"Di fronte alla crisi economica e sociale" (Terza parte)

Intervento del patriarca di Venezia, mons. Francesco Moraglia, al Festival della Dottrina Sociale

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ROMA, martedì, 18 settembre 2012 (ZENIT.org).- Pubblichiamo la terza parte dell’intervento tenuto dal patriarca di Venezia, mons. Francesco Moraglia, al Festival della Dottrina sociale della Chiesa, svoltosi questo fine settimana a Verona. Il titolo completo del testo è: “Di fronte alla crisi economica e sociale: elementi di speranza e prospettive ricavate dal magistero sociale”.

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Se ritorniamo alla domanda che Elisabetta II aveva posto alla London School of Economics – “Come mai gli economisti non hanno saputo prevedere la recessione e la sua gravità?” – possiamo pensare di non essere lontani dal vero dicendo che non è stata prevista non nonostante la globalizzazione ma proprio a causa della situazione in cui la globalizzazione ha posto gli addetti ai lavori.

Così gli operatori del settore sono, a un tempo, responsabili e vittime del contesto che – nel bene e nel male – si è determinato a causa di una globalizzazione che non ha ancora trovato una vera governance, ossia una guida capace di garantire i diritti di tutti e non di una parte, o di qualche parte, o della parte più forte. 

Abbiamo visto, in tal modo, come i maggiori esperti di economia e finanza abbiano comunque consentito l’affermarsi di un pensiero dominante così che quanti avevano opinioni divergenti sull’entità e identità della crisi non hanno potuto o non hanno avuto la forza di esprimere il loro dissenso.

Risulta d’estrema attualità quanto, trentaquattro anni fa – era il giugno 1978 – Aleksander Isaevic Solzenicyn, tra i più noti rappresentanti dell’opposizione al regime sovietico, espresse in una conferenza tenuta presso l’Università di Harvard.

Lo scrittore russo – tra i più grandi del XX secolo – disse in quella circostanza: “In Occidente anche senza bisogno della censura, viene operata una puntigliosa selezione che separa le idee alla moda da quelle che non lo sono, e benché queste ultime non vengano colpite da alcun esplicito divieto, non hanno la possibilità di esprimersi veramente né nella stampa periodica, né in un libro, né da alcuna cattedra universitaria. Lo spirito dei vostri ricercatori è sì libero, giuridicamente, ma in realtà impedito dagli idoli del pensiero alla moda. Senza che ci sia, come all’Est, un’aperta violenza, quella selezione operata dalla moda, questa necessità di conformare ogni cosa a dei modelli standardizzati, impediscono ai pensatori più originali e indipendenti di apportare il loro contributo alla vita pubblica e determinano il manifestarsi di un pericoloso spirito gregario che è di ostacolo a qualsiasi sviluppo degno di questo nome…”. (A. Solzenicyn, Discorso pronunciato all’Università di Harvard, l’8 giugno 1978; in Supplemento al n. 10, “Litterae Communionis CL” – 1978, a cura di Sergio Rapetti). 

La conferenza si tenne – come detto – nel giugno del 1978 e, quindi, undici anni prima della caduta del muro di Berlino. Parole, allora,  certamente coraggiose, sebbene non da tutti condivise, ed oggi, invece, largamente scontate ma che, proprio come tutte le realtà scontate, finiscono per non incidere. Uno dei possibili modi di praticare la censura è, infatti, il silenzio motivato proprio dal fatto che si tratti di cose ormai pacifiche. 

La lunga citazione di Aleksander Solzenicyn si giustifica, pur non riguardando temi finanziari ed economici, perché è vera a 360 gradi e si riferisce tout court all’agire umano, chiamando in causa anche l’ambito finanziario ed economico.

Il pensiero di Solzenicyn deve farci riflettere perché, non solo in un recente passato ma anche oggi, l’Occidente si propone come il presidio delle libertà personali e come guida della democrazia a livello mondiale.

Ora, se questo è certamente vero in senso relativo, ossia in rapporto ad altre zone geo-politiche, rimane tuttavia da chiedersi – anche alla luce della poca capacità critica mostrata nell’attuale crisi – se ciò sia vero in senso assoluto.

Riprendiamo, ancora, la lettera dei professori Besley e Hennessy, nel passo, in cui i due membri della British Accademy si esprimono con queste parole: “Maestà, il fallimento nel predire l’evoluzione temporale, l’estensione e la severità della crisi… è stata principalmente un fallimento dell’immaginazione collettiva…”.

Ciò vuol dire che quanti avevano conoscenze e competenze per comprendere ciò che stava succedendo hanno mostrato – come già detto – un eccessivo conformismo, una sorta di pensiero gregario e non hanno saputo, in alcun modo, delineare l’ampiezza e la tempistica del fenomeno. Inoltre non sono stati neppure in grado di percepire che non si trattava della chiusura di un normale ciclo ma di una crisi di proporzioni epocali.

Ora, e questo è il punto, se qualcuno pur avendo compreso la situazione, non ha avuto la possibilità d’informarne l’opinione pubblica per tempo – bypassando così chi aveva in mano la guida finanziaria, economica e politica – allora vuol dire che qualcosa non ha funzionato come avrebbe dovuto.

