Dalla sofferenza alla solidarietà

Intervista al Cardinale George di Chicago

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CHICAGO, venerdì, 13 luglio 2007 (ZENIT.org).- Il Cardinale Francis George confessa di aver appreso una lezione dalla sofferenza: che nessuno si salva da solo.

Nel decimo anniversario della sua nomina ad Arcivescovo di Chicago, il porporato ha parlato con ZENIT degli insegnamenti e delle esigenze che derivano dal ruolo di pastore della terza diocesi più estesa degli Stati Uniti.

Quali sono state le prove più significative e i maggiori successi nel guidare 2,3 milioni di cattolici come Arcivescovo di Chicago?

Cardinale George: La sfida, in ogni epoca della storia della Chiesa è di aiutare Dio a creare santi, persone plasmate dal Vangelo, sostenute dai sacramenti della Chiesa e incoraggiate e amate dai pastori nella successione apostolica.

Tutte le istituzioni della Chiesa sono secondarie rispetto alla sua missione di rendere sante le persone, affinché possano trasformare il mondo e vivere in eterno con il Signore.

L’Arcidiocesi di Chicago ha visto nascere molte istituzioni nella sua storia ed è un dilemma continuo quello di mantenerle vive o di decidere quando è opportuno decretarne la fine.

La popolazione della città e delle due nuove contee che compongono l’Arcidiocesi è in continuo mutamento e movimento, ma le istituzioni sono radicate nella loro localizzazione e devono rispondere alle sfide provenienti dai cambiamenti nella popolazione e nelle condizioni economiche.

Un impegno straordinario deve essere assicurato per rafforzare la vita liturgica e garantire una catechesi adeguata. La riforma del clero, la supervisione del seminario e la formazione di nuovi programmi per i diaconi e i ministri laici sono aspetti di particolare attenzione. Tutto ciò è oggetto di un impegno gestionale costante.

La programmazione fa parte dell’arte del governare, ma d’altra parte è difficile vedere con chiarezza in avanti nel futuro. La programmazione quindi viene spesso superata dagli eventi che si susseguono. La cosa importante è quella di mantenere chiari i principi e poi di prendere le decisioni alla luce di questi.

Due eventi degli ultimi 10 hanno avuto un forte impatto sulla vita della Chiesa e sul suo ministero in questo Paese e nell’Arcidiocesi di Chicago: l’attacco sferrato contro il nostro Paese, in nome di Dio, l’11 settembre del 2001, e i perduranti effetti della crisi degli abusi sessuali riferiti, per la maggior parte, al periodo tra il 1973 e il 1986, e che però sono giunti alla ribalta dell’opinione pubblica nel 2002. Queste sfide che rendono difficile la missione della Chiesa esistono da noi ma anche altrove.

Come parziale risposta, Chicago oggi può contare su una nuova istituzione liturgica di una certo livello – la Chicago Scripture School per i laici – e su nuovi programmi di preparazione al ministero laico e giovanile.

Gli istituti caritativi cattolici continuano a rafforzare la loro opera in favore dei poveri. La rete dei cimiteri, delle parrocchie e delle scuole consente di esercitare la missione nei confronti dei cattolici praticanti.

Tuttavia, purtroppo, solo circa il 30% dei cattolici va a messa ogni domenica e molti di questi sono immigrati, persone formate al Cattolicesimo altrove. L’enorme influenza degli immigrati di lingua spagnola e polacca ha rappresentato una sfida colossale, e l’Arcidiocesi ha risposto in modo molto creativo.

Il contrasto ideologico nella Chiesa distrugge l’unità necessaria alla sua missione. Non possiamo vivere ed agire se siamo divisi sugli elementi essenziali della fede e della morale, o se taluni decidono che non sono tenuti a conformarsi alle decisioni dei Vescovi se queste non rispondono alle loro particolari aspettative.

Alcuni gruppi operano come una sorta di quinta colonna nella Chiesa, convinti della loro ragione e pronti ad indebolire o distruggere la Chiesa se questa non cambia secondo i loro desideri, o se i Vescovi non fanno esattamente ciò che essi chiedono.

È una sfida notevole dei nostri giorni, ma la risposta non può che essere la stessa data a partire da 2000 anni fa: la conversione della mente e del cuore.

