiore di malattie e di anomalie a partire dai gameti, che in sé si potrebbero lecitamente scegliere o scartare in modo eticamente lecito, in quanto si tratta di cellule e non di vite umane. Gonzalo Miranda, L.C., decano della Facoltà di Filosofia dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, osserva che “in alternativa alla selezione degli embrioni, la selezione dei gameti è auspicabile. Con alcune riserve, però”.

“È chiaro infatti che anche la selezione di ovuli e spermatozoi può alimentare la mentalità eugenetica, allorché non si diriga unicamente verso la prevenzione delle malattie ma verso la determinazione delle caratteristiche di un individuo. Evitare la malattia non significa pre-stabilire la vita delle persone, ma solo promuovere la salute; invece, effettuare selezioni di gameti per migliorare l’aspetto o le prestazioni dei concepiti in vitro rivela il t
entativo di programmare l’esistenza dei figli”.

“Insomma, scegliere i gameti a scopo migliorativo (selezione positiva) è un’operazione che risponde ad una logica molto diversa, e più insidiosa, rispetto alla selezione negativa. D’altra parte, anche nelle applicazioni della tecnologia medica dopo la nascita (ad esempio nella chirurgia estetica) la prima presenta problemi etici rilevanti”.

Vi sono due problemi ulteriori: il primo è il problema di fondo, ovvero la fecondazione artificiale in sé. La selezione dei gameti avverrebbe al solo scopo di effettuare una fecondazione in vitro, che – omologa o eterologa – non rispetta la dignità dell’essere umano.

Inoltre, l’accesso alla fecondazione artificiale non è consentito dalla legge 40 alle coppie fertili, anche se portatrici di patologie genetiche o anche se, per ragioni di età o di storia familiare, sono maggiormente a rischio di avere figli malati o disabili. La selezione dei gameti potrebbe eventualmente essere eseguita soltanto dalle coppie non fertili che si rivolgono alla medicina riproduttiva essenzialmente per avere un figlio biologico.

La fecondazione artificiale, infatti, è stata consentita dalla legge italiana allo scopo di ridurre lo svantaggio delle coppie sterili e infertili, mettendole nelle condizioni di procreare – quantomeno di provare ad avere un figlio proprio – nonostante il limite fisico. Ed è un limite che è bene non valicare.

Può apparire ingiusto, a coppie fertili che rischiano di trasmettere malattie ereditarie, non poter ricorrere alla fecondazione in vitro con selezione dei gameti, e doversi rassegnare a non avere figli biologici o ad affrontare l’eventualità di mettere al mondo un figlio malato. Tuttavia, rileva Gonzalo Miranda, “bisogna capire che la procreazione assistita nasce per aiutare gli sterili ad avere figli, e non per produrre esseri umani in laboratorio”.

D’altra parte, continueranno ad esistere patologie che sfuggono alle possibilità diagnostiche e selettive, e che faranno apparire dei “privilegiati” coloro che possono invece beneficiarne. Un’anomalia cromosomica come la trisomia 21 (o sindrome di Down), sembra non essere ereditaria nel 98% dei casi, sembra essere cioè indipendente dal patrimonio genetico dei gameti (cfr. http://www.gyneconline.net/cromosomopatie.htm).

La genetica ha invero individuato un dato rilevabile attraverso il sangue dei potenziali genitori che sembrerebbe associato ad un rischio cinque volte maggiore di concepire un bimbo affetto da trisomia 21. Tuttavia, al di là della diagnosi, l’unica forma eticamente lecita di prevenzione resta in questo caso la continenza periodica per evitare una nuova gravidanza.

Sperimentare il limite nella propria capacità procreativa e gestazionale – un limite che non è soltanto la sterilità e l’infertilità – è sempre fonte di sofferenza per una famiglia aperta alla vita, anche laddove esistano già dei figli. Eppure, all’origine della maternità e della paternità c’è l’apertura ad un dono, quello della nuova vita, che non può diventare necessità, pretesa o diritto senza rinnegare profondamente se stesso.

[I lettori sono invitati a porre domande sui differenti temi di bioetica scrivendo all’indirizzo: bioetica@zenit.org . La dottoressa Navarini risponderà personalmente in forma pubblica e privata ai temi che verranno sollevati. Si prega di indicare il nome, le iniziali del cognome e la città di provenienza]

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ZENIT Staff

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