Inoltre nella lettera di Besley e Hennessy – come vedremo di seguito – si fa riferimento alla spregiudicatezza degli operatori finanziari ma, in tal modo, si finisce per mettere in questione l’etica stessa.

E’ lecito chiedersi, allora, qual è il fine ultimo di un investimento? E ancora: il profitto può essere l’unica realtà a cui mirare? Come la finanza può ridursi a gioco speculativo che mira all’arricchimento di pochi nel brevissimo periodo? E, infine, la finanza è ancora al servizio dell’economia reale e, quindi, dell’uomo?

Le seguenti parole di Besley e Hennessy pongono più che un interrogativo e risultano chiarificatrici: “La maggioranza degli economisti – contro il numero esiguo di quanti avevano messo in guardia sulla crisi – era convinta che i maghi della finanza avevano trovato nuovi e intelligenti modi per gestire il rischio… Difficile trovare un esempio simile di auto-illusione e virulenza intellettuale”.

All’incapacità di oltrepassare modelli assunti acriticamente, solo perché espressione del pensiero dominante, si deve aggiungere un’imperdonabile e forse anche ideologica – vedremo in che senso – sottovalutazione della realtà, un ottimismo di maniera o addirittura la presenza, in molti operatori, della sindrome che Jean de La Fontaine delinea magistralmente nel suo apologo “Pierina e il secchiolino del latte”, un racconto allegorico che tutti – compresi gli operatori della grande finanza – dovrebbero rileggere con più attenzione.

Questo apologo narra come Pierina, mentre si reca al mercato per vendere il latte, con immaginazione fervida, di pensiero in pensiero, vagheggia una serie di cessioni e acquisti per cui, dal secchiolino di latte,  si passa ad alcune dozzine di uova, poi ad una gallina, cui segue un maiale, infine un vitello che presto cresce e diventa una bella mucca… A questo punto, inavvertitamente, Pierina – che già assapora la gioia della sua bella mucca… – compie un gesto inconsulto e rovescia il latte. Allora ogni cosa, in un breve momento, crolla: mucca, vitello, maiale, gallina, uova…

Tutto si mostra un misero castello di soli pensieri e questi bei sogni, in un breve istante, svaniscono miseramente. La morale della favola è delineata dallo stesso La Fontaine: “… proprio mentre io siedo de’ miei gran sogni in cima, cade il castello, e resto il Bertoldin di prima”.

Con rispetto parlando, qualcosa del genere è capitato a taluni esponenti del mondo economico e finanziario che s’illudevano di passare da investimento a investimento, da speculazione a speculazione, da facile guadagno a facile guadagno, nella convinzione che si sarebbe passati dal poco al molto e al tutto ma così non è stato perché, così, non poteva essere. Soprattutto, non doveva essere. La favola di P
ierina è immagine di una finanza che si concepisce in termini speculativi, come gioco d’azzardo più che come strumento posto al servizio dell’economia reale e del bene comune.

A questo punto, è necessario dar conto di un’altra lettera che porta la data del 10 agosto 2009 ed è firmata da dieci noti esponenti del mondo economico britannico. Essi – a loro volta – intendevano rispondere alla domanda della Regina Elisabetta ma, allo stesso tempo, anche a Besley e a Hennessy.

Besley e Hennessy, come visto, avevano parlato d’abbaglio collettivo, di “feelgood factor ” – ottimismo di facciata – che portava a non dare importanza al deficit finanziario di alcuni Paesi. Tutto era iniziato con un’eccesiva fiducia accordata ai bassi tassi d’interesse che avrebbero garantito mutui favorevoli e, alla fine, anche la casa di proprietà. Non si colse per tempo il rischio che poteva determinare l’insolvibilità e la trasformazione del credito frantumato in strumenti finanziari sempre più sofisticati e fantasiosi.

I firmatari della seconda lettera criticavano i colleghi autori di quella del 22 luglio 2009 puntando il dito contro una loro dimenticanza: non aver stigmatizzato la formazione inadeguata degli economisti che – a loro giudizio – sarebbero formati, quasi esclusivamente, sulla base di conoscenze matematiche così che le loro teorie si riducono a pure e astratte applicazioni. In tal modo si smarrisce sempre più il contatto con la realtà, le istituzioni e la concretezza del mondo economico.

Nonostante i vari tentativi di risposta alle differenti questioni, rimanevano e rimangono comunque non pochi dubbi. Ci si chiedeva e ci si chiede quale significato attribuire all’espressione: “Siamo di fronte a un fallimento di immaginazione collettiva”. E infine: come mai non si era intervenuto nei confronti di economisti che, tutto sommato, per formazione – come è stato detto – si mostravano intellettualmente subalterni a un sapere legato troppo alle scienze matematiche applicate e, di conseguenza, poco attento alla realtà?

[La seconda parte è stata pubblicata lunedì 17 settembre. La quarta ed ultima parte uscirà mercoledì 19 settembre]

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ZENIT Staff

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