Da operaio in fabbrica a vescovo…sempre tra la gente

Intervista a mons. Giancarlo Bregantini, arcivescovo di Campobasso-Bojano

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di Chiara Santomiero

ROMA, venerdì, 11 giugno 2010 (ZENIT.org).- Al termine dello speciale Anno sacerdotale, indetto dal Santo Padre Benedetto XVI in occasione dei 150 anni dalla morte del santo Curato d’Ars, ZENIT ha chiesto a mons. Giancarlo Maria Bregantini, arcivescovo di Campobasso-Bojano e di recente nominato presidente della Commissione Problemi sociali e lavoro, giustizia e pace della Conferenza episcopale italiana, una riflessione sulla figura del sacerdote oggi.

Sull’argomento mons. Bregantini ha scritto il libro “Lettera ai sacerdoti”, con un commento alla Lettera agli ebrei cui si intrecciano episodi della propria vita di presbitero.

Come è nata la sua scelta sacerdotale?

Bregantini: A undici anni sono entrato in seminario per diventare un religioso nell’Ordine missionario degli Stimmatini; la scelta del sacerdozio si è innestata solo nel cammino successivo. Avevo trent’anni quando sono stato ordinato presbitero perché la maturazione di questa decisione è stata progressiva e preceduta da un lungo cammino motivazionale: l’importante, per me, non era tanto “se” essere prete ma “come” esserlo.

Per alcuni anni, prima dell’ordinazione, ho svolto lavoro operaio, in particolare in una fonderia di Verona. Ho imparato molto andando a lavorare secondo il ritmo dei turni di fabbrica, in tempi difficili segnati dalle lotte sindacali. Molte delle situazioni che mi sono trovato a fronteggiare in seguito, le ho superate con il metodo imparato affrontando il mondo del lavoro che è abbastanza ostico per la Chiesa. E’ un mondo fiero, sicuro, che ti guarda dall’alto in basso, mentre il mondo rurale – dal quale provengo – è più accogliente, a tratti segnato da religiosità e spiritualità naturale. Gli anni di lavoro in fabbrica hanno allungato quelli di studio; quando ho finito – nel 1976 – sono andato a Crotone dove l’anno precedente la mia comunità religiosa aveva aperto una casa. E’ qui che sono diventato prete. La dimensione del sud, per uno che viene dal nord, è stata molto arricchente e ha completato il lavoro intrapreso di forte maturazione sulle motivazioni e sul metodo, simile a quello dei preti operai che a sua volta si rifaceva a quello di Charles De Foucauld: l’esperienza di un prete che “sta” con la gente.

Ci sono più modi di essere preti?

Bregantini: Si può essere preti guardando di più a certe dimensioni, per esempio quella cultuale o intellettuale: un professore dell’Università Gregoriana è un prete così come un parroco di Roma. Io avevo in mente la figura del parroco di periferia o del centro storico degradato di alcune cittadine meridionali.

Dove eravamo noi, un ambiente culturalmente molto povero nel centro storico di Crotone, nella mia stanzetta minuscola di un antico convento, sentivo i pianti dei bambini della famiglia accanto e questo aiutava ad immedesimarsi nei problemi di chi ti stava intorno.

Ho sperimentato come sia verissimo che la povertà difende tutte le virtù. La povertà difende la castità, l’obbedienza, la fede, la speranza di un prete perché gli fa porre la sua fiducia non sulle cose, ma sulla forza di Dio.

Un prete povero è molto amato anche oggi perché fa da specchio visibile di ciò che nel cuore di un prete non si può vedere. Dalla povertà economica si scorge la logica con la quale vive. La povertà è uno stile di vita che si accompagna all’accoglienza di chi bussa, alla condivisione delle situazioni di difficoltà, alla visita alle case più lontane della parrocchia, soprattutto alla visita agli ammalati. E’ una cosa che raccomando specialmente ai preti giovani perché essi hanno spesso atteggiamenti innovativi che per certi ambienti risultano addirittura spregiudicati. E’ facile che la gente dica: “ma che prete è?”. Se però il prete usa questi atteggiamenti, ma visita i malati, questa è una carta che convince tutti ed è vincente anche per chi non viene in chiesa. Così pure sono vincenti la generosità, la cura delle cose della chiesa, il non farsi una casa propria, trascurando magari la canonica.