Lei ha scritto una Lettera pastorale sul razzismo e promosso, all’interno nell’Arcidiocesi, gruppi di lavoro su questo argomento. Cosa l’ha spinta in particolare a concentrarsi su questa tematica?

Cardinale George: L’Arcidiocesi ha un ampio programma diretto a formare le persone così che siano in grado di individuare gli effetti del razzismo, perché questo è un peccato orrendo e profondamente radicato nella storia del Paese. È il peccato originale delle colonie di lingua inglese della sponda orientale che si ripercuote su tutti noi.

La Lettera pastorale “Dwell In My Love” (restate nel mio amore) affronta questo peccato analizzando molti degli effetti del razzismo sul nostro vivere insieme.

La sua Arcidiocesi, forse più di ogni altra, è nota come meta di immigrati. Dalla sua esperienza in questa zona, quali sono le necessità pastorali più pressanti relative agli immigrati?

Cardinale George: La prima generazione di immigrati, quando arriva qui, ha bisogno di trovare una Chiesa che li accolga, che è capace di guidarli e di parlargli nella loro lingua e secondo la loro cultura. I figli degli immigrati presentano un problema pastorale diverso, in quanto essi vivono una cultura a casa e una diversa cultura a scuola, a lavoro e con gli amici.

I sacerdoti non solo devono essere bilingui – o trilingui – ma anche biculturali, cosa che non è facile. La cultura ci dice cosa è considerato come un valore e cosa non lo è, e così anche la fede. Sono entrambe parte di noi e la Chiesa deve rispettare questo dialogo fra fede e cultura che avviene nel cuore dei credenti. È una situazione complessa, ma positiva.

Il messaggio fondamentale della Chiesa è che noi adoriamo un Dio che è amore, e dobbiamo essere disposti a sacrificarci per gli altri. Questo significa anche abbandonare le cose che ci sono care, talvolta persino la nostra lingua madre, al fine di poter far parte di un qualcosa di più grande. Questo costituisce il contesto, per poter combattere il razzismo e per accogliere gli immigrati.

Come collega di lunga data di Joseph Ratzinger, quale è la sua impressione sul Pontificato di Benedetto XVI?

Cardinale George: Benedetto XVI è pienamente all’altezza del suo ruolo. E’ una benedizione per la Chiesa.

Lei ha avuto numerosi problemi di salute negli ultimi anni, oltre alla polio contratta in giovane età. Cosa le ha insegnato la sua esperienza di sofferenza? Quali messaggi di speranza offre la Chiesa a coloro che soffrono?

Cardinale George: La sofferenza segna la condizione umana sin dalla sua caduta. Cristo ha utilizzato il male rappresentato dalla sofferenza e dalla morte per rovesciare gli effetti del peccato e portarci il dono della vita eterna.

Nella fede, la sofferenza è accolta come uno strumento per partecipare alla stessa passione e morte di Cristo. La tentazione che impedisce di cogliere il significato della sofferenza si chiama vittimismo o rancore: è la domanda “perché io?”.

Ciò che la sofferenza mi ha insegnato nel corso di lunghi anni è che uno non può costruire una vita, e tanto meno rispondere alla chiamata alla santità, sul rancore o il vittimismo. Queste sono gabbie che rendono la sofferenza inutile al perseguimento della santità.

La risposta della fede alla sofferenza deve anche andare oltre lo stoicismo, il semplice “stringi i denti”, perché questa reazione continua a voler isolare il dolore; essa non ci invita alla partecipazione, che è invece la via della salvezza.

La risposta spontanea della comunità di fede, alla sofferenza di ognuno dei suoi membri, è quella di pregare per loro. Questo esprime il senso di solidarietà proprio della comunione dei santi. Ciò che la sofferenza mi ha insegnato, tra le altre cose, è c
he nessuno si salva da solo; nessuno vive qui o nell’aldilà da solo.

La sofferenza ci può aiutare ad imparare ad accettare l’aiuto degli altri e ad andare oltre le proprie limitate esperienze. In questo modo, la sofferenza può diventare uno strumento per edificare la comunione.

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ZENIT Staff

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