"Di fronte alla crisi economica e sociale" (Quarta ed ultima parte)

Intervento del patriarca di Venezia, mons. Francesco Moraglia, al Festival della Dottrina Sociale

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ROMA, mercoledì, 19 settembre 2012 (ZENIT.org).- Pubblichiamo la quarta ed ultima parte dell’intervento tenuto dal patriarca di Venezia, mons. Francesco Moraglia, al Festival della Dottrina sociale della Chiesa, svoltosi questo fine settimana a Verona. Il titolo completo del testo è: “Di fronte alla crisi economica e sociale: elementi di speranza e prospettive ricavate dal magistero sociale”.

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Lasciamo aperta la porta anche ad altre possibili domande a proposito della crisi finanziaria ed economica, sulla sua genesi, sul suo sviluppo e su eventuali errori e reticenze di gestione.

Solamente una risposta – a mio avviso –  è in grado di determinare una reale inversione di rotta, in modo che, quanto si è verificato, non si ripeta: la risposta consiste nel porre – con determinazione – l’etica al centro di tutto. Poiché solamente una finanza, un’economia e un profitto legati all’etica possono garantire la centralità dell’uomo; l’uomo, infatti, deve essere il fine tanto della finanza, quanto dell’economia, quanto del profitto.

Qui, ai cattolici soprattutto veneti, non può non venire alla mente la figura del beato Giuseppe Toniolo, docente universitario, economista e integerrima figura di laico cristiano che con il suo impegno sociale e politico segnò la vita ecclesiale della fine del diciannovesimo secolo e dell’inizio del ventesimo.

L’etica è assolutamente essenziale per la sopravvivenza dell’umanità poiché tutte le azioni dell’uomo, alla fine, si rapportano al bene o al male, alla giustizia o all’ingiustizia e, in ultima istanza, si confrontano con la dignità della persona umana.

Tutto ciò che è male e ingiusto confligge con Dio, perché Dio è custode e garante dell’uomo e del suo mondo. E, quindi, ciò che è contro l’uomo è anche contro Dio.

Sarebbe inaccettabile che la finanza, l’economia, il profitto – ossia quelle attività umane che si collegano al lavoro, uno dei beni essenziali nella vita delle persone, delle famiglie e della società – non avessero a che fare con l’etica.

D’altra parte, l’Antico e il Nuovo Testamento garantiscono che l’uomo – immagine e somiglianza di Dio (cfr. Gen1, 26-27) – è, insieme, centro e fine di tutto. Proprio perché l’uomo è centro e fine di tutto, per l’etica cristiana, niente viene prima dell’uomo e niente può essere contro l’uomo.

La dottrina sociale della Chiesa, così come ci insegna la Mater et Magistra – di cui si è appena ricordato il cinquantesimo anniversario di promulgazione (1961-2011) – è parte integrante della concezione cristiana della vita (cfr. n. 206). Soprattutto in un periodo come questo, di marcata secolarizzazione, è fondamentale ribadire come la dottrina sociale della Chiesa sia legata tanto alla rivelazione quanto alla retta ragione. In tal modo, attraverso il magistero sociale, la Chiesa sa di parlare, a pieno titolo, sia all’uomo sia al cristiano.

La nostra società, di fronte ai forti pluralismi socio-culturali che la caratterizzano, mostra l’assoluta necessità di poter contare su ciò che Papa Benedetto XVI ha indicato, fin dagli esordi del pontificato, come “ragione allargata” o, in modo equivalente, “ragione integrale” che, in quanto “spazio” antropologico condivisibile e condiviso, diventa “luogo” di rinascita del pensiero e dell’etica.

Attraverso la relazione fondante con Gesù Cristo l’uomo, nella sua umanità, è sanato e portato a pienezza. Solamente così è in grado d’esprimere un nuovo modo d’essere, una nuova antropologia dalla quale procedono anche peculiari e originali modelli di sviluppo, per quanto concerne la finanza, l’economia, il reddito, il bene comune, la destinazione universale dei beni; tali beni, quindi, vanno considerati anche perché hanno un riferimento realissimo e specifico alla grazia.

In tal modo il punto da considerare si connette al fatto che la salvezza cristiana non è collaterale all’uomo e neppure gli cala addosso dall’alto; non investe un uomo che, in se stesso, è già dato e salvato. Al contrario, l’evento cristiano incontra e s’inserisce sull’uomo, lo intercetta e, sanandolo, lo porta a compimento.

Sì, l’evento cristiano sana e porta a compimento l’uomo. Non di rado, le differenti culture che si sono susseguite – compresa quella della modernità e della contemporaneità – hanno dimenticato che l’uomo è un essere ferito, fragile, bisognoso di salvezza.

Questa valutazione di antropologia teologica, ovviamente d’ordine generale, ha una ricaduta specifica nei confronti dell’uomo che, tra le altre cose, è chiamato a realizzarsi anche attraverso il lavoro ma non può decadere a pura forza lavoro.

L’uomo viene sempre prima e va oltre la sfera economica, viene sempre prima e va oltre il profitto, viene sempre prima e va oltre il reddito, viene sempre prima e va oltre il Pil. L’uomo, insomma, mai può ridursi a realtà economica o tecnica (homo oeconomicus  o  tecnocraticus).

Passando da una considerazione di antropologia generale a una più specifica come, ad esempio, quella economica, dobbiamo metterne a fuoco e promuoverne i valori materiali e spirituali, personali e sociali, senza dei quali un’attività non può neppure essere considerata realmente umana.

E’ chiaro l’insegnamento di Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in Veritate dove leggiamo: “La sfera economica non è né eticamente neutrale né di sua natura disumana e antisociale. Essa appartiene all’attività dell’uomo e, proprio perché umana, deve essere strutturata e istituzionalizzata eticamente ” (n. 36).

Il lavoro va tutelato e sostenuto nelle differenti fasi che lo caratterizzano e tutti dobbiamo fare il possibile per sostenere quelle scelte che a vario livello (personale e sociale, privato e pubblico) sono decisive per una politica che ponga al centro il lavoro in tutte le sue componenti partendo, sempre, dalle persone.

In tal modo, grazie alla ragione umana “ripristinata” nella sua capacità “speculativa” e “pratica” e nel suo legame effettivo con la fede, la Chiesa si fa carico del lavoro – iniziando dalle persone – e se ne fa carico, a pieno titolo, guardando al bene comune. Se, invece, venisse meno il rapporto intrinseco tra retta ragione (speculativa-pratica) e fede, allora svanirebbe pure il legame con la verità, il  bene, la giustizia.

Se poi la fede smarrisse il suo legame con la retta ragione, tutto si ridurrebbe a un sapere fideistico; se la carità perdesse il rapporto con la giustizia, ogni circostanza, di fatto, si aprirebbe all’arbitrio (il buonismo è altra cosa rispetto all’ ”incontro” tra carità e giustizia); se poi la speranza non mantenesse un rapporto reale con la storia, ogni situazione potrebbe diventare fuga dalla vita presente, dalle proprie responsabilità, dal mondo.

In questi casi si darebbe una fede, una speranza e una carità non più intese come spazi entro i quali si è chiamati a realizzarsi a partire dalla propria umanità – ossia dalle relazioni personali, familiari, sociali, lavorative ed economiche – e, per il cristiano, tutto si ridurrebbe a pura astrazione.

[La terza parte è stata pubblicata martedì 18 settembre]

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ZENIT Staff

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