E’ questo che vuol dire “essere sacerdote al modo di Melchisedek” di cui si parla nella Lettera gli ebrei?

Bregantini: Melchisedek rappresenta proprio la logica di un prete che non ha discendenza, non ha rapporti parentali e con le cose, con la ricchezza: offre solo pane e vino e non buoi o altri sacrifici. La sua è una dimensione di relazione fatta di gratuità. Diventa prete non perché appartiene alla tribù, come Aronne o Levi, ma per una chiamata gratuita. Si può essere prete secondo Aronne, cioè secondo la tradizione, o secondo Melchisedek.

Secondo Aronne è quando ti senti “arrivato” e batti i pugni: “il parroco sono io…”.

Cristo, invece, che è sacerdote secondo Melchisedek, non ha appartenenze ma competenze, cioè qualità di gratuità, generosità, bellezza nello stile di vicinanza alle persone, tutte cose che la Lettera agli ebrei mette in evidenza.

C’è una frase molto bella a proposito di Gesù: “non si vergogna di chiamarli fratelli”. Lui non si occupa di angeli, ma di uomini che hanno paura, che hanno peccato, che hanno dei limiti. Questa è la logica di un prete. Tutti i problemi diventano i suoi ma senza assumere un atteggiamento di giudizio. Analizzare i fatti senza giudicare le persone è la bravura di un prete. Non è facile ma è il dono più grande che egli può avere.

Il curato d’Ars non era intellettuale…Come si sceglie un sacerdote? Cosa c’è al cuore della vocazione sacerdotale?

Bregantini: Una parola antica: lo zelo. E’ una parola che è stata messa un po’ da parte, perché aveva il sapore di propaganda o di indottrinamento. In realtà lo zelo è la passione con cui guardi le cose e le vivi e non è dato dalla capacità intellettuale. Certo il sapere è importante ma bisogna sapersi giostrare come hanno insegnato i grandi padri della Chiesa che sapevano di teologia ma non erano degli intellettuali, bensì dei pastori. Più che la scienza, occorre imparare la sapienza ed essa chiede di saper leggere i fatti e saper leggere i libri.

La sapienza non è una capacità innata, si acquista. Il curato d’Ars non aveva avuto la possibilità di studiare e faceva fatica. Però una volta prete organizza le cose bene: cerca il coinvolgimento dei laici, crea una scuola per le ragazze. Parla con estrema semplicità ma laddove non arrivano le parole, arrivano le lacrime, l’esempio, le sue esortazioni, il suo calore. Soprattutto, confessa.

Il metodo che il Papa mette in evidenza è molto acuto. Si tratta del famoso “triangolo”: il curato d’Ars sta in chiesa molte ore; la gente sa di trovarlo lì e quindi lo va a cercare; chi lo vede pregare ne è edificato e quindi anche la gente si mette a pregare e poiché sta confessando, la gente si confessa.

Così il triangolo riaccende la vita pastorale del paese, perché il prete dà l’esempio, l’esempio crea preghiera, la preghiera crea sacramento, il sacramento della confessione crea vita diversa e il circuito è semplicissimo, non richiede una grossa organizzazione o libri da studiare.

Come si trova l’equilibrio tra lo spendersi per gli altri e lo stare con Dio?

Bregantini: Non ci sono formule, però ci si accorge che se uno sta con Dio – per esempio attraverso un’intensa preghiera al mattino – la giornata ha risorse inaspettate e risposte molto più dense di altri giorni in cui il dover fare ha limitato la preghiera. E’ molto più affannosa una giornata cominciata con il “fare” rispetto a una giornata cominciata con il pregare. L’equilibrio sta nel darsi un orario, essere abbastanza fedele, combattere fino in fondo la battaglia del cuore e quando il tempo con Dio è poco – perché magari mentre stai pregando arriva un’emergenza -, come diceva il nostro S. Vincenzo De Paoli “è sempre seguire Dio chi lascia Dio per Dio”, cioè chi non p
uò stare in chiesa a pregare perché ha un problema serio a cui porre attenzione.

