"Critica della teologia politica"

L’ultima fatica letteraria di Massimo Borghesi è un libro dagli alti contenuti, ma fruibile da chiunque fosse interessato all’argomento

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Nella visione cristiana, ogni realtà umana, grazie all’Incarnazione, è abbracciata ed elevata. A questa logica non si sottrae nemmeno la sfera politica che tanto ha ricevuto dall’intelligenza della fede e dalla comprensione del mondo che il cristianesimo ha.

A questi temi è dedicata l’ultima fatica letteraria di Massimo Borghesi, docente ordinario di Filosofia morale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Perugia, che ha per titolo Critica della teologia politica. Da Agostino a Peterson: la fine dell’epoca costantiniana ed è edita da Marietti.

L’autore affronta il rapporto fra religione e politica dando al suo saggio un taglio storico e filosofico. Egli inizia col descrivere la situazione di sostanziale connubio fra politica e religione (pagana) nell’antico impero romano, dove la figura dell’imperatore deteneva allo stesso tempo il potere politico e quello religioso.

Contrariamente a quanto sostiene il luogo comune, il docente ritiene che la religione politeista romana non era affatto tollerante verso le altre religioni, almeno nel modo in cui oggi intendiamo questa parola.

La “tolleranza” romana era dettata dalla logica della pax deorum ovvero dall’adorazione di tutti gli dei del cielo al fine di ottenere da essi pace e prosperità per l’Impero.

La religione pagana poteva tollerare altre divinità straniere, che potevano essere incluse nel Pantheon romano, ma si scontrò con il monoteismo cristiano che quel Pantheon non ammetteva.

Ma il cristianesimo, soprattutto, non riconosceva all’imperatore alcun carattere divino. In ciò i cristiani portarono una novità assoluta che sarà determinante per il futuro della storia umana: la desacralizzazione del potere politico.

Questo nuovo modo di vedere il rapporto religione-politica mandò in tilt il mondo antico e causò la persecuzione dei cristiani almeno fino all’avvento di Costantino.

Nei primi tre secoli troviamo numerosi autori cristiani che si battono per la “libertà religiosa” come Tertulliano e Lattanzio. Nelle loro opere esortano i pagani a rispettare ogni culto, perché “non è della natura della religione il forzare la religione stessa”.

Quando il cristianesimo acquisisce una maggiore importanza nel contesto culturale romano, è un autore cristiano convertito dal paganesimo come Firmico Materno a teorizzare per la prima volta l’uso della forza per estirpare il paganesimo, una posizione questa che si pone in forte contraddizione con quanto precedentemente insegnato da illustri uomini di Chiesa.

Si arriva così al cuore del problema che l’autore vuole prendere in considerazione: la posizione di Agostino e il suo influsso nei secoli successivi. Il pensiero del Vescovo di Ippona sul rapporto fra religione, politica e uso della forza si ricava dall’epistolario e dal De civitate Dei. Fino all’anno 405, Agostino, in accordo con quanto insegnato da molti cristiani, è contrario all’uso della forza per risolvere le questioni religiose. Agostino cambierà posizione dopo le repressive misure adottate dall’Imperatore Onorio contro i donatisti, misure senza le quali difficilmente si sarebbe ricomposto lo scisma. Questa svolta, palese se si legge il suo epistolario successivo all’anno 405, data l’influenza nella storia dell’occidente cristiano – nota l’autore – sarà gravida di conseguenze.

Quando tuttavia l’Ipponate fra il 412 e il 426 compone il De civitate Dei, il suo spirito è ancora permeato dalla visione tollerante che è stata tipica dei cristiani dei primi tre secoli, al punto che, continuando a esprimersi attraverso le categorie proprie di una “politica desacralizzata”, Agostino affermerà che l’accusa rivolta ai cristiani di aver reso vulnerabile Roma per non aver venerato i suoi dei è del tutto priva di fondamento.

Secondo Borghesi, per tutto il medio evo il De civitate Dei è stato letto alla luce dell’epistolario, e non, come sarebbe stato più logico fare alla luce della maturazione dell’ipponate, il contrario. Da questa lettura deriva quello che l’autore chiama “agostinismo medioevale”, cioè un sistema di idee che ha contribuito a fare avvicinare di nuovo, e in maniera eccessiva, la politica e la religione.

Un revival della antica visione pagana, sostenuta anche dal fatto che le mistiche Civitas Dei (animata dall’amore di Dio) e Civitas mundi (animata dall’amore egoistico) sono state rispettivamente ridotte nella Chiesa e nello Stato. Il carattere mistico di queste due Civitates fa sì che la Civitas Dei non si potrà mai realizzare come Civitas terrena.

Agostino insomma, con la sua visione, spazza via ogni possibilità di “teologia politica”, cioè ogni teologizzazione della realtà politica. Agostino invece ha una “teologia della politica”, cioè una visione cristiana di ciò che riguarda la sfera politica.

Di ciò fu convinto il teologo e scrittore cattolico Erik Peterson autore nel 1935 de “Il monoteismo come problema politico”, il saggio che voleva contestare l’espressione “teologia polita”, coniata e adoperata da Carl Schmitt come titolo di un suo libro del 1922. Mentre Peterson nega qualsiasi contiguità fra teologia e politica, per Schmitt ogni sistema politico è una trasposizione in termini laici di una visione religiosa.

Nel libro Borghesi traccia i profili di altri autori recenti che sono stati influenzati, chi in un modo, chi in un altro, dalle idee di Agostino, Peterson e Schmitt.

Un libro dagli alti contenuti, ma fruibile da chiunque fosse interessato all’argomento. Ogni tesi sostenuta nel saggio è ampiamente documentata da un serio apparato critico.

Per approfondimenti o informazioni: www.nicolarosetti.it

(Articolo tratto da Àncora Online, il settimanale della Diocesi di San Benedetto del Tronto)

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Nicola Rosetti

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