In che misura il rapporto con i laici contribuisce a definire il ministero sacerdotale? Come lo ha fatto nella sua esperienza?

Bregantini: Tantissimo. A tratti in maniera molto decisiva. Credo che il vescovo abbia due mani: la mano destra è quella dei presbiteri ma c’è anche la mano – altrettanto importante – dei laici.

Non sempre si guarda ai laici in termini di corresponsabilità, piuttosto di collaborazione. La differenza sta nel fatto che la collaborazione agisce sugli strumenti, la corresponsabilità opera sui fini. Noi vorremmo dei buoni collaboratori, ma temiamo i laici corresponsabili che dialogano, interagiscono e a volte contestano. Hanno la potestà di farlo perché hanno la stessa chiamata battesimale. Questo non risulta molto gradito perché sembra che una realtà paritetica tolga l’autorevolezza o l’autorità.

E’ qui il difficile, sentire i laici veramente fratelli, cioè persone che ti plasmano dentro, creano spazi di verità. E’ un lavoro lungo che richiede laici preparati. E’ importante il lavoro delle associazioni ecclesiali come l’Azione cattolica, gli Scout, il Rinnovamento nello Spirito che creano laici di spessore che hanno anche un occhio attento, strategico, intelligente.

Il territorio influisce sul proprio ministero?

Bregantini: In maniera determinante così come Nazaret ha influito su Gesù che poi da adulto è andato a Cafarnao e quindi a Gerusalemme. Nazaret è un paese sperduto, Gerusalemme è la capitale: caos, lingue diverse, soldati, soldi, potere. Gesù è stato forgiato dagli ambienti e la stessa cosa è stata per me. Dico spesso che ho tre colori dentro: i colori vivissimi del Trentino, quelli accesi della Calabria e quelli pastello del Molise. E’ una formula per indicare che l’importante non è tagliare la vita a pezzetti ma di intrecciarla, fare in modo che nulla vada buttato via.

Il Trentino mi ha dato l’amore alla terra organizzata secondo criteri di cooperazione, il senso del lavoro fatto insieme. La Calabria mi ha dato la vivacità, il gusto delle relazioni, il calore dei dialoghi intensi, stare vicino alle persone, piangere con loro, condividere gli ideali. Il Molise ha una sfumatura molto più dolce. Appena arrivato un sindaco mi ha detto: “è una terra vivibile”. Dire vivibile però non significa acquiescenza, ma un impegno ancora più forte affinché resti tale, orientando bene le scelte per il futuro, per esempio in materia di risorse energetiche.

Il prete oggi ha ancora una funzione sociale nel nostro Paese?

Bregantini: Nelle città si sente di meno, nelle periferie delle città di più, al sud ancora di più. Più il contesto è perfezionato dal punto di vista delle strutture sociali, meno si avverte questa funzione del prete.

Non lo è più come aiuto diretto nelle situazioni di disagio, però lo diventa in altro modo, dove c’è più solitudine, dove c’è più bisogno di riferimenti, di chiarezza. Un vero prete non può non avere risposte rispetto ai problemi sociali, la fede è incarnata. Il prete deve essere colui che sa capire, che non esaspera gli animi, sa essere fratello, indica la strada, scuote, sa dire anche le cose tristi che ci sono in un territorio. Io lo paragono a una sentinella. In Calabria mi sentivo più il pastore che difende dal lupo; in Molise più una sentinella. In genere i preti in Italia sono soprattutto sentinelle. Credo che sia un compito più difficile perché il pastore lavora con la luce; la sentinella deve vegliare di notte. Essa ha tre funzioni: vigilare con occhio esperto e chiaro, svegliare con voce profetica e, soprattutto, intravedere quanto resta della notte.

Cosa consiglierebbe a un seminarista?

Bregantini: Soprattutto l’umiltà, piuttosto che la bravura. Oggi i seminaristi sono già bravi ma la sicurezza può diventare autoreferenziale e mettere in crisi nel contatto con la gente. Alla gente non importa che tu sia bravo ma che tu sappia stare loro vicino.

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ZENIT Staff

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